Archivio | marzo 2008

L'appello disperato del Dalai Lama

La drammatica situazione del Tibet sembra non avere tregua, tanto meno una via d’uscita. L’Occidente ha cercato, sia pure blandamente di scuotere qualche coscienza, ma tutto sembra bloccato tra le sabbie mobili dell’indifferenza della maggior parte degli stati e dei governi.
Nel frattempo continuano gli abusi su una popolazione che non viene difesa seriamente da nessuno.
Eppure le immagini che anche oggi abbiamo visto sono pugni terribili nello stomaco.
Mi chiedo se ancora esista “un’ umanità”, o se ormai sia diventata semplicemente una sovrastruttura, un di più, qualcosa di superfluo.
Ci fa pensare e ci tocca profondamente l’articolo di Daniele Mastrogiacomo pubblicato ieri su la Repubblica.
 
 
L’appello è forte, drammatico. Un grido disperato che si irradia, in un silenzio quasi surreale, nei giardini freschi e ben curati del Rajghat. La folla ascolta, attonita, triste, preoccupata mentre il Dalai Lama, quattordicesimo maestro spirituale del buddismo tibetano, s’inchina e prega davanti al mausoleo del Mahatma Gandhi. Congiunge le mani sopra la testa, per tre volte s’inginocchia, alza lo sguardo verso il cielo e con voce strozzata da un dolore represso a lungo si rivolge al mondo. “Vi prego”, implora, “aiutateci a risolvere la crisi in Tibet. Non abbiamo altro potere se non la giustizia, la verità, la sincerità. Siamo impotenti. Io posso solo pregare. E’ per questo che chiedo ala comunità internazionale di aiutarci. Noi siamo pronti, siamo aperti al dialogo, ad un qualsiasi confronto, aspettiamo un segnale”.
La fiamma che veglia sulle ceneri del padre dell’Indipendenza, assassinato con tre colpi di pistola proprio sessanta anni fa, sembra vibrare sotto il peso di un discorso che arriva dritto al cuore. Le notizie che giungono dal nord dell’India, dal piccolo villaggio di Mc Leod Ganji, a pochi chilometri da Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio, non sono incoraggianti. La folla dei fuggiaschi che giunge stremata da Lhasa e dalle province di Amdo e di Kham, racconta di nuove stragi e di una repressione durissima da parte delle forze speciali della polizia della Repubblica popolare cinese. Nessuno è in grado di indicare il numero dei morti, dei feriti, dei dispersi, delle persone picchiate e sbattute in carcere.
Pechino è irremovibile. Continua ad accusare il Dalai Lama. Lo considera il vero responsabile della protesta iniziata l’11 marzo scorso e degenerata tre giorni dopo con l’assalto a negozi e case dei cinesi trapiantati in Tibet. Ammette solo 19 morti: 18 civili e un poliziotto. Ma le testimonianze raccolte e confermate da più fonti interne al governo in esilio parlano di 140 vittime e di 414 arrestati. La maggioranza sono monaci. Il gruppo di 26 giornalisti, selezionati dal governo cinese tra i corrispondenti esteri, è già rientrato a Pechino. La visita “guidata” di tre giorni concessa come una prima, timida apertura alle pressioni internazionali, non è riuscita a stabilire una verità oggettiva. La delegazione di 15 diplomatici, invitata a visitare Lhasa per 48 ore, è stata costretta a seguire un percorso obbligato. Molti avevano chiesto di poter visitare i monasteri di Drepung, di Ganden e di Sera. Ma i funzionari di quella che viene chiamata Regione autonoma del Tibet si sono opposti adducendo motivi di sicurezza. I soldati in assetto di guerra che circondano i templi buddisti non sono però sfuggiti agli occhi degli osservatori e alle telecamere delle tv.
Grazie al coraggio di una trentina di monaci, il mondo ha potuto vedere le scene strazianti dei novizi che si sono catapultati fuori dal monastero di Jokhang e hanno chiesto aiuto, giustizia, verità, tra lacrime e grida di disperazione. Un gesto davvero eroico. La Cina ha garantito che non saranno puniti. Ma si sa che quei giovani bonzi rischiano il carcere, gli interrogatori, le torture. Il Dalai Lama è preoccupato, sente di dover fare qualcosa. E’ stato molto cauto, equilibrato. Ha difeso la Cina, si è opposto al boicottaggio delle Olimpiadi, ha chiesto, timidamente, un colloquio, un confronto. Lo ripete anche adesso. Con voce calma, con un sorriso che addolcisce il viso tirato da giorni di angoscia. “Noi siamo qui, siamo aperti. Attendiamo”.
Pechino risponde con durezza e arroganza. Lo ha trattato da bandito, lo ha additato come la mente della rivolta, lo ha accusato di voler boicottare i Giochi, ha respinto ogni offerta di confronto. Ieri mattina, qui a Delhi, davanti al sacrario del Mahatma, circondato da decine di rappresentanti hindu, musulmani, sick, jain, e da centinaia di tibetani, il capo spirituale della chiesa buddista ribadisce l’impegno per una linea tollerante. Spiega che l’obiettivo del suo popolo è “raggiungere un’autonomia significativa” del Tibet, lasciando a Pechino la gestione della politica estera e della difesa. Ma le immagini rilanciate anche ieri dalla tv e i racconti di chi riesce a varcare l’imponente catena dell’Himalaya, trovando rifugio a Dharamsala, lo hanno scosso in profondità. Dopo la preghiera si lascia andare ad un grido di dolore. “In Tibet”, dice con voce grave, “la Cina ha imposto un regime di polizia. Sta perpetuando un genocidio culturale. Intere popolazioni di etnia kham sono state trasferite verso Lhasa alterando l’equilibrio demografico. Sappiamo dell’esistenza di un piano ben preciso: presto il nostro paese sarà invaso da un altro milione di cinesi. La cultura tibetana, la nostra storia, le nostre tradizioni rischiano di essere cancellate”. Pausa. La voce del Dalai Lama ora è lieve. “Le autorità di Pechino hanno tutto il diritto di organizzare le Olimpiadi. Per loro è motivo di orgoglio e di fierezza. Ma dovrebbero anche rispettare i diritti umani e le libertà religiose”. Il premio Nobel per la pace 1989 resta in silenzio per alcuni minuti. Nessuno parla, grida, applaude. C’è troppa tensione.
Pechino annuncia un risarcimento di 200 mila yuan a testa, circa 18 mila euro, per le vittime degli scontri dei giorni scorsi.[…]. Il maestro scuote la testa. Torna a sorridere, ironico. Punta su una carta disperata: uscire di scena per liberare il suo popolo dalla morsa cinese. “Forse”, dice, “è arrivato il momento di ritirarmi. Ho 72 anni, sono quasi in pensione. Credo sia più utile prepararmi alla prossima vita”.
Dalla folla sale un boato, seguito da urla, braccia alzate, lanci di petardi e di ghirlande. E’ un invito plateale a resistere, a combattere, a restare. Le regioni a nord dell’India bruciano di rabbia e di protesta: 84 monaci vengono arrestati mentre manifestano davanti all’ambasciata cinese di Katmandu, in Nepal.
 
Daniele Mastrogiacomo

Ascolto

Sola in casa,
nessuno che parla o si muove
intorno a me.
Il silenzio mi circonda,
ma è un silenzio pieno di suoni,
di voci tenui, lontane,
appena abbozzate.
 
Ascolto e trattengo il respiro.
 
Quanta vita intorno!
Non è chiasso, non è rumore,
è un modo dolce, pacato
per sentire meglio i richiami
dentro di noi.
 
Sto zitta e immobile
mentre il cuore parla,
e mi sento protetta, capita,
mai tradita.
 
Ascolto la mia coscienza
e rifletto sulla vita.

Piera Maria Chessa

A Venezia, venti disabili fermati dalle barriere architettoniche

 
E’ stato impossibile per un gruppo di venti persone disabili e per i loro accompagnatori entrare, a Venezia, nelle Gallerie dell’Accademia per visitare una mostra.
Rabbia e dispiacere per loro che, oltretutto, sono rimasti a lungo sotto la pioggia, e grande imbarazzo per gli organizzatori che hanno cercato, inutilmente, di risolvere in qualche modo il problema.
 
 
 
L’ultimo Tiziano” proibito a un gruppo di disabili.
Una comitiva di venti persone (di Spilimbergo, provincia di Pordenone) in carrozzina, una volta raggiunte le Gallerie dell’Accademia a Venezia è rimasta bloccata fuori per due ore, sotto la pioggia.
Ma ad impedire la visita alla mostra non è stato il maltempo, bensì le barriere architettoniche. A nulla sono valse le rimostranze e la rabbia dei venti disabili e dei loro accompagnatori, che hanno anche tentato di bloccare per protesta l’ingresso alla mostra.
“E’ una vergogna – commenta Paola Zelanda, la capogruppo – ogni volta che ci muoviamo per andare a visitare un luogo ci informiamo sull’accessibilità delle strutture. Se non riceviamo garanzie sufficienti, rinunciamo. Ma sono stati gli organizzatori della mostra a rassicurarci. Invece all’ingresso ci hanno detto che al massimo sarebbero potute entrare un paio di carrozzine”.
I dipendenti delle Gallerie spiegano che le prenotazioni sono gestite attraverso un call-center che ha sbagliato, non fornendo tutte le informazioni. La più dispiaciuta è Giovanna Nepi Scirè, soprintendente per il patrimonio storico-artistico: “E’ una vicenda molto triste – ha detto – che non si ripeterà. Il prossimo anno, con l’apertura delle Nuove Gallerie dell’Accademia, ci sarà un ascensore apposito per i disabili.
Per evitare che la comitiva restasse sotto la pioggia – conclude – era stata offerta una visita alle gallerie di Ca’ d’Oro, ma purtroppo non è stata accettata”.
 
Nicola Pellicani – la Repubblica – 29 marzo 2008
 

D'Alema a Saviano

Ieri è apparso sul quotidiano La Repubblica questo breve articolo nel quale viene riportata una dichiarazione di Massimo D’Alema in risposta
all’articolo firmato da Roberto Saviano e pubblicato sullo stesso giornale qualche giorno fa.
Quell’ articolo è stato riportato anche su questo blog.



Lo scrittore Roberto Saviano aveva invitato i leader nazionali a dire parole chiare sulla criminalità organizzata e Massimo D’Alema gli ha risposto da Scampia: "Saviano chiede una dichiarazione, ma forse alla politica sarebbe meglio chiedere atti e noi ne abbiamo compiuti di rigorosi in termini di rafforzamento delle leggi, di difesa della indipendenza della magistratura e per colpire i patrimoni dei mafiosi. Credo che il suo richiamo sia giusto ma anche che la nostra risposta ci sia".
"Se ci misuriamo sulle cose concrete – ha sottolineato D’Alema – il Pd può dire che fa della difesa della legalità e della lotta alla criminalità un punto fermo della sua visione della società italiana".
Saviano aveva ricevuto molte offerte di candidatura alle elezioni ma vi ha rinunciato perchè "non si può parlare di mafia a una sola parte politica. E il centrosinistra dà sempre per scontato che la mafia stia dall’altra parte".

                                                La Repubblica26 marzo 2008 

 

 

Un articolo coraggioso

Affrontiamo nuovi problemi, ma non smettiamo di parlare e di ricordare la drammatica situazione del Tibet e dei suoi abitanti.
Niente è stato ancora risolto, quindi abbiamo il dovere di
NON DIMENTICARE!
 
 La questione criminale? Affare del sud, come i rifiuti
Un articolo forte, coraggioso questo di Roberto Saviano, parole che arrivano addosso pesanti ma estremamente trasparenti nei contenuti. Concetti e opinioni espressi con fermezza, che “costringono” ad affrontare i problemi trattati, a “guardarli” senza nasconderci.
Le parole di Saviano lasciano il segno, Lasciano “solchi” nella nostra mente. Ed è giusto che sia così perché la nostra riflessione continui.
 
 
 
La speranza non ha un volto solo: ne ha dieci, cento, mille, centomila. Volti di ragazzi che sfilano con gioia, opponendo allegria alla cupezza di chi schiaccia il loro futuro, lo soffoca, umilia, disintegra. Volti di ragazzi che con quell’allegria urlano la voglia di libertà, la disperazione per un destino senza nulla in cui credere. La loro marcia era scandita da un elenco senza fine, rilanciato da tutti gli altoparlanti[…]: la cantilena ossessiva di un rosario doloroso che unisce in una catena settecentocinque nomi.
Settecentocinque cadaveri, settecentocinque giusti, settecentocinque vite che si sono spente ma non piegate lottando contro la mafia: un sacrificio di massa che permetteva a quei ragazzi di marciare senza minacce. La litania dei martiri era infinita, la lista ricominciava sempre dall’inizio, come se la speranza di legalità potesse risorgere soltanto dal sacrificio, dal sangue versato per rendere fertile la terra desolata.
Neppure il miracolo di Bari ha smosso qualcosa, neanche l’ondata umana che nel segno di Libera ha riunito tanti ruscelli in unico gesto di rivolta ha dato una scossa ai media chiusi nel torpore di una quotidianità disillusa e alla politica di una campagna elettorale dove si fatica a trovare un contenuto dietro le parole.
Mafia è una parola rara e banalizzata, bisogna maledirla per copione e poi dimenticarla in fretta per andare avanti con comizi che devono sempre occuparsi d’altro.
Sarebbe stato meglio se mafia fosse stato un termine pericoloso, di quelli che fanno da calamita all’odio, una parola che si fa carne viva di impegno. L’hanno formattizzata, diventa un punto in scaletta, per condire l’introduzione del discorso come i saluti di circostanza.
O peggio del peggio, da relegare nelle regioni meridionali. I leader del centrosinistra e centrodestra non se ne sono occupati? – mi è stato risposto solo pochi giorni fa – ma lo faranno più avanti, quando arriveranno nel Sud, lo faranno a Napoli quando chiuderanno la campagna.
Lo faranno a sud, come per i rifiuti più velenosi che nessuno sa dove buttare e si mandano a inquinare una terra contaminata e condannata.
Lo faranno a sud, come se la potenza della criminalità organizzata non riguardasse il nord, come se la ricchezza dei traffici mafiosi non arricchisse le banche padane o se i voti manovrati dai padrini non condizionassero i palazzi romani.
Il perimetro del problema agli occhi della politica si è ristretto da piaga planetaria ad affare locale: […].
‘Ndrangheta, camorra e mafia, anzi, come le chiamano gli affiliati, Cosa Nuova, Sistema e Cosa Nostra sono oggi più di ogni altro il “potere forte”. Quello che controlla direttamente un terzo del paese, quello che è infiltrato in tutto il territorio e ha facoltà di condizionare indirettamente interi settori dell’economia – i trasporti, gli ospedali, i subappalti edili, le catene di supermercati, la produzione tessile, il comparto agricolo, l’industria alimentare, le candidature dei primari, la distribuzione di benzina, i centri commerciali – come un cancro le cui metastasi si sono già diffuse in ogni parte d’Italia e persino d’Europa.
Il potere che decide con quale parte politica schierarsi, quello capace ormai da decenni di sottomettere la politica dei propri territori d’origine e persino di quelli d’investimento al punto di non avere più bisogno di accedere a coperture di livello superiore.
Le mafie oggi possono farne a meno perché si sono fatte più ciniche, più realistiche, e perché sono diventate infinitamente più potenti e indefinite, allo stesso tempo arroganti e mimetiche.
Parlarne, affrontare il problema significa rischiare di perdere un numero troppo alto di consensi, ecco perché. Così tutti si limitano a commenti di solidarietà con le vittime e gli inquirenti, complimenti alle forze dell’ordine, generici appelli alla moralità e alla lotta alle mafie.
A Palermo le denunce dei commercianti per la prima volta fanno arrestare gli estorsori, è una rivoluzione che per loro merita giusto il tempo di un comunicato. E poi tutto tace di nuovo.
Ma perché siano le mafie a tacere per sempre bisogna fronteggiarle senza compromessi, anche a costo di perdere le elezioni nell’immediato per “vincere” col tempo una ricchezza e una libertà inestimabili – la salvezza del nostro paese.
L’unica che potrà non far sentire l’Italia un paese determinato dal potere criminale.
Nessuno crede che il compito della politica sia di costruire paradisi[…]. Nessuno può pensare che ci siano ricette taumaturgiche, che basti un po’ di decisionismo e di buona volontà per risanare ciò che per decenni è stato lasciato incancrenire.
Ma si smetta di trattare i cittadini come appartenenti a due tifoserie opposte che non possono far altro che scegliere fra l’una e l’altra fazione e con questo si assumono ogni responsabilità di quel che accade dopo le elezioni.
Si smetta di chiedere loro con chi stanno. Inizino piuttosto i partiti a dire attraverso scelte chiare in che modo vogliono stare con i cittadini. Scelte che non siano di comodo e di compromesso, che non mirino a un rinnovamento di facciata senza il coraggio di disfarsi dei meccanismi che portano in cambio voti sicuri.
Inizino pure dalla fine, se non hanno altro da dire prima.
Walter Veltroni sarà a Napoli, pochi giorni prima del voto, lì sappia trovare parole che nessun cittadino e nessun mafioso possano mai dimenticare.
 
Roberto Saviano – L’espresso – 27 marzo 2008

La saggia legge

 Le mani giunte,
gli occhi che scrutano i cuori,
tu tracci la strada
che porta a capire
come sia possibile parlare.
Disposto a tutto,
persino a rinunciare
al tuo forte potere spirituale.
 
E chiedi ai tuoi
di non attraversare
la strada di chi ha scelto
di far male.
Chiedi di rispettare
la saggia legge della non violenza,
che ponga fine e trovi soluzione
ad una dolorosa resistenza
fatta di lutti, ferite e umiliazioni,
mancanza di diritti,
doveri a non finire.
 
E chiedi infine
a chi tiene il potere
il rispetto di un popolo provato,
non più disposto a vivere di fame
sotto leggi inique e disumane,
abituato a condurre un’esistenza
 regolata da un’inutile ubbidienza.
 
Piera Maria Chessa

Il Dalai Lama: "Basta violenze"

Si continua, giustamente, a parlare del Tibet, delle manifestazioni dei monaci buddisti, delle rappresaglie e delle violazioni dei più elementari diritti, dei massacri e delle torture che son costretti a subire. Il regime continua ad accusare il Dalai Lama di provocare le ribellioni dei tibetani contro il governo centrale, di essere l’artefice dei disordini, di voler rovinare i Giochi Olimpici.
Tutti noi sappiamo come stanno le cose, e proviamo orrore e sdegno davanti alla durezza delle autorità cinesi, rabbia ed impotenza.
L’unica cosa che possiamo fare è tenere ben desta l’attenzione su questi fatti, scriverne, parlarne, evitare di mandarli dentro i profondi cassetti dell’oblio e dell’indifferenza.
Con questo fine propongo un articolo di Fabio Cavalera, giornalista del Corriere della Sera. 
 
 
 
La tregua è fragilissima, può spezzarsi da un secondo all’altro, ma c’è.
Il premier cinese, Wen Jiabao, e il Dalai Lama si parlano a distanza. Ciascuno col proprio linguaggio e i propri codici comunicativi.
Lo fa Wen Jiabao in conferenza stampa, accusando “la cricca del Dalai Lama di avere premeditato e organizzato l’insurrezione” e di volere rovinare le Olimpiadi, prospettando però una ricomposizione. E lo fa il Dalai Lama, ringraziando la comunità internazionale sia per il sostegno che sta offrendo sia per “il tentativo di convincere le autorità cinesi ad esercitare un freno nei comportamenti con i dimostranti”, ripetendo in un comunicato scritto che la Cina è responsabile di “genocidio culturale, minacciando infine di andarsene se dovessero ripetersi le violenze sia di parte cinese sia di parte tibetana: "Non mi rimarrebbe che tornare ad essere un semplice monaco buddista”.
Però dietro ai loro interventi, duri e propagandistici nel caso di Wen Jiabao, semplici e severi nel caso del Dalai Lama, si nota qualcosa di nuovo. Presto per dire se il realismo politico che contraddistingue i due discorsi potrà allontanare il fantasma di una strage. Ma emergono segnali di moderazione.
Ieri cento persone che hanno partecipato agli incidenti di venerdì scorso a Lhasa si sono consegnate, secondo la tv cinese. E’ come se il congelamento della situazione, lo status quo con l’esercito che presidia Lhasa ma non carica le armi e con il popolo tibetano che si astiene dal manifestare il suo risentimento anticinese, vada bene ad entrambe le parti delineando l’unica base di partenza per superare la crisi che ha provocato decine di morti e forse altri 19 (dice il governo tibetano in esilio) nella provincia del Gansu.
La Cina è stretta in un angolo. La pressione dei governi non passa inosservata a Pechino anche se determina reazioni al limite della stizza: il portavoce del ministero degli Esteri ha invitato l’Europa a distinguere “la verità dalle menzogne”.
Ma quel che conta è la voce del premier, Wen Jiabao. Il quale per due ore e mezzo ha parlato ai giornalisti. Il regime, di fronte alle emergenze, nasconde bene i suoi conflitti interni; che vi siano spinte opposte a risolvere la rivolta del Tibet, lo rivelano gli ultimatum delle autorità locali, grevi e minacciosi, e le parole di Wen Jiabao che, se si mettono in parentesi le frasi scontate, enunciano un concetto chiaro.
E’ il primo, fra gli uomini di vertice della nomenklatura, a pronunciarsi così: ”Se il Dalai Lama rinuncia alla separazione e riconosce che il Tibet e Taiwan sono territorio della Cina le porte del dialogo restano aperte”. Poiché la politica in Cina ha un corso diverso che nel resto del mondo e i suoi tempi sono molto più lunghi, bisogna intendere questa frase come un passaggio cauto e concreto, premessa di una non più impossibile distensione.
Il Dalai Lama ha già espresso due giorni fa il suo pensiero e lo ha ripetuto: lui è contro la secessione del Tibet, chiede l’autonomia e una commissione internazionale “della quale sia parte anche la Cina che decida sui fatti e sulle accuse che mi vengono mosse”. Se l’indipendenza del Tibet non è materia in discussione, la tregua può divenire qualcosa di più serio.
Wen Jiabao e il Dalai Lama hanno un comune nemico: l’intolleranza delle ali estremiste del regime e della opposizione tibetana. Il fatto nuovo è che entrambi parlandosi a distanza lo hanno dichiarato.
Wen Jiabao in modo indiretto. Il Dalai Lama con una schiettezza fuori dagli schemi che potrebbe servire a rassicurare la Cina: "Se i tibetani hanno scelto la via della violenza, noi dobbiamo  dimetterci perchè siamo completamente per la non violenza, occorre fermare le violenze sia dei cinesi sia dei tibetani".
E di più è proprio difficile chiedere. A meno che non si desideri umiliare il leader di un popolo, un premio Nobel per la pace.

Fabio Cavalera – 19 marzo 2008 –  Corriere della Sera

Ricordando Aldo Moro

Oggi è stata una giornata di riflessione e di amarezza perchè ciò che sta succedendo nel Tibet non può che intristire oltre che indignare. Ma c’è un altro fatto al quale non riesco a non pensare e che fa aumentare il mio dispiacere: trent’anni fa Aldo Moro veniva rapito dalle Brigate Rosse, che quel giorno uccisero gli uomini della sua scorta. Era il 16 marzo del 1978.
Ho rivisto oggi, ancora una volta, quelle fotografie terribili di tanti anni fa. E come allora, mi sembrano sconvolgenti. Ancora mi chiedo, guardandole, come possa aver vissuto Moro il periodo antecedente la sua morte, cosa possa aver provato dentro di sè, indipendentemente da ciò che è stato scritto.
L’angoscia di un uomo solo, che per quanto coraggioso e fermo nei principi nei quali credeva profondamente, era comunque un uomo, quindi con limiti e debolezze. La paura di dover rinunciare alla vita  da un momento all’altro, le probabili costrizioni e i divieti, le minacce, la solitudine dei momenti più bui e più incerti, il ricordo della famiglia in pena per la sua sorte, e forse l’abbandono rassegnato in quel Dio  in cui credeva fermamente.
Quante notti insonni nel rivivere il momento del sequestro e la morte dei cinque uomini della sua scorta! L’incertezza del non sapere quale sarebbe stata la sua sorte. 
Non mi viene da pensare allo statista, all’onorevole Aldo Moro, questo è compito dei politici e sarà compito degli storici, mi viene da pensare all’uomo, al padre, al marito.
Questa mattina ho sentito l’intervista fatta alla figlia, che, da figlia, ha risposto al cronista che le chiedeva che cosa ricordasse di lui. Ricordava il padre quando, da piccola, la teneva per mano, le raccontava le storie, l’affiancava  nel suo percorso di crescita. E non poteva essere diversamente. 
Ecco, questa sera, io ricordo Aldo Moro, indipendentemente dalle idee, che si possono condividere oppure no, ne ricordo la morte con rammarico, perchè è intollerabile accettare, senza opporsi, qualsiasi tipo di ferocia, di ingiustizia, di mancanza di rispetto verso un altro uomo, che è un nostro simile!

Piera Maria Chessa

Prima la Birmania, ora il Tibet

Leggo i giornali, accendo la televisione… Non bastano le notizie sconvolgenti di omicidi, furti, abusi sessuali e tanto altro, l’elenco sarebbe interminabile.
Non basta aspettare con ansia notizie migliori su Ingrid Betancourt, su una sua, spero non improbabile, liberazione. E non basta neppure il massacro ancora recente e ben presente nella nostra memoria e nei nostri occhi dei monaci birmani.
Ecco il nuovo affronto verso uomini e religiosi che vogliono semplicemente essere rispettati.
Tra i tanti articoli letti in questi ultimi giorni, questo di Federico Rampini mi è sembrato estremamente chiaro ed eloquente.
 
Sulla pacifica protesta dei monaci tibetani è scattata feroce la repressione cinese: dagli ospedali di Lhasa giungono notizie di numerosi morti e feriti.
La capitale è in stato d’assedio e sotto coprifuoco, tutti i principali monasteri buddisti della regione sono circondati da reparti della polizia antisommossa. E’ la più grande rivolta popolare in Tibet dal 1989, un anno di infausta memoria: allora il plenipotenziario del partito comunista cinese a Lhasa era Hu Jintao, oggi presidente della repubblica popolare. Hu Jintao l’8 marzo 1989 non esitò a dichiarare la legge marziale e a scatenare l’esercito contro la popolazione indifesa. Si acquistò i galloni dell’uomo forte, i suoi metodi servirono da prova generale per il massacro di Piazza Tienanmen tre mesi dopo. Sono passati quasi vent’anni ma il Tibet non ha mai smesso di essere una polveriera dove si accumulano le tensioni create dalla politica di “assimilazione forzata”. La fiammata di questi giorni può sembrare improvvisa e inaspettata, in realtà da mesi si segnalavano episodi di protesta nei monasteri, arresti, deportazioni e tortura dei religiosi fedeli al Dalai Lama. C’è una logica stringente dietro questa escalation. Una maggioranza di tibetani continua a considerare illegittima l’invasione dell’armata maoista che nel 1950 ha annesso il loro territorio. Sentono che il tempo gioca contro di loro, per l’invasione continua di immigrati “han” (l’etnia maggioritaria cinese) che sconvolge gli equilibri della popolazione locale e ne snatura l’identità culturale.
Il precedente della rivolta birmana nel settembre scorso è stato seguito con passione, solidarietà e sofferenza da parte dei buddisti tibetani: anche questo popolo ha un attaccamento straordinario alla propria religione e non tollera le violenze contro i monaci. La gente di Lhasa che ha osato protestare in queste ore sogna di avere miglior sorte del popolo bimano.
Si affida all’influenza del Dalai Lama, un leader spirituale che gode di un immenso prestigio nel mondo. Inoltre la Cina non è un piccolo paese arretrato e isolato come la Birmania. Mentre a Lhasa vige il terrore poliziesco, a poche ore di volo Pechino si appresta a celebrare i Giochi come una prova della sua apertura verso il resto del mondo, accogliendo milioni di turisti stranieri. Ora o mai più: è il sentimento che ha spinto molti tibetani a scendere in piazza. C’è la speranza che nell’anno delle Olimpiadi, con gli occhi del mondo puntati su Pechino, Hu Jintao avrà qualche esitazione prima di ordinare una nuova carneficina.
Per gli occidentali la politica cinese in Tibet appare non solo ignobile ma anche assurda. Con realismo e moderazione, il Dalai Lama ha smesso da decenni di rivendicare l’indipendenza e chiede solo una ragionevole autonomia. Basterebbe applicare al Tibet il sistema in vigore a Hong Kong: porre dei limiti all’immigrazione dal resto della Cina, consentire forme di autogoverno per preservare la fisionomia culturale e proteggere l’ambiente naturale, pur lasciando a Pechino le competenze in materia di politica estera e difesa.
Ma anche un modesto federalismo appare al regime cinese come una concessione intollerabile, destabilizzante. Pechino continua a bollare il Dalai Lama come un “secessionista” con cui è impossibile dialogare. La paura che provano i tibetani è, specularmente, la certezza di Hu Jintao: il fattore tempo gioca in favore della Cina. Con 3,8 milioni di km quadrati di superficie, quanto l’Europa occidentale, il Tibet occupa un terzo della Repubblica popolare ma i suoi sei milioni di abitanti sono appena lo 0,5% dei cinesi. Lo squilibrio demografico è immane, […]. Il regime può contare anche su un consenso reale fra la maggioranza dei cinesi sulla questione tibetana. Imbevuti di nazionalismo fin dalle scuole elementari, imparano sui manuali di storia solo la versione della propaganda ufficiale: il Tibet è “sempre” appartenuto alla Cina; dietro le velleità di autonomia ci sono forze che vogliono indebolire la nazione, proprio come nell’Ottocento e primo Novecento quando gli imperialisti occidentali e giapponese “amputarono” l’Impero Celeste di pezzi di territorio, da Hong Kong alla Manciuria.
Nazionalismo cinese, superiorità demografica, sviluppo economico, sono i rulli compressori che lavorano ad appiattire il Tibet.
Mentre la nuova ferrovia rovescia fiumane di “coloni”, vasti quartieri di Lhasa hanno già subito uno stravolgimento: ipermercati, shopping mall di elettronica, banche e uffici turistici sono gestiti prevalentemente dai cinesi han, più istruiti e abili negli affari. Lo stesso turismo di massa violenta l’anima dei luoghi: il Potala Palace, ex dimora del Dalai Lama trasformato in museo, è circondato dai torpedoni, invaso da comitive cinesi volgari e arroganti.
Eppure dietro la sicumera di Hu Jintao traspare il germe di un dubbio. L’incapacità di aprire un dialogo col Dalai Lama rivela un’insicurezza. Il partito comunista cinese non accetta che dentro la società civile vi siano movimenti organizzati, autorità alternative. I culti religiosi sono stati autorizzati dopo la fine del maoismo ma sono sottoposti a controlli stringenti, indottrinamenti politici, obblighi di fedeltà assoluta al governo. La figura del Dalai Lama è inaccettabile perché è un’autorità spirituale indipendente. Al di fuori del Tibet la Cina ha altri 150 milioni di buddisti praticanti: guai se dovesse insinuarsi nel resto del paese l’idea che la religione può diventare il tessuto connettivo di una società civile autonoma. Tra gli incubi della nomenklatura c’è lo scenario Solidarnosc, proiettato in versione buddista.
Nonostante le sue fobie totalitarie, la classe dirigente cinese gestisce tuttavia una superpotenza fortemente integrata nelle relazioni internazionali. La repubblica popolare è membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, dell’Organizzazione del commercio mondiale; è il principale partner commerciale dell’Unione europea e degli Stati Uniti. Ha l’ambizione di essere un attore responsabile nella governance globale.
E’ indispensabile che l’Occidente eserciti ogni pressione per far capire a Hu Jintao i rischi che corre in Tibet: vanno ben al di là dei Giochi olimpici. Lo sviluppo con cui i dirigenti di Pechino si garantiscono un consenso reale fra una parte della popolazione , può incappare in serie turbolenze se la Cina decide di presentarci un volto odioso e minaccioso.
Federico Rampinila Repubblica – 15 marzo 2008