Il Dalai Lama: "Basta violenze"

Si continua, giustamente, a parlare del Tibet, delle manifestazioni dei monaci buddisti, delle rappresaglie e delle violazioni dei più elementari diritti, dei massacri e delle torture che son costretti a subire. Il regime continua ad accusare il Dalai Lama di provocare le ribellioni dei tibetani contro il governo centrale, di essere l’artefice dei disordini, di voler rovinare i Giochi Olimpici.
Tutti noi sappiamo come stanno le cose, e proviamo orrore e sdegno davanti alla durezza delle autorità cinesi, rabbia ed impotenza.
L’unica cosa che possiamo fare è tenere ben desta l’attenzione su questi fatti, scriverne, parlarne, evitare di mandarli dentro i profondi cassetti dell’oblio e dell’indifferenza.
Con questo fine propongo un articolo di Fabio Cavalera, giornalista del Corriere della Sera. 
 
 
 
La tregua è fragilissima, può spezzarsi da un secondo all’altro, ma c’è.
Il premier cinese, Wen Jiabao, e il Dalai Lama si parlano a distanza. Ciascuno col proprio linguaggio e i propri codici comunicativi.
Lo fa Wen Jiabao in conferenza stampa, accusando “la cricca del Dalai Lama di avere premeditato e organizzato l’insurrezione” e di volere rovinare le Olimpiadi, prospettando però una ricomposizione. E lo fa il Dalai Lama, ringraziando la comunità internazionale sia per il sostegno che sta offrendo sia per “il tentativo di convincere le autorità cinesi ad esercitare un freno nei comportamenti con i dimostranti”, ripetendo in un comunicato scritto che la Cina è responsabile di “genocidio culturale, minacciando infine di andarsene se dovessero ripetersi le violenze sia di parte cinese sia di parte tibetana: "Non mi rimarrebbe che tornare ad essere un semplice monaco buddista”.
Però dietro ai loro interventi, duri e propagandistici nel caso di Wen Jiabao, semplici e severi nel caso del Dalai Lama, si nota qualcosa di nuovo. Presto per dire se il realismo politico che contraddistingue i due discorsi potrà allontanare il fantasma di una strage. Ma emergono segnali di moderazione.
Ieri cento persone che hanno partecipato agli incidenti di venerdì scorso a Lhasa si sono consegnate, secondo la tv cinese. E’ come se il congelamento della situazione, lo status quo con l’esercito che presidia Lhasa ma non carica le armi e con il popolo tibetano che si astiene dal manifestare il suo risentimento anticinese, vada bene ad entrambe le parti delineando l’unica base di partenza per superare la crisi che ha provocato decine di morti e forse altri 19 (dice il governo tibetano in esilio) nella provincia del Gansu.
La Cina è stretta in un angolo. La pressione dei governi non passa inosservata a Pechino anche se determina reazioni al limite della stizza: il portavoce del ministero degli Esteri ha invitato l’Europa a distinguere “la verità dalle menzogne”.
Ma quel che conta è la voce del premier, Wen Jiabao. Il quale per due ore e mezzo ha parlato ai giornalisti. Il regime, di fronte alle emergenze, nasconde bene i suoi conflitti interni; che vi siano spinte opposte a risolvere la rivolta del Tibet, lo rivelano gli ultimatum delle autorità locali, grevi e minacciosi, e le parole di Wen Jiabao che, se si mettono in parentesi le frasi scontate, enunciano un concetto chiaro.
E’ il primo, fra gli uomini di vertice della nomenklatura, a pronunciarsi così: ”Se il Dalai Lama rinuncia alla separazione e riconosce che il Tibet e Taiwan sono territorio della Cina le porte del dialogo restano aperte”. Poiché la politica in Cina ha un corso diverso che nel resto del mondo e i suoi tempi sono molto più lunghi, bisogna intendere questa frase come un passaggio cauto e concreto, premessa di una non più impossibile distensione.
Il Dalai Lama ha già espresso due giorni fa il suo pensiero e lo ha ripetuto: lui è contro la secessione del Tibet, chiede l’autonomia e una commissione internazionale “della quale sia parte anche la Cina che decida sui fatti e sulle accuse che mi vengono mosse”. Se l’indipendenza del Tibet non è materia in discussione, la tregua può divenire qualcosa di più serio.
Wen Jiabao e il Dalai Lama hanno un comune nemico: l’intolleranza delle ali estremiste del regime e della opposizione tibetana. Il fatto nuovo è che entrambi parlandosi a distanza lo hanno dichiarato.
Wen Jiabao in modo indiretto. Il Dalai Lama con una schiettezza fuori dagli schemi che potrebbe servire a rassicurare la Cina: "Se i tibetani hanno scelto la via della violenza, noi dobbiamo  dimetterci perchè siamo completamente per la non violenza, occorre fermare le violenze sia dei cinesi sia dei tibetani".
E di più è proprio difficile chiedere. A meno che non si desideri umiliare il leader di un popolo, un premio Nobel per la pace.

Fabio Cavalera – 19 marzo 2008 –  Corriere della Sera

4 thoughts on “Il Dalai Lama: "Basta violenze"

  1. Sarebbe bello se tutta la nostra solidarietà smuovesse almeno un po’ le coscienze… Purtroppo poi segui un telegiornale e senti che il governo cinese si prepara a mandare, o forse ha già mandato, un numero considerevole di soldati
    nelle zone in rivolta, indifferente ai vari quanto inutili tentativi del Dalai Lama di cercare ogni sorta di dialogo. Ma si può dialogare con uomini dal cuore di una durezza inaudita? E ci si pone ancora il problema di boicottare le Olimpiadi?
    Maledetti interessi economici così tanto più importanti delle vite umane! Un caro saluto. Piera

  2. Le smuove, credo, le coscienze… anche se i giornali sembrano dire altrimenti, tant’è che del Tibet già ne parlano a fatica. E’ vero pare siano stati mandati migliaia di soldati per quello che il premier cinese considera solo una “questione di ordine pubblico” in via di risoluzione…
    Sul mio blog c’è un interessante documento proprio del premier cinese di qualche giorno fa: QUI

    … ed il resto del mondo tace poichè paralizzato dal ricatto economico e dalla propria coscienza, anch’essa sporca del sangue silenzioso di esseri umani che ci permettono di vivere il nostro relativo benessere.

    Antonio

  3. Aiuta pensare che anche un piccolo contributo come il nostro possa in qualche modo portare qualcuno a riflettere su avvenimenti come questo, e non solo. Purtroppo, come giustamente dici, gli interessi economici annullano quelle che dovrebbero essere delle priorità nella nostra scala dei valori. Prima di tutto il rispetto della vita e il rispetto verso un popolo sottomesso da anni ingiustamente.
    Per molti giornali, poi, l’argomento Tibet è ormai superato. Bisogna parlare d’altro, magari i lettori si annoiano e non acquistano più il quotidiano… Bisogna raccontare qualcos’altro! Grazie della visita. Piera

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