Oggi, Rita Levi Montalcini compie novantanove anni. La stima e l’ammirazione che nutro nei suoi confronti è tale che mi sembra superfluo aggiungere qualcosa che non sia banale e non sia già stato detto nel bellissimo articolo di Dario Cresto-Dina pubblicato su la Repubblica qualche giorno fa.
Bisogna dimenticarsi di vivere. E’ questo, dice, il segreto per avvicinarsi a qualcosa che può assomigliare all’illusione dell’immortalità. Tra due giorni la signora che mi guarda con gli occhi azzurri, limpidi e curiosi compirà novantanove anni. E’ un numero che inquieterebbe chiunque. Non lei. E’ un’età alla quale si giunge quasi sempre da solitari, è come sbarcare dopo un lungo viaggio su un’isola deserta e sapere che tutto ciò che conoscevamo ce lo siamo lasciato alle spalle, ma nulla, proprio nulla, possiamo immaginare del nuovo approdo, neppure la sua estensione geografica, se sarà un posto di valli e montagne da attraversare prima del prossimo mare o appena una lingua di sabbia. “Mi sento per la seconda volta un po’ Robinson Crusoe. La prima fu negli anni del fascismo. Allora ero più sola, più giovane e meno forte di adesso, eppure il male produsse un bene”.
Seduta in un angolo del divano della sua casa romana con la leggerezza di un ramo antico, Rita Levi Montalcini sembra una vecchia appena nata. E’ elegante nel vestito blu che le scende fino alle caviglie, chiuso sul collo lungo e sottile. Il blu elettrico dell’abito esalta la sua testa bianca, al polso destro porta un bracciale che ha disegnato lei stessa e sul quale spicca, incastonato come un minuscolo cammeo, il giglio di Firenze. E’ un gioiello che aveva regalato alla sorella Paola, la gemella tanto amata morta otto anni fa. “Quella vagabonda della mia gemellina – la chiamava con affetto nelle lettere alla madre – che è riuscita ad addentrarsi in un mondo chimerico libero da imposizioni di leggi”.
Paola era un’artista, […]. ”Il suo cuore continua a battere dentro di me”. Le pareti di questa bella e semplice casa sono attraversate dai suoi quadri. C’è un ritratto di Rita dipinto nel ’45. C’è, sul pavimento del terrazzo, un grande mosaico che riproduce le traiettorie delle particelle atomiche nella camera a bolle. C’è la malinconia nello sguardo della professoressa ogni volta che parla di lei. Nostalgia, non il dolore del lutto. Non più. “Abbiamo avuto una bella vita. Non credo all’eternità. Si spegne tutto”.[…].
A novantanove anni Rita Levi Montalcini ogni sera va a letto alle undici. Ogni mattina si alza alle cinque. “Non mi interessano né il cibo né il sonno”. Mangia una volta al giorno, a pranzo. La sera si concede al massimo un brodo e un’arancia. ”Sto bene. Malgrado la diminuzione della vista e dell’udito. Mai avuto una malattia”. Ha un apparecchio acustico nelle orecchie, legge grazie a un video ingranditore.[…]. “Il mio cervello funziona meglio di quando avevo vent’anni. Ho deciso di utilizzarlo di più proprio nell’ultima tappa del mio percorso. Penso di continuo, mi aiuta la passione per il mio lavoro. Continuo la ricerca sull’Nfg, la sigla della proteina che stimola la crescita delle cellule nervose, uno studio sulle malattie neurovegetative che ho cominciato più di mezzo secolo fa. Mi occupo della fondazione creata insieme a Paola in memoria di mio padre per il conferimento di borse di studio a studentesse africane a livello universitario, con l’obiettivo di creare una classe di giovani donne che svolgano un ruolo di leadership nella vita scientifica e sociale dei loro paesi. Sto scrivendo due nuovi saggi scientifici. Non mi sento mai stanca”.
Ogni giorno va in laboratorio, nella sua equipe ci sono altre sette donne. Si china sul microscopio, esamina gli embrioni di pollo come faceva cinquant’anni fa in America. Dice: “La mia intelligenza è mediocre, e il mio impegno è poco più che mediocre. Credo di avere due sole qualità:l’intuito e la capacità di vedere un problema nella sua globalità. Quand’ero giovane pensavo che la mia missione sarebbe stata quella di aiutare gli altri, volevo andare a curare i lebbrosi in Africa. Volevo disinteressarmi totalmente della mia persona, non volevo riconoscimenti”. Non è andata così. Anche il destino accarezza i propri desideri a nostra insaputa. Nel 1986 ha vinto il Nobel per la medicina. “Abitavo già a Roma. Ricordo che era quasi notte quando mi telefonarono per darmi la notizia. Stavo leggendo un giallo di Agatha Christie. Lo rammento perché è raro che io legga romanzi, prediligo i saggi di filosofia. […].La cerimonia della consegna del Nobel a Stoccolma non fu particolarmente eccitante, piuttosto una specie di grande festival”.
Il primo agosto del 2001 la chiamò l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.”Mi disse: “Sono Ciampi e l’abbraccio. La nomino senatrice a vita per meriti scientifici e sociali. Riuscii a rispondere solamente grazie. Ero emozionatissima”. Oggi il giudizio sulla politica è riassunto in un gesto di scoramento. La mano passata sugli occhi. “Sono assolutamente ignorante in fatto di politica, la mia appartenenza ad esso è di puro dovere civile e morale. Certo, sono sempre stata una donna di sinistra. In Parlamento ho trovato persone di grande intelligenza in entrambi gli schieramenti e amici come Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa e Anna Finocchiaro. La netta vittoria della destra nelle ultime elezioni mi ha sorpreso, ma sarebbe troppo facile sostenere che dopo vent’anni di fascismo e cinque di Berlusconi gli italiani hanno dimostrato ancora una volta di non avere capacità di scelta e di discrimine. Ci sono sentimenti e bisogni che vanno analizzati a fondo e io non possiedo gli strumenti per farlo. Mi ritiro, con modestia e rispetto”.
Severa è anche la pagella al paese. “L’Italia dà l’impressione di essere vecchia, come se fosse prigioniera di una campana di vetro che le impedisce di camminare. In diciotto mesi il governo di centrosinistra ha lavorato bene, ma poteva fare molto di più. Potrei dire che gli è mancato il karma. Nella nostra classe politica, almeno per quanto riguarda la ricerca medica e scientifica, non c’è la consapevolezza che la conoscenza significa ricchezza. E’ un peccato, perché abbiamo un capitale umano eccellente e un grado di innovazione tecnologica che nulla deve invidiare al resto del mondo. Dalle nostre università escono ragazzi molto preparati che non trovano però un terreno fertile sul quale esercitarsi, così la gran parte di loro, se può, fugge all’estero. Li regaliamo agli altri, per vederli ritornare magari dopo dieci o vent’anni, un po’ più vecchi, un po’ più stanchi. L’Italia non è mai stata capace di investire sulle capacità intellettuali della sua gente. Manca la voglia di riconoscere il merito”.[…].
Rita Levi Montalcini non ha figli. Mi spiega perché cominciando da Dio. ”Invidio chi ha fede. Io non credo in dio. Non posso credere in un dio che ci premia e ci punisce, in un dio che ci vuole tenere nelle sue mani. Ognuno di noi può diventare un santo o un bandito, ma ciò dipende dai nostri primi tre anni di vita, non da dio. E’ una legge di una scienza che si chiama epigenetica, in altre parole si può definire il risultato del dialogo che si instaura tra i nostri geni e l’ambiente familiare e sociale nel quale cresciamo. Prenda una bicicletta o un insetto, oggi sono pressoché uguali a com’erano duecento anni or sono. Noi no. L’uomo è darwiniano al cento per cento. Ebbene, io a tre anni, a tre anni, glielo giuro, ho deciso che non mi sarei mai sposata e che non avrei avuto bambini. Sono rimasta condizionata dal rapporto vittoriano che subordinava mia madre a mio padre. A quei tempi nascere donna significa avere impresso sulla pelle un marchio di inferiorità. Eppoi ho visto troppe vite matrimoniali mai fortunate. Ne vedo tante anche ai nostri giorni. Vite tristi e vuote.[…]. Ho rinunciato a costruire una famiglia, non all’amore. Questo no. Ho avuto degli affetti, mi sono innamorata, sono stata felice. Ma forse il mio unico figlio è stato l’Nfg. Ho avuto e ho amici importantissimi, gli amici di una vita: […]. Tutto è stato enorme attorno a me”.
Dal passato non si levano fantasmi. “Senza Mussolini e Hitler oggi sarei soltanto una vecchia signora a un passo dal centenario. Grazie a quei due, invece, sono arrivata a Stoccolma. Non mi sono mai sentita una perseguitata. Ho vissuto il mio essere ebrea in modo laico, senza orgoglio e senza umiltà. Non vado in sinagoga né in chiesa. Non porto come una medaglia il dato storico di appartenere a un genere umano che ha sofferto molto, né ho mai cercato di trarre vantaggi o risarcimenti morali. Essere ebrei può non essere piacevole, non è comodo, ma ha creato in noi un impulso intellettuale supplementare. Come si può affermare che Albert Einstein era di razza inferiore? Dovremo abolire anche nella nostra testa il concetto di razza. Esistono i razzisti, non le razze. E a me interessano soltanto le persone. Durante la guerra, a Torino ho trasformato in laboratorio la mia camera da letto, un piccolo locale di due metri per tre in corso Re Umberto. Quella stanza diventò un centro di ricerca frequentato anche da alcuni miei compagni di scuola che professavano il fascismo e forse la domenica indossavano la camicia nera. […]. Con l’avvento delle leggi razziali di Mussolini la mia famiglia fu costretta a trasferirsi a Firenze. Scegliemmo un altro cognome, lo decisi io, Lupani, il primo che mi venne in mente. Ci ospitava una famiglia che vagamente sapeva di noi. Mi specializzai nella stampa di documenti falsi per gli ebrei, avevo rapporti con il Partito d’azione. Un giorno mi venne a trovare il professor Giuseppe Levi e per non farci scoprire disse semplicemente alla padrona di casa: “Mi chiami la Rita”. Vede, sono stata anche allora come Crusoe. Sola. Devo alla solitudine anche il Nobel. Sono giunta alla scoperta sull’Nfg perché ero l’unica a lavorare in quello specifico campo della neurologia. Ero sola in una giungla e non conoscevo nulla o quasi. Sapere troppo, spesso, ostacola i nostri progressi.”.
Le domando se ancora sogna. Mi dice di sì. Spera che quando lei non ci sarà più altri continueranno i suoi studi sulla molecola proteica che le è valsa il Nobel, perché le sue applicazioni cliniche nella cura delle malattie degenerative del cervello possono essere straordinarie. “Ma la cosa che più desidero è la pace in Medioriente. Mi interrogo spesso sul conflitto tra arabi e israeliani. Non posso accettare l’idea di chi vorrebbe la soppressione dello Stato d’Israele e allo stesso modo non accetto che i palestinesi abbiano poche possibilità di esprimere liberamente la propria intelligenza. Credo ancora sia possibile raggiungere l’obiettivo di una convivenza pacifica tra i due popoli. Siamo tutti uguali, ha detto Confucio”.
Il tavolino di cristallo di fronte al divano è pieno di fiori. Sono rose bianche e gialle, azalee, iris, orchidee. Non sono lì per ciò che accadrà tra due giorni. Sono per una donna che ama i colori tutto l’anno. Lei si alza,mi tende le mani. Mi aspetto la loro fragilità. Le sfioro appena. Sono invece secche e nodose. Sono ferme, la stretta è forte e calda. “La vita non mi ha maltrattata. Sono una donna senza rimpianti. Se rinascessi ripercorrerei le stesse strade. Tutto è stato a mio vantaggio, anche ciò che non ho avuto, anche ciò che ho perso lungo il cammino. Certo,avrei potuto essere una donna migliore. Sono pessima in matematica. Non conosco la musica, solo un po’ di Beethoven e Bach, qualcosa di Schubert, Mozart e Chopin. Non abbastanza. Amo molto il teatro, non l’opera. Nei rapporti umani ho trovato la compensazione ai miei novantanove anni. Accetto questa età senza fatica, non mi vergogno delle mie doppie protesi acustiche, dei miei occhi che non vedono quasi più. Voglio andare avanti. Non sono stanca di vivere. E non cerco la morte. Arriverà. Forse tra un mese, forse tra due anni, chissà. Le mie colpe sono di scarsa entità. Spero di avere pochissimo da farmi perdonare”.
Dario Cresto-Dina – La Repubblica – 20 aprile 2008