Non voglio, oggi, fare una recensione ad un libro che ho appena finito di leggere. Parlo di “Undici”, e voglio solo “raccontarlo”, ed insieme raccontare le emozioni, le sensazioni che in me ha suscitato.
Il libro ci fa conoscere la storia di undici ragazzi africani, tutti molto giovani, il più anziano ha trentadue anni, il più giovane, diciassette.
Vogliono dare un corso diverso alla loro vita, migliorarla, concretizzare il sogno di sbarcare in Europa. A disposizione hanno una barca, bianca, lunga sei metri. Su questa barca salgono, inizialmente 47 persone, tra cui anche dei bambini.
Non voglio certamente svelare niente che non sia necessario, perché ogni lettore si avvicina ad un libro con un atteggiamento che è unico, mai uguale a quello di un altro.
Desidero solo dare qualche informazione su ciascuno degli undici protagonisti e condividere quelle sensazioni che, come già detto, la lettura di queste storie ha lasciato in me.
Gli undici ragazzi sono molto diversi l’uno dall’altro, ma hanno un sogno comune: raggiungere l’Europa e rifarsi una vita.
Eccoli.
Il primo che incomincia a raccontare la sua storia si chiama Baba e ha trentadue anni.
Zoppica sin dalla nascita perché ha una menomazione al piede destro.
Sayoro, il cantore, sceglie lui per primo perché incominci a raccontare, gli altri seguiranno e il griot li accompagnerà suonando la kora.
Baba, nonostante tutto, ricorda il suo amore per il mare, la gioia della sua “prima” pesca, l’aver imparato a nuotare, nonostante la sua malformazione, l’angoscia della madre nel vederlo in acqua e i suoi capelli diventare improvvisamente bianchi…
Il secondo è Amdy.
Ha una sorella gemella che si chiama Fatou e che ha due figli, questi due nipoti lui li porterà con sé nel suo viaggio della speranza.
Soffrirà molto per la sorte di questi ragazzi e per la vergogna di essere ancora in vita. L’odio che immagina che Fatou provi per lui, lo fa stare ancora peggio.
La Memoria lo conduce verso il passato e affiorano i ricordi. Il coraggio di suo padre che, a dispetto della tradizione, non vuole sottoporre Fatou all’amputazione del sesso, la scelta diversa, invece, della stessa Fatou…
Il terzo a prendere la parola è Bilal, ragazzino con la maschera di montone,
da lui stesso costruita per nascondere la paura e conservare quel coraggio che sembra venir meno.
I ricordi lo riconducono alle bellissime piroghe costruite dalla sua famiglia, ai disegni dai colori estremamente curati, agli “odori” di quei disegni, al nonno, sempre più esigente, alle sorelle che davano una mano, all’occorrenza, ma che erano troppo ciarliere durante il lavoro…
Continua Laamin a raccontare, e Sayoro lo accompagna con il suo canto e la musica della sua kora.
Ricorda il suo piccolo negozio di artigianato, i discorsi vuoti dei turisti, i loro consigli di andare altrove a vendere i suoi prodotti, la moglie che, nel negozio, lasciava sempre le briciole sul bancone, e quest’abitudine “non era bene”, il suo piccolo di un anno che aveva già qualche dente…
Momar, il quinto che prende la parola, è forse il più aggressivo, il più insofferente. Non vuole che il suo racconto, il suo percorso venga accompagnato dal griot e dalla sua kora.
E’ disposto a mangiare il corpo del compagno dalla maschera di montone, pur di sopravvivere…
Pape era quasi architetto nella sua terra, e ha fatto dono alla sua Safia del suo cuore e della sua anima. Ma Sayoro glieli riconsegnerà, quando verrà il momento, allora Pape conoscerà l’insopportabilità del dolore…
Sarà Ibou poi a ricordare, e mentre racconta, si riconcilia con Sayoro. Gli fa richiesta di un dono: essere anche lui in preda ai deliri, così come è stato concesso ai suoi compagni, perché, in questo modo, il suo percorso sarà più leggero.
Sono partiti in cinque da Gorée ed erano tutti sposati.
Ricorda il giorno del suo matrimonio, sua moglie Awa, l’incendio nel mercato situato vicino al luogo delle nozze…
Djibril è l’ottavo a prendere la parola, per arrivare ad una particolare resa dei conti, ad un chiarimento finale tra lui e il fratello maggiore Sajoro, tra il griot e il griot di riserva.
Djibril racconta dell’amore diviso a metà, o forse in tre parti, per Maria Maddalena, l’unica che conserva in sé “la Memoria del mondo”.
Per la prima volta, da quando gli “undici” hanno incominciato a raccontare, Sajoro mostra i suoi sentimenti, anche solo interrompendo il suono della kora…
Ibra è il nono naufrago e parla a lungo, dopo che, per tanto tempo, i suoi compagni non gli hanno più rivolto la parola a causa di un presunto errore che non gli vogliono perdonare.
Sajoro gli concede di parlare e di giustificarsi.
Ibra poi ricorda con affetto la sua numerosa famiglia, racconta dello zio Massamba e della sua misteriosa fine, e anche del suo incontro con lo Spagnolo che avrebbe dovuto trasformare le loro vite…
Mor è il decimo e si presenta subito come “il matto”, un istrione, un attore. Ma nel suo lungo monologo c’è una lucidissima riflessione sull’esistenza, fa persino delle considerazioni filosofiche, fino ad una rabbiosa riflessione su Dio e sul suo intervento nel mondo…
Sajoro è l’ultimo a parlare, a chiudere il cerchio. Sarà un privilegio o motivo di una maggiore sofferenza?
Racconta la sua solitudine di privilegiato, forse figlio di re. Colui che non “morirà” ma “finirà” perché, non avendo figli, non ci sarà discendenza. Solo la kora continuerà a vivere.
Nessuno sta al fianco di Sajoro, il cantore della barca bianca.
Il griot intreccia e allaccia i racconti dei suoi compagni, li completa là dove ci sono dei vuoti, delle dimenticanze.
Infine, chiede alla kora di prendere il suo posto per continuare a raccontare le storie che la Memoria vuole custodire e tenere gelosamente per sé.
Quando ho letto l’ultima pagina e ho chiuso il libro, sono rimasta a lungo in silenzio. Non avevo voglia di parlare perché l’ emozione era troppo forte , troppo intense le mie riflessioni.
Mi mancavano già i racconti degli “undici”, i loro sogni, o forse i loro incubi. Tutto era svanito, rimaneva soltanto una barca di sei metri, bianca, in mezzo all’oceano.
Si tratta di un libro, a mio parere, molto bello, coinvolgente; undici racconti, ognuno unico, irripetibile, che trovano la loro sintesi nel racconto finale del cantore, il quale chiude la sua vita lasciando alla kora, unica testimone, l’incarico e l’impegno di raccontare e di tramandare storie.
E’ di stupore il sentimento che provo, grazie all’abilità che ha avuto l’autrice nel coinvolgermi e nel costringermi, mio malgrado, ad abbandonare la realtà per condurmi in spazi che sembrano non avere limiti, in un tempo che fa già parte dell’ Infinito.
Resto come sospesa fino all’ultima parola, e ancora dopo, in attesa di sentire che si è trattato solo di un sogno, brutto, di un incubo, e che presto ci sarà il risveglio.
Undici
di Savina Dolores Massa
il Maestrale, luglio 2008