Archivio | luglio 2009

 

Renzo Montagnoli

Tre poesie di un poeta, un uomo, uno scrittore che si pone domande difficili sull’esistenza, domande alle quali sa di non poter dare risposte, eppure non può fare a meno di farlo. Un poeta che non si accontenta di ciò che è superficiale, che medita sul mistero che avvolge la vita di ogni uomo, vuole cercare di capire, pur sapendo che la sua ricerca, per quanto profonda e ben condotta, non si concluderà mai con risposte definitive. E’ il percorso di un uomo che cerca di intuire, dal momento che capire non può, i perché di una vita che offre prevalentemente sofferenza e solo istanti di gioia, eppure non così crudele da non regalare, se si è capaci di coltivarla, una serenità interiore che, forse, è l’unico punto fermo dell’esistenza umana.

Il poeta si sofferma a lungo sul passare sin troppo veloce del tempo, sul valore e sul perché della presenza dell’uomo, essere piccolissimo, nell’immensità di un universo che non ha fine,  cerca di spiegarsi anche la sofferenza, non la capisce ma la accetta, come accetta e rispetta profondamente una Natura che ama per la sua bellezza e la sua potenza, all’interno della quale colloca l’uomo, sapendo tuttavia quanto siano grandi i suoi limiti e quanto egli sia esposto ad ogni tempesta capace di annientarlo.



Le cattedrali del cielo


Rocce erose dal vento,

scalfite dal ghiaccio

frantumate dal tempo

resistono ancora

cattedrali del cielo

canne d’organo

suonano ogni giorno

il concerto a una natura

che sempre risorge

e mai muore.

Nell’incerta luce

che s’accompagna

al tramonto di un giorno sereno

riflessi rossi

di eternità

fra bianche strisce

tracciate dai voli della civiltà

effimere scie

che sbiadiscono

nell’azzurro che si incupisce

in un blu profondo

dove luna e stelle

irridono all’umana sapienza

e si mostrano

fra guglie di roccia

assopite in notti silenti.



L’ultimo approdo


Nuda carne riarsa dal sole

nel sonno cullato dal mare

dondola lenta la barca

ciondola inerte il capo

sogna lidi lontani

a cui mai giungerà

case amiche

a cui mai tornerà

lento il legno alla deriva

verso la linea d’orizzonte.

E nella luce del tramonto

mentre s’appresta la sera

l’anima scivola silenziosa

lenta s’invola

su chiazze purpuree

d’un mare ospitale

che porta il naufrago

all’ultimo approdo.



La montagna sacra


Lunga è l’ascesa

giorno dopo giorno

istante dopo istante.

La via è sempre salita

impervia e scoscesa

solo con me stesso

misuro i passi

mai dritti

ostacoli

che intralciano

canti di sirene

tentazioni continue

la terra che m’avvinghia

vento e pioggia

gelo e neve

la cima più alta

mai arriverò.

Ma gli squarci di luce

che s’aprono in me

sono il premio

della fatica di conoscer la vita

di sapere chi sono

di vedere la cima

della sacra montagna.


(I tre testi poetici sono tratti dal bel libro “Il cerchio infinito”, di Renzo Montagnoli, Edizioni Il Foglio 2008)

http://armoniadelleparole.splinder.com/

 http://www.arteinsieme.net/

 

Orhan Pamuk

Dal libro Istanbul, di Orhan Pamuk.


Capitolo diciassettesimo – La passione per il disegno


Qualche tempo dopo aver iniziato la scuola, scoprii che mi piaceva molto dipingere. Ma usare il verbo “scoprire” in questo contesto può essere sbagliato, perché significherebbe rinvenire qualcosa di già esistente però non notato, proprio come la scoperta dell’America. Non avevo una passione segreta o un talento scoperto sui banchi di scuola per la pittura. Perciò è meglio dire che mi accorsi che la pittura mi piaceva e mi emozionava. Questo comporta anche il disvelarsi dello strato d’animo e della capacità personale che può essere chiamata “talento”. Talento che in me non c’era.

O forse c’era, ma non è così importante. Avevo intuito che dipingere era piacevole, e ne ero molto felice. Solo questo contava.

Dopo tanto tempo, una sera chiesi a mio padre come avevano capito che ero portato per il disegno. “ Avevi disegnato un albero, – mi rispose, – e avevi messo anche un corvo su un ramo. Con tua madre ci siamo guardati, perché il corvo del disegno si era posato sul ramo proprio come un corvo vero”.

Anche se non spiegava tutto, anzi era addirittura illusorio, questo racconto mi era piaciuto, e ci avevo creduto subito. Molto probabilmente, l’albero e il corvo che avevo disegnato a sette anni non erano per nulla straordinari. Il lato magico della risposta di mio padre stava nel fatto che avessero deciso d’un tratto, lui e mia madre, che avevo “il talento per la pittura”. In questa vicenda era importante anche il carattere di mio padre, sempre ottimista e sicuro di sé, portato a credere sinceramente che tutto ciò che facevano i figli fosse meraviglioso. Certo, allora non avevo pensato così. Anch’io, come loro, avevo creduto di avere una predisposizione naturale per la pittura, un qualcosa che gli altri chiamavano talento.

Quando disegnavo e facevo vedere le mie opere, tutti mi lodavano, si complimentavano e mostravano anche uno stupore che mi sembrava sincero. Era come se mi avessero messo tra le mani uno strumento per essere amato, baciato, apprezzato e stimato. Allora io, quando mi annoiavo, iniziavo a disegnare. Mi compravano fogli, colori e matite e io dipingevo continuamente, poi facevo vedere i miei lavori, soprattutto a mio padre. Lui reagiva proprio come volevo io: guardava il mio disegno, ogni volta, con un’ammirazione e una meraviglia che stupivano pure me, e lo commentava. “Come hai reso bene l’atteggiamento di quest’uomo che pesca. Lui è annoiato, perciò il mare è scuro. E questo accanto a lui è suo figlio, no? Poi gli uccelli che aspettano i pesci. E’ geniale”.

Correvo subito nell’altra stanza a rimettermi all’opera. In realtà, quello accanto al pescatore non era suo figlio, era un suo amico, ma avendolo disegnato piuttosto piccolo, per sbaglio, sembrava suo figlio. Ormai avevo un po’ d’esperienza nell’accogliere quegli elogi. Prendevo in considerazione solo le parole che mi rendevano felice, e quando mostravo il disegno a mia madre, lo presentavo così:

“ Guarda com’è venuto. Il pescatore e suo figlio”.

“ Bello, bravo tesoro, – diceva mia madre. – Ma se facessi anche i tuoi compiti non sarebbe meglio?”

( Da Istanbul, Orhan Pamuk, Einaudi 2006)

(immagine tratta da http://www.splinder.com/myblog/edit/post/481525)

 I nonni

Non so per quale motivo inconscio stamattina mi sono ritrovata a pensare a lungo ai miei nonni. Ai due che ho conosciuto, quelli materni, di quelli paterni ho sentito parlare tanto, ho visto le loro fotografie ma non li ho mai conosciuti.
I genitori di mia madre erano teneri con noi nipoti, molto indulgenti e pazienti, mentre so che sono stati severi ed esigenti come genitori.
Ma nel passato, si sa, i tempi erano piuttosto duri, non c’era molto tempo per le affettuosità, sebbene l’affetto lo si percepisse ugualmente attraverso brevi gesti o scarne parole.
Con i nipoti le cose cambiavano completamente. 
 La cosa che mi sconcertava maggiormente erano le tasche dei pantaloni di mio nonno sempre colme di caramelle, dolci che distribuiva non soltanto a noi nipoti ma a tutti i bambini che gli stavano intorno continuamente, ben sapendo che, generosissimo, ne avrebbe avuto per tutti.
Ricordo il suo sorriso soddisfatto nel vedere la nostra gioia e la confusione.
Mia nonna, poi, aveva sempre la marmellata a nostra disposizione, e del pane che, nei miei ricordi, aveva un aspetto e un gusto che non ritrovo più.
Mio nonno era un appassionato e straordinario giocatore di "mariglia", un gioco con le carte piuttosto impegnativo, legato sì anche alla fortuna, ma soprattutto al ragionamento e alla memoria.
Difficile batterlo, e quando, raramente, capitava, si arrabbiava moltissimo, forse più con se stesso che con gli altri. Un carattere davvero forte.
Anche mia nonna era forte e determinata, ma ugualmente capace di affetto e generosità. 

Dal momento che il mio pensiero, oggi, ha corso così tanto da raggiungerli, a loro un piccolo omaggio, alcuni ricordi dei tanti che custodisco.

****

Una casa amata
affiora dal passato
con i suoi alti gradini di granito,
quegli stessi che un giorno
ferirono il mio viso
per un gesto imprudente
ed un passo sbagliato.

I nonni aspettavano pazienti
i miei arrivi
con le coccole pronte e la marmellata.
Io giocavo, affacciata sulla via
dove una loquace fontana cantava.

Ieri, numerosi i momenti felici,
oggi, ricordi antichi ma chiari
dei miei sette anni lontani.

Piera M. Chessa

[immagine tratta http://www.mobbing-sisu.com/poesie/nonni.htm]

Cristina Bove

Non è facile, in poche frasi, parlare di Cristina, si ha voglia di dire tante cose, che è una donna eclettica, dai mille interessi e dalle numerose attitudini naturali, che è una straordinaria poetessa, che è una bravissima narratrice, pittrice, scultrice, e tanto altro ancora… Io dico semplicemente che è una gran donna, dalla scrittura raffinata, dall’animo sensibilissimo e profondo, ricco di conoscenza, di condivisione, capace di uno sguardo equilibrato ma fermo sugli avvenimenti.

unitedcomunicationblog.splinder.com/tag/restauro

cerone

Racconterai storie da ridere
quelle che fanno stare bene
e truccherai le ore della sera
di festa e di baldoria
è così che ti vuole la platea
non vuol sapere quanto ti è costato
un respiro, un ritorno, una commedia

devi aprire le case del silenzio
imparando a giocare
brindare alla fortuna di un minuto
e fartelo bastare. Se ti affligge
il pensiero, se ti tormenta la paura
o il peso, e ti assillano gli anni
chiudi con discrezione ogni spiraglio
è così che ti vogliono gli astanti
di cosa muori tu non interessa
– tutti si muore un po’ ogni giorno –
ciascuno vive della sua tragedia.

 ***

l’indifferenza

ha risvolti di sabbia
sigilla porte e storie
a giorni alterni
porta pazienza, il cerchio
gira nel breve spazio
a schiodare garofani da bocche
mute per ingoiare
reggilingue
tip tap
batte di scarpe lucide appaiate
la vita senza lacci

portami un mezzo fiore
un sacchetto di carta stropicciato
perfino un fildiferro
– mai ti farei del male –
non costruirmi intorno una muraglia.

 Cristina Bove

Jacques Prévert

                                                     

http://www.filmica.com

Dall’introduzione di Maurizio Cucchi al libro “ La pioggia e il bel tempo”, di Jacques Prevert, le fenici tascabili – Ugo Guanda Editore

“La grande popolarità arrivò a Jacques Prévert nel 1946, dopo la pubblicazione del suo libro di versi rimasto più famoso, Parole. In precedenza aveva lavorato molto per il teatro, e per il cinema, stabilendo una sorta di legame, tra cinema e poesia, […]. Ma le sue poesie erano rimaste per lo più sparse in riviste, anche se c’era stata una prima raccolta, nel 1943, circolata pochissimo.

Prévert, d’altra parte, non cercava il tipo di fama che ebbe; i suoi versi sembravano destinati a restare foglietti volanti, parola che non si cura troppo d’imprimersi, di prendere dimora fissa; che nasce invece occasionale, o per pochi amici. Non per nulla un verso -paradosso di questa raccolta, uscita nel ’55, dice così: “ gli scritti volano le parole restano” (in Buffo palazzo). Sta di fatto che questi foglietti volanti incontrarono il gusto popolare, e continuano a incontrarlo, non senza fastidio di alcuni. E proprio il disagio per il suo grande successo convince i noiosi a dare spiegazioni goffamente riduttive: Prévert è facile, è superficiale, è un bravo paroliere…”

Il fiume

I tuoi giovani seni brillavano alla luna

ma lui ha buttato

il gelido sasso

la fredda pietra della gelosia

sul riflesso

della tua bellezza

che danzava nuda sul fiume

nello splendore dell’estate.

Adesso sono cresciuto

Da bambino

mi sono proprio divertito

tanto ridere

tanto ridere per niente

e subito dopo una tristezza opprimente

e talvolta tutt’e due contemporaneamente

Allora mi credevo disperato

Invece mi mancava soltanto la speranza

non avevo nient’altro che esser vivo

ed ero intatto

ero contento

ed ero triste

ma non fingevo mai

Non avevo nient’altro che esser vivo

Scuotere il capo

per dire di no

scuotere il capo

per non farci entrare le idee della gente

Scuotere il capo per dire di no

e sorridere invece per dire di sì

sì alle cose e agli esseri

agli esseri alle cose da guardare carezzare

da amare

da prendere o lasciare

Ero così com’ero

senza opinioni nella testa

E se avevo bisogno di idee

che mi tenessero compagnia

io le chiamavo

E subito venivano

e io dicevo sì a quelle più belle

e le altre le buttavo via

Adesso sono cresciuto

e le idee anche

ma sono sempre grandi idee

belle idee

idee ideali

E io gli rido sempre in faccia

Però loro mi aspettano

per vendicarsi

e per mangiarmi

quel giorno che mi troveranno troppo stanco

Ma io all’angolo di un bosco

le sto aspettando anch’io

e gli taglierò la gola

gli farò passare l’appetito.

                                                  Jacques Prévert

 www.lovethepoem.com/poets/jacques-pr-vert/

 

Il caffè di Vincent

(Su un quadro di Van Gogh)

http://www.artsblog.it

E’ quasi deserto il caffè di Vincent,

nessuno più gioca al tavolo del biliardo

e i pochi avventori,

sopravvissuti al giorno,

si adagiano stanchi.

Bottiglie e calici,

disposti sui ripiani,

giacciono vuoti, inerti.

Solo le lampade dorate,

alle pareti,

attenuano il nero della notte,

mentre il grande orologio,

inseguendo le ore,

ammonisce gli animi

già incerti.

Piera M. Chessa

****

Suggerimento

Sul blog di Eleonora, Di tutto…o Quasi, un delizioso racconto intitolato Ossessioni.

Un testo che si legge molto volentieri e che, nella sua parte conclusiva, sembra voler lasciare al lettore la possibilità di concludere la storia secondo le proprie aspettative. Non è la prima volta che la scrittrice usa, in fondo divertendosi, questa tecnica.

Buona lettura.

http://shiva-ditutto.blogspot.com/2009/07/ossessioni-di-eb.html

 

 Elogio dell’ombra

La vecchiaia (è questo il nome che gli altri le danno)

può essere per noi il tempo più felice.

E’ morto l’animale o quasi è morto.

Restano l’uomo e l’anima.

Vivo tra forme luminose e vaghe

che ancora non son tenebra.

Buenos Aires,

che un tempo si lacerava in sobborghi

verso la pianura incessante,

è di nuovo la Recoleta, il Retiro,

le confuse strade dell’Once

e le precarie case vecchie

che seguitiamo a chiamare il Sud.

Nella mia vita son sempre state troppe le cose;

Democrito di Abdera si strappò gli occhi per pensare;

il tempo è stato il mio Democrito.

Questa penombra è lenta e non fa male;

scorre per un mite pendìo

e somiglia all’eterno.

Gli amici miei non hanno volto,

le donne son quello che furono in anni lontani,

i cantoni sono gli stessi e altri,

non hanno lettere i fogli dei libri.

Dovrebbe impaurirmi tutto questo

e invece è una dolcezza, un ritornare.

Delle generazioni di testi che ha la terra

non ne avrò letti che alcuni,

quelli che leggo ancora nel ricordo,

che rileggo e trasformo.

Dal Sud, dall’Est, dal Nord e dall’Ovest

convergono le vie che mi han condotto

al mio centro segreto.

Vie che furono già echi e passi,

donne, uomini, agonie, resurrezioni,

giorni e notti,

sogni e immagini del dormiveglia,

ogni minimo istante dello ieri

e degli ieri del mondo,

la salda spada del danese e la luna del persiano,

gli atti dei morti,

l’amore condiviso, le parole,

ed Emerson, la neve, e quanto ancora.

Posso infine scordare. Giungo al centro,

alla mia chiave, all’algebra,

al mio specchio.

Presto saprò chi sono.

Jorge Luis Borges

(Da Elogio dell’ombra, 1969)

 

Il vecchio poeta

 www.regione.toscana.it/regione/export/RT/sito…

Seduto sul suo divano verde

il vecchio poeta ascolta

l’amico giornalista che domanda.


Da tempo, lo sguardo ormai spento

si posa vuoto sulle cose intorno,

ma una memoria straordinaria

lo guida per la stanza, lo accompagna.


Sereno e cortese, racconta la sua vita,

indicando gli oggetti ad uno ad uno

e narrando la storia di ciascuno.


L’amico ascolta e tace

seguendo i movimenti delle mani,

mentre il vecchio ricorda anni lontani

quando l’ombra cresceva nei suoi fragili occhi

al buio rassegnati.

Piera M. Chessa



Due poesie di Jorge Luis Borges


Borges con Calvinowww.internetculturale.it

Ricardo Guiraldes

Nessuno scorderà la cortesia

che era la naturale, la prima

forma del suo esser buono, vero segno

di uno spirito chiaro come il giorno.

Neppure scorderò la generosa

serenità, il fine volto forte,

i lumi della gloria e della morte,

né la mano che tenta la chitarra.

Come nel puro sogno di uno specchio

(tu sei la realtà, io il suo riflesso)

ti rivedo che conversi con noi

in Quintana. Sei lì, magico e morto.

Finalmente, Ricardo, è tuo l’aperto

campo dell’ ieri, l’alba dei puledri.

Le cose

Le monete, il bastone, il portachiavi,

la pronta serratura, i tardi appunti

che non potranno leggere i miei scarsi

giorni, le carte da gioco e la scacchiera,

un libro e tra le pagine appassita

la viola, monumento d’una sera

di certo inobliabile e obliata,

il rosso specchio a occidente in cui arde

illusoria un’aurora. Quante cose,

atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,

ci servono come taciti schiavi,

senza sguardo, stranamente segrete!

Dureranno più in là del nostro oblio;

non sapran mai che ce ne siamo andati.

Jorge Luis Borges 

www.hope.edu

Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo (Buenos Aires, 24 agosto 1899 – Ginevra, 14 giugno 1986) è stato uno scrittore e poeta argentino.
È ritenuto uno dei più importanti e influenti scrittori del XX secolo. Narratore, poeta e saggista, è famoso sia per i suoi racconti fantastici, in cui ha saputo coniugare idee filosofiche e metafisiche con i classici temi del fantastico (quali: il doppio, le realtà parallele del sogno, i libri misteriosi e magici, gli slittamenti temporali), sia per la sua più ampia produzione poetica, dove, come afferma Claudio Magris, si manifesta "l’incanto di un attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto".
Oggi l’aggettivo «borgesiano» definisce una concezione della vita come storia (ficcion), come menzogna, come opera contraffatta spacciata per veritiera (come nelle sue famose recensioni di libri immaginari).

(Da Wikipedia, l’enciclopedia libera)