
Il pianoforte

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foto tratta da www.flickr.com/photos/hanifeana/
Il libro racconta le storie di undici giovani migranti partiti dal loro paese con un grande sogno, un sogno che finisce purtroppo in modo drammatico.
Undici storie, undici vite raccontate con passione ma anche con equilibrio e talvolta con ironia.
Il brano che segue è tratto dal primo capitolo, dedicato appunto a Baba.
Baba
Tu vuoi che io racconti, ora che non ho più nulla in corpo da vomitare e la bocca
è
una caverna dove le parole camminano al buio;
cerchi di convincermi che mi sentirò più leggero nel partire, se parlerò della mia vita, alla mia fine. Cosa vuoi che dica, che già non sai: sei cresciuto, come altri qui, nella mia stessa strada, Sayoro. Ogni cosa importante di me ha lasciato la barca, ormai. Tu insisti, ma non è voce, la tua
suono
basso, che copre il vento che non ci ha mai lasciato soli. Quasi mai. Tu hai il dono di sapere ascoltare, ma la nostra brutta leggenda, Sayoro, non la canterai a nessuno e non ti importa;
non importa neanche a me.
Parlerò, per te e per gli altri e per le orecchie dell’aliseo e per la memoria che possiede l’oceano che tanto amo, nonostante ciò che è successo. Rido a dire queste cose e ne ridi anche tu, appena, di naso.
Gli altri respirano svegli, zitti. Non vi vedo, siete più neri del buio di adesso, né mi vedo io, neppure le mani, meglio così: tremano come foglie di palma. Le palme! Che cosa vuoi farci fare, Sayoro? Obbligarci a ricordare anche le foglie delle palme quando schioccavano come frustate al vento e noi bambini non riuscivamo ad addormentarci sapendo
certo che lo sapevamo
che quei rumori erano i ricordi che non muoiono mai, mai, dei nostri antenati flagellati.
La paura.
Non mi ha mai lasciato.
Ero piccolo
quando immaginavo una fune con il cappio, appesa
a sbattere al tronco del baobab che c’è al primo incrocio della mia strada. Una fune, una paura, che ha sempre dondolato sulla mia testa; e mi sentivo ridicolo, e mi dicevo, Sei un uomo libero, Baba. La schiavitù è solo una vecchia orrenda storia.
Non mi ero sbagliato. Non è strano? Non è veramente ridicolo? Muoio per una fune, in fondo.
Che pena,essermi fatto venire in mente il viale e quell’albero, già tanto vecchio quando ero piccolo. Brutta bestia, la pena: essere sicuro che la pianta continuerà a vedere la strada quando a me non capiterà più.
La nostra vita se ne sta andando e tu pretendi, in qualche maniera, pretendi, Racconta;
ma a noi ci puzzano le bocche e non ci brillano più i denti. Faranno schifo anche le parole, ma tu
le vuoi, e l’hai chiesto anche agli altri. Lo chiedi da zitto, adesso l’ho capito.
Non sono arrabbiato come dovrei essere. Ho perso tutto, come te, e gli altri. Domani posso essere morto. Forse stanotte. Forse siamo già morti tutti a Natale, quando siamo saliti su questa barca che aveva un grande difetto e non ce ne siamo accorti subito: era maledettamente bianca.
Sì, la rabbia che è esistita se n’è andata quasi tutta e io adesso mi sento ridicolo a parlare, mentre sto morendo così. Ridicolo!
Non mi sono sentito gridare. Immaginate che l’ho fatto.
Io con la morte ho già confidenza, per il piede zoppo che mi ritrovo.
Io.
Non so quasi dirlo, “Io”. E’ come se mi fossi già sfaldato e l’io che ero mi volasse sopra il corpo che ora è qui, senza forze in mezzo a voi, mie copie. Estraneo a me stesso osservo tutto accadere.
Posso parlare di un certo Baba che ho conosciuto; va bene, così, Sayoro? Parlerò fingendo d’essere io. Oppure posso fingere d’essere un altro; magari uno che non ha né fame né sete. Non mi fa male nulla, del corpo, sai? Sento solo delle piccole morsicature al piede.
Lo so che è impossibile che siano vere.
Non riesco a non essere Baba: mi dispiace per Baba.
Sono nato zoppo destro, con il piede che non ha mai avuto cuore e polmoni, e non si è goduto quello che faceva il sinistro. Tutta la vita è stato geloso dell’altro, ma adesso, sono sicuro, se la gode: lui almeno, già morto, non teme becchini. Yaay mi raccontava che quando ero ancora nella sua pancia e mi muovevo, con il piede sinistro la riempivo di colpi e con l’altro l’accarezzavo. Quando sono nato, il piede destro è stata l’ultima parte del mio corpo a lasciarla. Yaay me lo diceva sempre e sempre, mi annoiava con questa cantilena, era un’ossessione,
e ripeteva anche che aveva pianto molto di nostalgia per le carezze che perdeva. Le amiche e le sorelle a consolarla per aver partorito un figlio storpio e lei a gridare solo, Ora, sono davvero sola.
Non me ne fregava un bel niente di sentire la stessa tiritera ogni giorno, sulla mia nascita. Sono nato come nascono gli altri, guai a me, non potevo dirlo: ci restava male,
ma non abbastanza. Il giorno dopo mi raccontava ancora la storia, aspettandosi curiosità sulla mia faccia. Da strozzarla! Non provavo neppure ad allontanarmi. Tanto, se anche mi fossi spostato, mi sarebbe venuta dietro. Parlando. Ascoltavo e sentivo che mi venivano giù le spalle.
Si stancavano anche loro ad ascoltarla.
Povera Yaay.
[…]
Savina Dolores Massa, Undici (Il Maestrale, 2008)
visita il blog Ana la Balena
Salivo insieme a te
la lunga scala
che conduceva in alto,
a Monterosso.
Il muro, sul quale mi appoggiavo
tenendo la tua mano,
si affacciava sul mare trasparente
e i versi del poeta
tornavano alla mente
malinconici o disperati,
carichi di umanità.
Eugenio lì, a narrare,
a ricordare la tragedia vissuta,
i segni profondi
lasciati negli animi,
le ferite mai chiuse.
Con noi, a parlare di poesia,
di muri a secco e cocci di bottiglia,
di Clizia e di Drusilla.
A raccontare
di bufere e altro.
P.M.C.
foto tratta da www.muralesinsardegna.net
Tre liriche di una poetessa che ho conosciuto da poco tempo ma che considero amica da tanto; mi ha colpito la sua sensibilità, quella che lei chiama “durezza” e che in realtà è solo profonda conoscenza del dolore, il suo scavare dentro di sé e poi dentro la parola.
(Foto tratta dal web)
Il bello della democrazia è proprio questo: tutti possono parlare, ma non occorre ascoltare.
La democrazia è fragile, e a piantarci sopra troppe bandiere si sgretola.
Cara Italia, perché giusto o sbagliato che sia questo è il mio paese con le sue grandi qualità ed i suoi grandi difetti.
Enzo Biagi
Pianaccio, 9 agosto 1920 – Milano 6 novembre 2007
Ti immagino qui, accanto a me,
la sigaretta tra le labbra,
lo sguardo diretto di chi non ha timore
perché sa bene che cos’è il dolore.
Mi guardi, non sai che ti conosco,
che tante volte ho letto i tuoi pensieri
e a lungo ho riflettuto sulla vita
di chi conosce bene il pozzo fondo.
Ti vedo camminare lentamente
tra i tanti fogli bianchi che hai riempito,
tra mozziconi brevi a terra andati,
gettati lì dalla tua noncuranza.
Tu non ami parlare del passato,
di tutto ciò che a lungo ti ha ferito;
in fondo a niente serve raccontare
a chi non conosce affatto quel dolore
profondo e insopportabile del cuore
e della mente, e cerca di capire.
Io ti saluto, Alda, e ti compiango,
difficile scordare il tuo sorriso
a volte dolce a volte un po’ beffardo,
le tue movenze morbide e un po’ lente,
il tuo indagare intelligente
il mondo.
P.M.C.