Archivio | aprile 2010

Resistenza

 
 
Sette fratelli come sette olmi,
alti robusti come una piantata.
I poeti non sanno i loro nomi,
si sono chiusi a doppia mandata :
sul loro cuore si ammucchia la polvere
e ci vanno i pulcini a razzolare.
I libri di scuola si tappano le orecchie.
Quei sette nomi scritti con il fuoco
brucerebbero le paginette
dove dormono imbalsamate
le vecchie favolette
approvate dal ministero.
 
Ma tu mio popolo, tu che la polvere
ti scuoti di dosso
per camminare leggero,
tu che nel cuore lasci entrare il vento
e non temi che sbattano le imposte,
piantali nel tuo cuore
i loro nomi come sette olmi :
Gelindo,
Antenore,
Aldo,
Ovidio,
Ferdinando,
Agostino,
Ettore ?
 
Nessuno avrà un più bel libro di storia,
il tuo sangue sarà il loro poeta
dalle vive parole,
con te crescerà
la loro leggenda
come cresce una vigna d'Emilia
aggrappata ai suoi olmi
con i grappoli colmi
di sole.
 
Gianni Rodari – Compagni fratelli Cervi – 1955

 

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ALLE FRONDE DEI SALICI
 
 
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo ?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
 
(Salvatore Quasimodo, “Giorno dopo giorno”, 1947)
 
 
 
Lo avrai
camerata Kesserling
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costituirà
a deciderlo tocca a noi
non coi sassi affumicati
dei borghi inermi e straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità.
Non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire
ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro di ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato tra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo
su questre strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ORA E SEMPRE RESISTENZA
 
P. Calamandrei

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Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l' Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino
del piano friulano: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce……
 
Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un'alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge.
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l'alba nascente fu una luce
fuori dall'eternità dello stile….
Nella storia la giustizia fu coscienza
d'una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.
 
Pier Paolo Pasolini
 
(Testi e immagine da web)

Fabrizio Centofanti

 
 

(foto da web)
 
Un racconto particolare, speciale, questo, come lo sono del resto gli altri diciotto che costituiscono il libro “Guida pratica all'eternità”.
Ho letto diverse volte queste storie, eppure spesso mi ritrovo a pensare:” Ma questo passaggio mi era sfuggito, questa frase ha forse un altro significato!” C'è tanto in questo libro: spessore, intelligenza, bontà, ma anche uno sguardo lucido, oggettivo, e nessuna concessione al sentimentalismo, nessuna esternazione delle proprie sensazioni, tutto è misurato, gli stati d'animo tenuti sotto controllo.
Anche lo stile, così essenziale, le parole, solo quelle necessarie, ma così fondamentali ed indovinate da permettere a noi lettori di “entrare” nelle storie raccontate, nei cuori dei protagonisti, da permetterci di conoscere, almeno un poco, il “regista” di queste storie, un autore che i suoi protagonisti, veri o immaginari, li ha amati profondamente.
E quest'affetto, questo desiderio di capire e condividere le loro vite lo si percepisce in ogni pagina del libro.
 
 
Vulcani
 
Turi era un ragazzo esile, ma con un sacco di idee. Nella vita avrebbe fatto qualcosa di grande, come l'Etna, che torreggiava sulle strade del suo paesone. La montagna lo ispirava: si sentiva nelle viscere la stessa potenza, che poteva fare di lui un uomo fortunato, uno di quei ricchi con il Rolex d'oro che aveva visto nelle pagine dei giornali per femmine letti e riletti dalla madre e la sorella.
   Passava le giornate a pensare al futuro: gli stavano stretti i banchi della scuola e anche i giochi con quei babbazzi dei suoi coetanei. Lui guardava i grandi, non quelli del paese: quelli visti in tivù, che entravano in banca, o avevano una segretaria, o dettavano legge nei cantieri.
   Man mano che cresceva, lavorando tanto e lavorando bene, si accorse di avere un dono naturale: quello di rimettere in piedi le imprese agonizzanti: le portava in alto in poco tempo, dopo di che mollava tutto e ripartiva con un nuovo moribondo.
   La sua vita era una corsa. Aveva un amore sviscerato per le auto di lusso. Si sentiva inebriato quando accarezzava il volante di una Ferrari o di una Jaguar, ma non per esibizionismo da strapazzo; lui non era come i compaesani arricchiti che strombazzavano il clacson esibendo benessere e dentiere. Doveva solo dimostrare a se stesso che il ragazzo con un sacco di idee aveva davvero la potenza del vulcano. Entrò nel mondo del cinema. Tutto quello che toccava diventava oro.
   Più lo conoscevo, Turi, più la sua esistenza mi sembrava l'opposto della mia. Anche la mia vita bruciava ogni energia con la potenza del vulcano, ma in un moto verso il basso, verso il fondo, alle radici. I miei sogni erano altri, facevano un percorso inverso, invisibile al mondo; non sapevo che avrei fatto la scelta di entrare in seminario, ma il mio desiderio aveva la stessa intensità di Turi, eravamo due vulcani contrapposti, lui con i lapilli lanciati verso il cielo, io con la lava che scendeva a valle con una marcia altrettanto irresistibile.
   Turi era diabetico, ma cucinava da dio. La sua pasta alla Norma, con le melanzane siciliane, non aveva uguali. Alla faccia del diabete, non disdegnava nemmeno la granita e la brioche delle dieci del mattino. Ma era il pesce spada il suo capolavoro: nessuno ne conosceva il segreto, e il piatto gli usciva dalle mani come per miracolo.
   A Taormina veniva incontro a me e don Mario in costume da bagno e ciabattine, col suo passo pesante e ondulatorio, la pancetta e gli occhiali da sole: sembrava un cineasta americano di quelli che mettono in mostra sui giornali, con il Rolex d'oro al polso.
   Turi diceva che i preti erano egoisti, mentre lui rischiava tutto mettendo in gioco quello che aveva accumulato. “E perché, noi?”, volevo dirgli. Ma a Turi, su questo punto, era inutile rispondere, stava già parlando d'altro.
   A Roma si era fatto costruire una casa da uno degli architetti italiani più famosi: era in collina, e forse voleva riprodurre un sogno di potenza lavica e lapillica, un simbolo di vita che si espande, e non, diceva lui, come la vita dei preti che si conserva e preserva – e io volevo dirgli: “La nostra?”, perché già m'identificavo con don Mario – ma lui parlava d'altro.
   Ne aveva fatta di strada, Turi. Ora correva sulla Taormina-Messina con la sua Jaguar fiammante che divorava i chilometri come Scilla e Cariddi i marinai. Curva dopo curva inseguiva il suo sogno di ragazzo esile con un sacco di idee, anche adesso che pesava cento chili e con gli occhiali da sole sembrava un cineasta americano.
   Fu del tutto imprevisto il meccanismo inceppato del volante, l'imprecazione gli uscì naturalmente, come un sussulto del vulcano, e l'ultima immagine, prima dello schianto, fu quella della sua montagna. Rimase riverso sul volante, come un eroe morto in battaglia.
   L'ambulanza arrivò dopo mezz'ora; nessuno ritrovò il suo Rolex d'oro, l'ultimo dono di una vita da grandi, vissuta sull'orlo del cratere.
 
(Fabrizio Centofanti, Guida pratica all'eternità – Racconti fra cielo e terra,
Effatà Editrice)
    

Primavera

 

(foto da web)
 

La vedi che arriva leggera
ancora un po' incerta,
la senti nell'aria
posare in silenzio il suo fiato sui fiori,
sulle gemme, sulle tenere foglie
che ricoprono i rami.
 
La senti nel cuore
che vibra sereno al suo arrivo,
nella mente che si apre al sorriso
dopo i giorni di freddo e di amaro.
 
La scopri negli occhi dei bimbi
che sanno gustare
un presente leggero di pene,
ignari di un mondo 
che conosce il dolore.
 
Ma anche negli occhi dei vecchi
che si illudono ancora
di poter raccontare
un'infanzia ora molto lontana.

Buona Pasqua


A  mio fratello A., al mio carissimo amico S., a tutti gli amici, quelli cosiddetti "veri" e quelli cosiddetti "virtuali", il mio augurio di una Pasqua vissuta serenamente.

Vi saluto con una bella poesia di Giovanni Nuscis, poeta e uomo dall'animo nobile, e con un bel brano di Pasquale Festa Campanile. 

 

 
(foto da web)

 

Buona Pasqua…

Non chiedetemi se credo.

Per l'amore che porto alla parola
e al mistero non rispondo.
Domandatemi se immagino
Cristo in croce e cosa provo,
se comprendo il dolore della madre
e dei suoi cari mentre muore
e geme invocando il padre.
Ci fossi stato anch'io il giorno
in cui è risorto per abbracciarlo:
magari da lontano, indegno;
e tra coloro a cui riapparve
presso il lago di Tiberiade
all'alba, leggero sulle acque.
Chiedetemi se lo penso vivo
ancora, in nuovi volti e in nuovi gesti
(in)sofferente o imprevedibile
sgattaiolato fuori dai vangeli
e dalle chiese, tra la gente.
 
Giovanni Nuscis
 
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Sul Calvario
 
Fecero uscire dal cortile della prigione Caleb e un altro uomo. Caricarono sulle loro spalle il legno della croce, cioè la trave orizzontale che sarebbe stata fissata al palo, già piantato sulla collina. Caleb mi vide subito e mi salutò alzando il braccio. Raggiungemmo il terzo condannato, Gesù, che andava piano perché era indebolito dalle botte. Aveva le spalle piagate.
Caleb mi gridò: – Vattene, Debora! – , ma io non lo lasciai. Non volevo che morisse solo. Gesù era seguito da sua madre e da persone che piangevano, ma Caleb non aveva che me.
Li rizzarono sulla croce, sembrava che Gesù soffrisse più di tutti. Si lamentava ad alta voce. Credo che si rivolgesse a Dio.
I preti e i soldati lo prendevano in giro dicendogli: – Hai salvato altri, salva te stesso, scendi dalla croce.
Anche l'altro uomo, quello che era crocifisso alla sua sinistra, lo insultava. Caleb gli disse di smetterla.
Si girò verso di me e aggiunse: – E' un uomo come noi.
Gesù lo ringraziò e disse: – Oggi sarai con me nel mio regno.
Caleb sorrise: – Vai pure avanti tu -, rispose.
Gesù infatti stava per morire. Spirò poco dopo, gridando alcune parole che non riuscii a capire. Quel giorno si era fatto buio più presto del solito e si era alzato il vento.
La gente ebbe paura. Quasi tutti scesero dalla collina.
 
(P. Festa Campanile, Il ladrone, Bompiani)