Sempre difficile parlare di Cristina.
Perché? Perché parlare di lei significa entrare in un mondo ampio, complesso, fatto di mille sfaccettature, di numerosi elementi, tessere difficili da collocare all'interno di un puzzle che non sarà mai concluso ma aperto sempre a nuove soluzioni, a forme e collocazioni diverse.
Cristina è un mistero, una donna che pensi di conoscere un pochino ma che non conoscerai mai pur regalandoti lei continuamente affetto, amicizia e soprattutto poesia.
Cristina è poeta, un musico, un cantore dei tempi mitici, la sua poesia è musica, armonia, profondità. Dopo aver letto un suo testo non si può non pensare a quanto lavoro, fatica, impegno siano necessari per raggiungere certi risultati. Bellissimi versi, modellati come un'opera scultorea, raffinati. Un lavoro da orafo.
Troppo? No. Dietro e a sostegno naturale di questi versi c'è grande spessore, lo sguardo attento sulle cose di una donna che conosce e ha conosciuto la sofferenza.
E poi scopri, perché detto con sincerità da lei stessa, che quei versi, quelle parole sono scaturite così dal suo animo e non hanno quasi bisogno di un'ulteriore limatura, ma aspettano soltanto di essere portati alla luce.
Questa è Cristina, credo, questa la sua poesia.
Il discorso poi si allungherebbe se si parlasse anche degli altri suoi molteplici interessi, i dipinti, le sculture, e non solo. Ma questa è ancora un'altra storia…
Ecco alcune sue poesie tratte dall'ultimo libro “Attraversamenti verticali”,
prefazione di Renzo Montagnoli, Edizioni Il Foglio 2009.
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Ora vorrei
Ora vorrei di cielo
un vetro terso dal quale osservare
le cose che non hanno destino
quelle lasciate indietro con le orme
il desiderio
di un sapore gentile
forse di un tè alla menta e gelsomino
Ora vorrei di terra
un incalzare di respiro senza
l'ansia di andare
o promettere spazi che negai
perfino a me quando era tempo
voglia
di libertà di vivere chi sono
di sapermi dannata, forse, oppure giusta
e di stendere veli.
Ora vorrei accordare il mio sentire
al fuoco del mio mare.
Oltre il giardino
Avremo parole a contenere le strade
e le mille e una storia della nostra pazienza
avere il fiato addosso
sentire il fuoco della vampa
farsi tenero fiume nei passaggi
segreti
nascosta nella giara
all'ombra sotto l'edera, la chiave
d'un azzurro sogno, d'un riposto cielo.
E quando si farà pressante l'aria
quando nemmeno la parola basterà e il suo miele
avrà come bersaglio l'uscio chiuso
e la distanza incolmabile dei passi
mi farà irraggiungibile
allora
ricordati quel sì
quella promessa fatta all'anima mia
nascosta come perla nella carne vinta
ricordati
quando verrà il momento e sarai solo
di fronte all'infinito
-io ci sarò-
Obolo insufficiente
Giungerò, con la placidità di un fiume
lento alla foce, al giorno, in assoluto l'unico,
di segreti e di nebbie che
spegneranno gli occhi, e cateratte
a chiusura di processi cervellotici, amen
non pronunciati, scritti nell'aria coi respiri brevi.
Un macigno sul petto questa notte
mi tiene sveglia. Ho bisogno di ossigeno
e di comode scarpe per il guado
suole di gomma i sassi non avvertono.
Mi aggrappo alla tastiera, sciolgo la voce
asserragliata in gola. Mostro le tasche vuote:
Caronte rema, vira oltre l'approdo.
Io mi prometto il prossimo mattino.
Anche il mio amore vuole il suo domani, lui
mi vieta di andare, dice: gioia, non pensare
alle ombre, non evocare scene che appartengono
a spettri. Vola d'azzurro adesso. Ti trattengo,
mia farfalla insperata, nel crepuscolo.
E mai, ti giuro, mai permetterò
il tramonto.
Punti di osservazione
Qui
su questo spigolo di terra
dove sono meno di un punto
che nessuno attraversa che non pianga
il mio limite e la mia minima ombra.
Quando guardavo il mondo
telescopio a rovescio
mi sentivo sospesa e m'illudevo
d'avere casa in cielo
mi riempivo di Dio nella mia veste.
Il mio pallone alfine s'è bucato
su zone ignote sono ricaduta, con le gambe
spezzate
e tra gli umani porto il mio fardello.
Ora lo so che gli uomini si aggrappano
al gancio provvisorio di una fede
che muta il nome, ma sempre è un appiglio.
L'universale è solamente Ignoto
e nessuna parola lo racchiude.
Io aspetto l'altra ed ultima mia fine
quando il pensiero si farà silenzio
per averne l'accesso.
Kore
Varcò le soglie del dolore
nel vestito d'agosto
stretto che le fasciava il sonno
mentre
le cantava di rose il giardiniere.
Erano tanti i fiori già recisi
nel coltivo di serra
e pure il suo era prossimo al taglio.
Invano il piede si tendeva al passo
in battere e in levare.
Tutto predefinito, anzi finito
bastava incominciare, in quelle vie
che insegnano a morire.
Il giardiniere fa un'anestesia
perfino sa mutare quello stelo
infisso nella carne, ricamandoci seta.
E lei trasforma il battito smorzato
in un passo di danza.
Ora sa che non basta la poesia
a impedire l'ennesimo dolore
e che la stessa lama,
che un mattino remoto la recise,
oggi, nel suo tramonto, la trafigge.