Archivio | giugno 2010

Cristina Bove: brevi note su una poetessa "vera"

 

Sempre difficile parlare di Cristina.

Perché? Perché parlare di lei significa entrare in un mondo ampio, complesso, fatto di mille sfaccettature, di numerosi elementi, tessere difficili da collocare all'interno di un puzzle che non sarà mai concluso ma aperto sempre a nuove soluzioni, a forme e collocazioni diverse.

Cristina è un mistero, una donna che pensi di conoscere un pochino ma che non conoscerai mai pur regalandoti lei continuamente affetto, amicizia e soprattutto poesia.

Cristina è poeta, un musico, un cantore dei tempi mitici, la sua poesia è musica, armonia, profondità. Dopo aver letto un suo testo non si può non pensare a quanto lavoro, fatica, impegno siano necessari per raggiungere certi risultati. Bellissimi versi, modellati come un'opera scultorea, raffinati. Un lavoro da orafo.

Troppo? No. Dietro e a sostegno naturale di questi versi c'è grande spessore, lo sguardo attento sulle cose di una donna che conosce e ha conosciuto la sofferenza.

E poi scopri, perché detto con sincerità da lei stessa, che quei versi, quelle parole sono scaturite così dal suo animo e non hanno quasi bisogno di un'ulteriore limatura, ma aspettano soltanto di essere portati alla luce.

Questa è Cristina, credo, questa la sua poesia.

Il discorso poi si allungherebbe se si parlasse anche degli altri suoi molteplici interessi, i dipinti, le sculture, e non solo. Ma questa è ancora un'altra storia…

 

Ecco alcune sue poesie tratte dall'ultimo libro “Attraversamenti verticali”,
prefazione di Renzo Montagnoli, Edizioni Il Foglio 2009.

 

****

Ora vorrei

 

Ora vorrei di cielo

un vetro terso dal quale osservare

le cose che non hanno destino

quelle lasciate indietro con le orme

il desiderio

di un sapore gentile

forse di un tè alla menta e gelsomino

 

Ora vorrei di terra

un incalzare di respiro senza

l'ansia di andare

o promettere spazi che negai

perfino a me quando era tempo

voglia

di libertà di vivere chi sono

di sapermi dannata, forse, oppure giusta

e di stendere veli.

 

Ora vorrei accordare il mio sentire

al fuoco del mio mare.

 

Oltre il giardino

 

Avremo parole a contenere le strade

e le mille e una storia della nostra pazienza

avere il fiato addosso

sentire il fuoco della vampa

farsi tenero fiume nei passaggi

segreti

 

nascosta nella giara

all'ombra sotto l'edera, la chiave

d'un azzurro sogno, d'un riposto cielo.

 

E quando si farà pressante l'aria

quando nemmeno la parola basterà e il suo miele

avrà come bersaglio l'uscio chiuso

e la distanza incolmabile dei passi

mi farà irraggiungibile

allora

ricordati quel sì

quella promessa fatta all'anima mia

nascosta come perla nella carne vinta

ricordati

quando verrà il momento e sarai solo

di fronte all'infinito

-io ci sarò-

 

Obolo insufficiente

 

Giungerò, con la placidità di un fiume

lento alla foce, al giorno, in assoluto l'unico,

di segreti e di nebbie che

spegneranno gli occhi, e cateratte

a chiusura di processi cervellotici, amen

non pronunciati, scritti nell'aria coi respiri brevi.

 

Un macigno sul petto questa notte

mi tiene sveglia. Ho bisogno di ossigeno

e di comode scarpe per il guado

suole di gomma i sassi non avvertono.

 

Mi aggrappo alla tastiera, sciolgo la voce

asserragliata in gola. Mostro le tasche vuote:

Caronte rema, vira oltre l'approdo.

 

Io mi prometto il prossimo mattino.

 

Anche il mio amore vuole il suo domani, lui

mi vieta di andare, dice: gioia, non pensare

alle ombre, non evocare scene che appartengono

a spettri. Vola d'azzurro adesso. Ti trattengo,

mia farfalla insperata, nel crepuscolo.

E mai, ti giuro, mai permetterò

il tramonto.

 

Punti di osservazione

 

Qui

su questo spigolo di terra

dove sono meno di un punto

che nessuno attraversa che non pianga

il mio limite e la mia minima ombra.

 

Quando guardavo il mondo

telescopio a rovescio

mi sentivo sospesa e m'illudevo

d'avere casa in cielo

mi riempivo di Dio nella mia veste.

 

Il mio pallone alfine s'è bucato

su zone ignote sono ricaduta, con le gambe

spezzate

e tra gli umani porto il mio fardello.

Ora lo so che gli uomini si aggrappano

al gancio provvisorio di una fede

che muta il nome, ma sempre è un appiglio.

 

L'universale è solamente Ignoto

e nessuna parola lo racchiude.

Io aspetto l'altra ed ultima mia fine

quando il pensiero si farà silenzio

per averne l'accesso.

 

Kore

 

Varcò le soglie del dolore

nel vestito d'agosto

stretto che le fasciava il sonno

mentre

le cantava di rose il giardiniere.

 

Erano tanti i fiori già recisi

nel coltivo di serra

e pure il suo era prossimo al taglio.

Invano il piede si tendeva al passo

in battere e in levare.

Tutto predefinito, anzi finito

bastava incominciare, in quelle vie

che insegnano a morire.

 

Il giardiniere fa un'anestesia

perfino sa mutare quello stelo

infisso nella carne, ricamandoci seta.

E lei trasforma il battito smorzato

in un passo di danza.

 

Ora sa che non basta la poesia

a impedire l'ennesimo dolore

e che la stessa lama,

che un mattino remoto la recise,

oggi, nel suo tramonto, la trafigge.

Oggi 21 giugno è la Giornata Mondiale dedicata alla sla (Sclerosi laterale amiotrofica).
 
Col pensiero rivolto ad A., a S., a tutti i malati che ogni giorno devono lottare contro questa ingiusta malattia e lo fanno con una dignità ammirevole e grande coraggio nonostante i cedimenti e le incredibili difficoltà, ai familiari, che li sostengono in tutti i modi, riporto alcuni tra i tanti pensieri e riflessioni di un uomo coraggioso, forte, indomabile ed estremamente ironico che in queste sue qualità e in una fede profonda ha trovato sollievo e forza.
 
***
 
Dal libro “Pensieri di uno spaventapasseri”, di Carlo Marongiu – Tipografia Ghilarzese
 

(foto da web)

 

“Ci sono tre cose capaci di attenuare ogni genere di sofferenza: la preghiera, la pazienza e la fantasia.”
 
“Il fatto che io debba dipendere completamente da voi tutti, il fatto che io veda i vostri sacrifici e le vostre rinunce, la vostra partecipazione e la vostra solidarietà provoca in me questi sentimenti e stati d'animo: amore, riconoscenza, imbarazzo e umiliazione.”
 
“Durante la mia vita non ho mai pregato tanto ma ogni sera, prima di dormire, era d'obbligo pregare così: ”Signore ti ringrazio per tutto quello che mi hai dato, la famiglia, il lavoro, la casa, la salute. Ti prego Signore, se deve esserci una malattia in famiglia fa che sia io ad averla.”
Devo dire di essere stato accontentato, anche se nell'accontentarmi credo abbia largheggiato un po' troppo e che volentieri mi sarei accontentato di un regalo più modesto.”. 
 
“Questi pensieri che sto dettando sono per tutti voi che venite a trovarmi, sperando che possiate trarne giovamento tanto quanto ne traggo io vedendovi e sentendovi.” 
 
“Non capisco come mai quando chiedo di essere aspirato dal tubo alcuni di voi si ostinano ancora a guardare le pressioni del respiratore.
Ho sempre detto che io sono una persona intelligente mentre la macchina è stupida, infatti aumentando le pressioni, essa vi segnala soltanto la presenza di un ostacolo al momento dell'entrata dell'aria nei polmoni, ma non vi dice di che genere di ostacolo si tratta. Nel mio caso sappiamo che si tratta di secrezioni, ma non vi dice dove sono, se sono molte o poche o se sono dense o liquide. Io invece queste cose le sento perché sono dentro di me. Se scartate l'idea che a me possa piacere il sondino in trachea allora dovete convenire che se chiedo di essere aspirato ci deve essere un valido motivo. A questo punto permettetemi di darvi un piccolo consiglio. “Quando vi chiedo d'essere aspirato guardate pure la macchina se vi piace, ma contemporaneamente poggiate una mano sul mio torace e così potrete avere tutte le risposte che desiderate”. Questa puntualizzazione non vuole essere un rimprovero per nessuno, ma se voi potete dire la vostra permettete a me di dire la mia.”
 
“Non so se sia così per ogni malato, ma per me il conforto è indispensabile come la manna, sia che esso arrivi dalle parole di una persona o da quelle di un libro, oppure, da un fatto che accade o anche da un sogno. Spero che continui ad arrivarmi con la stessa frequenza adottata finora.”
 
“Credo che la gravità di una malattia non debba essere giudicata dai danni fisici che essa provoca sulle persone, ma anche dalla capacità di reazione fisica e spirituale dell'individuo alla malattia stessa.”
 
“Non crediate che io pensi che non esista al mondo altra malattia peggiore della mia. Infatti, se potessi esprimere un desiderio sapendo di essere esaudito chiederei al Signore di fare in modo che i bambini non debbano ammalarsi mai. Non stupitevi per questo, ma sappiate che da giovane ho avuto modo di visitare il Cottolengo di Torino e là ho visto i bambini.”
 
“Posso ben dire che la rianimazione è la mia seconda casa, intesa come la casa di campagna dove si va ogni tanto, si sta alcune ore con vecchi amici e poi si fa ritorno all'abitazione principale.”
 
“Mi ha sempre affascinato meditare e considerare che al termine di questa breve vita ce ne sia un'altra, fatta di gioia e serenità che durerà per sempre, per sempre, per sempre, che non finirà mai, mai, mai. E' confortante sapere che, dopo miliardi di anni di questa nuova vita, abbiamo fatto solo un primo passo di un cammino lunghissimo di felicità."
 
A Carlo Marongiu il mio grazie.

José Saramago… è partito

Dal libro “L'anno della morte di Ricardo Reis”, di José Saramago, La Biblioteca di Repubblica.
 
Foto da web
 
  “In casa di Ricardo Reis c'è ora un'altra voce. E' una radiolina, la più economica che si può trovare sul mercato, della popolare marca Pilot, con cassa di bachelite color avorio, scelta, soprattutto, perché occupa poco spazio ed è facilmente trasportabile, dalla camera allo studio, che sono i posti dove il sonnambulo abitante di questa casa passa la maggior parte del suo tempo. Se la decisione fosse stata presa nei primi giorni del trasloco, quando era ancora vivo il gusto della casa nuova, qui ci sarebbe oggi una supereterodina a dodici lampade, o valvole della massima potenza, capace di disturbare tutto il quartiere e di richiamare alle finestre, per godere dei piaceri della musica e delle lezioni della parola, tutte le comari del vicinato, compresi i vecchi, in questo caso di nuovo soggetti e cortigiani per via del richiamo. Ma Ricardo Reis vuole solo tenersi aggiornato con le notizie, in maniera discreta e riservata, ascoltarle in un mormorio intimo, così non si sentirà obbligato a spiegarle a se stesso, o a tentare di decifrare che sentimento inquieto lo avvicini all'apparecchio, non dovrà interrogarsi sugli occulti significati dell'occhio smorto, del ciclope moribondo, che è la luce del minuscolo quadrante, sarà forse di giubilo l'espressione contraddittoria se sta morendo, o di paura, o di pietà. Sarebbe molto più chiaro se dicessimo che Ricardo Reis non è capace di decidere se lo rallegrino le proclamate vittorie dell'esercito rivoltoso in Spagna o le non meno celebrate disfatte delle forze che sostengono il governo. Di certo ci sarà chi affermi che dire una cosa è lo stesso che dire l'altra, invece no, nossignore, poveri noi se non tenessimo in debito conto la complessità dell'animo umano, il fatto che io sia contento di sapere che il mio nemico sia nei guai non significa, matematicamente, che io applauda colui che nei guai ce lo ha messo, attenzione. Ricardo Reis non approfondirà questo conflitto interiore, si accontenta, ci si perdoni l'improprietà della parola, del malessere che sente, come qualcuno che non ha avuto il coraggio di scuoiare un coniglio e ha chiesto a qualcun altro di fare questo lavoro, rimanendo ad assistere all'operazione, pieno di rabbia per la propria vigliaccheria, e tanto vicino da poter vedere e respirare il tepore che si libera dalla carne scuoiata, un tenue fumo che ha un buon odore, allora gli nasce nel cuore, o dove si vuole che tali cose nascano, una specie di rancore contro colui che sta compiendo una così gran crudeltà, com'è possibile che facciamo parte, io e costui, della stessa umanità, forse è per ragioni di questa fatta che non ci piace il boia e non mangiamo la carne del capro espiatorio.
   Lidia ha fatto una gran festa quando ha visto la radio, che carina, che bello poter sentire un po' di musica a qualunque ora del giorno e della  notte, esagerazione la sua, ché quel tempo è ancora lungi dal venire. E' un'anima semplice, che si rallegra con poco, oppure, approfittando all'uopo di qualunque piccola scusa, non fa che nascondere la propria preoccupazione nel vedere l'abbandono a cui Ricardo Reis si è lasciato andare, ormai trascurato nel modo di vestire, poco preoccupato della sua persona."
 
José Saramago
(Azinhaga, 16 novembre 1922 – Tias, 18 giugno 2010)

Scendo. Buon proseguimento


Dall'Introduzione di Vito Mancuso all'ultimo libro di Cesarina Vighy
“Scendo. Buon proseguimento” – Fazi Editore

 
   […]. L'umorismo, dice Cesarina Vighy, è “la cosa più necessaria”. Già nel suo romanzo aveva scritto che i nostri sensi sono ben più numerosi dei classici cinque, perché “il senso che mi è più utile ora, anzi necessario, sfugge alla classica catalogazione. E' una fortuna che l'abbia, tutto intero e magari un po' cattivo. E' il senso dell'umorismo”. […]
 
   L'umorismo consente a Cesarina Vighy di non cadere nella tetra psicologia del malato, ma di diffondere sempre con la sua scrittura una certa leggerezza spirituale. Non a caso nelle sue pagine si trovano frequenti annotazioni sul cielo, simbolo di libertà e di purezza:”All'imbrunire il cielo era di quel turchino che fa risaltare così bene, nei quadri di Magritte, le sagome nere degli alberi. Adesso è a pecorelle, ma sempre bello… Quando ho voglia di passeggiare e di vedere il mondo, mi affaccio alla finestra e respiro: il cielo di quel turchino è un regalo prezioso”. Sono osservazioni già presenti nel suo romanzo:” Guardo attraverso la finestra il pezzetto di mondo che mi spetta e, nonostante tutto, lo trovo bello”. La malattia non le impedisce di vedere la bellezza del mondo e di goderne, perché è libera dall'immaturità psicologica di chi, stando male, non vede altro che male e desidera che tutti stiano male. Lei ne è consapevole:”So bene che fatica si faccia a stare coi malati, sempre lagnosi o aggressivi”, lagna o aggressività che non sono altro che le due versioni possibili dell'unica energia negativa che si desidera riversare sugli altri. Lei, al contrario, dice alla figlia: ”Raccontami un centesimo di quello che hai visto, sentito, fatto. Solo cose buffe, però. Alle lagne ci penso io”, anche se in realtà lei di lagne ne produce ben poche. La leggerezza verso se stessa produce la signorilità di chi non si lamenta ossessivamente dei propri malanni, anche quando li descrive con accuratezza, nel proposito di contribuire a che gli altri sentano e afferrino la bellezza della vita.
 
   […]. Nelle pagine di Cesarina Vighy, nonostante i segni della malattia si facciano sempre più evidenti, si respira al contrario l'aria pulita di una grande libertà spirituale verso di sé, una delle più alte realizzazioni di quell'essere “poveri in spirito” lodato dalle beatitudini evangeliche, che, ovviamente, non rimanda a persone prive di spiritualità e di ricchezza interiore, ma a chi sa utilizzare la sua interiorità per l'apertura verso gli altri e non per attrarli egoisticamente verso di sé, schiacciandoli sul proprio ego.
 
   […]. Le pagine di Cesarina Vighy testimoniano quanto l'offerta religiosa tradizionale risulti spesso inadeguata rispetto alla spiritualità di cui ha bisogno il nostro mondo. Talora anzi la religione arriva addirittura a suscitare l'effetto contrario, un vero e proprio sentimento di negazione e di rabbia verso ogni discorso riguardante la dimensione spirituale.
   “Il rullo compressore di Santa Madre Chiesa coi suoi echi controriformistici, le cerimonie tra il fastoso e il lugubre, le devozioni con la nonna, la negazione della modernità”, tutto questo, descritto con lucidità e ironia dall'autrice, sta finendo, forse è già finito. Il risultato però, ben lungi dal condurre al radioso sol dell'avvenir, lo descrive la stessa autrice: “Noi oggi desertifichiamo la nostra anima”.
 
   Nello scritto intitolato Malattia e scrittura l'autrice ci offre quasi la descrizione in diretta dell'epifania dello spirito: “La scrittura ha realmente un effetto lenitivo sul corpo: la testa si fa lucida, si dimenticano in buona parte i dolori fisici nella concentrazione su quello che si va man mano scrivendo. A me la memoria fa uno scherzo strano:io, che ormai dimentico i nomi più consueti, quando scrivo ho, senza sforzo, una larga scelta di aggettivi, sinonimi ecc.; del resto, la scrittura obbedisce a una specie di automatismo, è come se scrivesse un altro. Chi? Gli antichi lo identificavano nella Musa e perciò ne invocavano l'ausilio, l'assistenza, l'opera”.
   Queste parole a mio avviso attestano la partecipazione della psiche alla dimensione dello spirito, che forse a questo punto si potrebbe anche scrivere Spirito […]. Chiunque ha provato questo stato sa a che cosa mi riferisco. Mi riferisco a quel senso di passività che l'autore sente quando giungono in lui pensieri e ispirazioni come da un'altra dimensione, la quale tuttavia è a lui personalissima, perché esprime la sua più alta e singolare personalità. Si ha proprio il medesimo movimento della genuina religiosità, quello che percepisce di essere al cospetto di qualcosa di più grande di sé, con cui, tuttavia, il proprio sé si identifica.
   Senza questa identificazione con qualcosa di più grande, l'autocoscienza può essere una prigione, come quando Cesarina Vighy scrive nel suo romanzo della “insopportabile coscienza di me”, o della testa che “mi brulica come fosse piena di vermi”. Ma se invece si approda alla dimensione dello Spirito, quella medesima autocoscienza che fa brulicare insopportabilmente la testa rende possibile “l'unica ricchezza godibile persino oggi: la curiosità, l'amore per i poeti, i narratori, la bellezza”.
   Eccoci, come sempre, all'antinomia: proprio ciò che ci fa soffrire di una sofferenza che la vita animale non conosce è ciò che ci permette in qualche modo di continuare a godere della vita e di stare ritti con dignità, nonostante una situazione “fatta di medicine, di piedi strascicati a fatica, di labbra che non sanno più articolare una frase, di fazzolettini premuti sulla bocca alla Mimì per non far capire che la saliva sta colando”. Proprio da una vita che si descrive così, ci giungono alcuni dei raggi più intensi e penetranti per aiutarci a comprendere, e forse a diradare almeno un po', il groviglio dell'esistenza.
Dall'Introduzione di Vito Mancuso all'ultimo libro di Cesarina Vighy “Scendo. Buon proseguimento” – Fazi Editore
 
[…].
   L'umorismo, dice Cesarina Vighy, è “la cosa più necessaria”. Già nel suo romanzo aveva scritto che i nostri sensi sono ben più numerosi dei classici cinque, perché “il senso che mi è più utile ora, anzi necessario, sfugge alla classica catalogazione. E' una fortuna che l'abbia, tutto intero e magari un po' cattivo. E' il senso dell'umorismo”. 
[…].
 
   L'umorismo consente a Cesarina Vighy di non cadere nella tetra psicologia del malato, ma di diffondere sempre con la sua scrittura una certa leggerezza spirituale. Non a caso nelle sue pagine si trovano frequenti annotazioni sul cielo, simbolo di libertà e di purezza:”All'imbrunire il cielo era di quel turchino che fa risaltare così bene, nei quadri di Magritte, le sagome nere degli alberi. Adesso è a pecorelle, ma sempre bello… Quando ho voglia di passeggiare e di vedere il mondo, mi affaccio alla finestra e respiro: il cielo di quel turchino è un regalo prezioso”. Sono osservazioni già presenti nel suo romanzo:” Guardo attraverso la finestra il pezzetto di mondo che mi spetta e, nonostante tutto, lo trovo bello”. La malattia non le impedisce di vedere la bellezza del mondo e di goderne, perché è libera dall'immaturità psicologica di chi, stando male, non vede altro che male e desidera che tutti stiano male. Lei ne è consapevole:”So bene che fatica si faccia a stare coi malati, sempre lagnosi o aggressivi”, lagna o aggressività che non sono altro che le due versioni possibili dell'unica energia negativa che si desidera riversare sugli altri. Lei, al contrario, dice alla figlia: ”Raccontami un centesimo di quello che hai visto, sentito, fatto. Solo cose buffe, però. Alle lagne ci penso io”, anche se in realtà lei di lagne ne produce ben poche. La leggerezza verso se stessa produce la signorilità di chi non si lamenta ossessivamente dei propri malanni, anche quando li descrive con accuratezza, nel proposito di contribuire a che gli altri sentano e afferrino la bellezza della vita.
   […]. Nelle pagine di Cesarina Vighy, nonostante i segni della malattia si facciano sempre più evidenti, si respira al contrario l'aria pulita di una grande libertà spirituale verso di sé, una delle più alte realizzazioni di quell'essere “poveri in spirito” lodato dalle beatitudini evangeliche, che, ovviamente, non rimanda a persone prive di spiritualità e di ricchezza interiore, ma a chi sa utilizzare la sua interiorità per l'apertura verso gli altri e non per attrarli egoisticamente verso di sé, schiacciandoli sul proprio ego.
 
   […].
   Le pagine di Cesarina Vighy testimoniano quanto l'offerta religiosa tradizionale risulti spesso inadeguata rispetto alla spiritualità di cui ha bisogno il nostro mondo. Talora anzi la religione arriva addirittura a suscitare l'effetto contrario, un vero e proprio sentimento di negazione e di rabbia verso ogni discorso riguardante la dimensione spirituale.
   “Il rullo compressore di Santa Madre Chiesa coi suoi echi controriformistici, le cerimonie tra il fastoso e il lugubre, le devozioni con la nonna, la negazione della modernità”, tutto questo, descritto con lucidità e ironia dall'autrice, sta finendo, forse è già finito. Il risultato però, ben lungi dal condurre al radioso sol dell'avvenir, lo descrive la stessa autrice: “Noi oggi desertifichiamo la nostra anima”.
 
   Nello scritto intitolato Malattia e scrittura l'autrice ci offre quasi la descrizione in diretta dell'epifania dello spirito: “La scrittura ha realmente un effetto lenitivo sul corpo: la testa si fa lucida, si dimenticano in buona parte i dolori fisici nella concentrazione su quello che si va man mano scrivendo. A me la memoria fa uno scherzo strano:io, che ormai dimentico i nomi più consueti, quando scrivo ho, senza sforzo, una larga scelta di aggettivi, sinonimi ecc.; del resto, la scrittura obbedisce a una specie di automatismo, è come se scrivesse un altro. Chi? Gli antichi lo identificavano nella Musa e perciò ne invocavano l'ausilio, l'assistenza, l'opera”.
   Queste parole a mio avviso attestano la partecipazione della psiche alla dimensione dello spirito, che forse a questo punto si potrebbe anche scrivere Spirito, […]. Chiunque ha provato questo stato sa a che cosa mi riferisco. Mi riferisco a quel senso di passività che l'autore sente quando giungono in lui pensieri e ispirazioni come da un'altra dimensione, la quale tuttavia è a lui personalissima, perché esprime la sua più alta e singolare personalità. Si ha proprio il medesimo movimento della genuina religiosità, quello che percepisce di essere al cospetto di qualcosa di più grande di sé, con cui, tuttavia, il proprio sé si identifica.
   Senza questa identificazione con qualcosa di più grande, l'autocoscienza può essere una prigione, come quando Cesarina Vighy scrive nel suo romanzo della “insopportabile coscienza di me”, o della testa che “mi brulica come fosse piena di vermi”. Ma se invece si approda alla dimensione dello Spirito, quella medesima autocoscienza che fa brulicare insopportabilmente la testa rende possibile “l'unica ricchezza godibile persino oggi: la curiosità, l'amore per i poeti, i narratori, la bellezza”.
   Eccoci, come sempre, all'antinomia: proprio ciò che ci fa soffrire di una sofferenza che la vita animale non conosce è ciò che ci permette in qualche modo di continuare a godere della vita e di stare ritti con dignità, nonostante una situazione “fatta di medicine, di piedi strascicati a fatica, di labbra che non sanno più articolare una frase, di fazzolettini premuti sulla bocca alla Mimì per non far capire che la saliva sta colando”. Proprio da una vita che si descrive così, ci giungono alcuni dei raggi più intensi e penetranti per aiutarci a comprendere, e forse a diradare almeno un po', il groviglio dell'esistenza.

Una partita speciale
 

(Il riposo dopo la partita)

 
“Qualche giorno fa, nel campo sportivo “Tharros” della mia città, si è disputata una partita.”
“E allora?” mi dici.
“Ma era una partita importante!” dico io.
“Squadre di grande spessore, nella tua piccola città?”.
Ti vedo dubbiosa.
“No” rispondo, “di grande spessore è la motivazione, il perché di quest'incontro. Ora, in breve, ti racconto, se vuoi.
Un'intera squadra era formata da ragazzi provenienti dal Senegal, vivono qui e lavorano sodo tutto il giorno, la squadra avversaria invece era costituita da ragazzi e adulti del luogo che in tempi non troppo lontani sono stati…giovani. Qualcuno di loro ha giocato anche a buoni livelli.”
“E quindi…” dici ancora tu.
“Oggi è un giorno importante, indipendentemente da qualsiasi risultato. Sai che nome è stato dato a questa partita? E' confortante e si nutre di speranza, è stata chiamata la “partita dell'integrazione e della condivisione”. Ho soddisfatto almeno in parte la tua curiosità?”.
 
L'incontro è stato organizzato dal Coni e noi, che facciamo parte del comitato “1° marzo” di questa città, abbiamo voluto sostenere l'evento con calore ed entusiasmo.
Faceva caldo quel giorno nel Campo, molto caldo, impossibile stare al sole.
Era una giornata di mare, un'amica (cara) ha trascorso la mattina in spiaggia e la sera ha seguito la partita col viso in fiamme. 
“Brucia?” le ho chiesto.
“No, starei ancora al sole!”.
Io soffrivo per lei, ma l'amore per il mare a volte non ha confini…
Non eravamo in molti sugli spalti, il sabato sera gli impegni sono tanti, ma i presenti possedevano qualcosa di speciale: entusiasmo e condivisione. 
Lo abbiamo donato a piene mani e in alcuni momenti le gradinate sembravano affollatissime.
Applausi e moderate urla di incitamento per i nostri amici del Senegal, ben sapendo che gli amici della squadra avversaria ne sarebbero stati lieti.
E' stato bello per noi, per i ragazzi senegalesi si è trattato di un giorno da ricordare, molto molto speciale.
Siamo contenti di sapere che la nostra piccola città sembra non conoscere una “parolaccia” molto diffusa di questi tempi: RAZZISMO.

A Luisella, mamma tenerissima e al suo piccolo G.


foto da web

Giulia

Agile, magari un po' impacciata,
corri anche tu tra gli altri
nel campo illuminato.

I lineamenti svelano la tua diversità
ma l'allegria è uguale,
la voglia di giocare ed i capricci.

Attendi concentrata l'inizio della gara,
sfiori la linea col piede senza intenzione
poi la partenza al via dell'istruttore.

Voli felice, forse preoccupata, 
fino al traguardo,
è tanta l'emozione, il premio grande:
una medaglia al collo che mostri soddisfatta.

(Un ordinato groviglio, Il Filo – 2008)