Archivio | settembre 2010

Un racconto di Milvia Comastri

Tutte le volte che leggo un racconto di Milvia provo stupore perché avverto il contrasto che emerge tra il suo modo di porsi, il suo essere così estroversa, spontanea, diretta, così straordinariamente trasparente, e il suo mondo interiore, la complessità di una personalità che emerge poi, ma solo in parte, nei suoi scritti, siano poesie o racconti.
 
Nei racconti, soprattutto, si scopre un'altra Milvia, sempre sincera, coerente col suo modo di essere ma, come dire, più inquieta, più problematica, anche un pochino enigmatica.
Lei, nella sua onestà intellettuale, ci mostra anche questi aspetti della sua personalità, questo sguardo sul mondo che appare sconcertante, proprio perché non te lo aspetti.
Il mio grazie a questa scrittrice, poetessa, anche giornalista appassionata, di cui sono orgogliosa di essere amica.

 

 
Il re Mida all'incontrario
 
 
 
Sembrava davvero che dormisse, sai? Sembrava, quasi, che sorridesse. Mi è venuto in mente che la morte, per lui, sia stata un sollievo. Un sollievo da me. Stavo lì, seduta accanto al letto e lo guardavo, e pensavo a tutta la sofferenza che gli avevo procurato. Fin dall’inizio, e anche dopo, quando era tornato. Fino all’ultimo istante. Lo sai cosa voglio dire: pure tu, spesso, sei stata vittima della mia insicurezza, della mancanza di stima in me stessa, della mia incapacità di accettare che qualcuno mi ami, e della conseguente brutalità con cui cerco di distruggere ogni rapporto.
 
Certe notti, nel primo periodo della nostra relazione, mi mettevo a spiare il suo viso, mentre dormiva. Mi chiedevo perché dicesse di amarmi, lui, così bello, che avrebbe potuto avere le ragazze più affascinanti. Mi chiedevo, in quelle notti, quando lui se ne sarebbe andato, e come me lo avrebbe detto, che mi lasciava.  Provocherà un litigio, pensavo, e se ne andrà sbattendo la porta. Oppure un giorno non tornerà a casa e non lo vedrò mai più. Oppure mi presenterà una donna bellissima e mi dirà: È lei che amo, non vedi come è bella? E sentivo una sorta di piacere, dentro, mentre tiravo fuori dalla testa queste cose. Un piacere dolente, masochistico, senza dubbio. Perché lo amavo, lo amavo così tanto che non te lo so neppure dire, quanto.
E poi lo sai come è andata. E’ andata che una sera, dopo che gli avevo ancora una volta vomitato addosso le parole più taglienti, lui mi ha guardato e ha detto: Non ce la faccio più, Sonia. Non ci riesco. Ho tentato, sai, lo sa dio che ce l’ho messa tutta, ma mi arrendo. La tua insicurezza, la tua gelosia, sono corrosive, mi umiliano. Me ne vado, Sonia.
Più o meno è questo che mi ha detto, ricordi? E io ho provato come una sorta di esaltazione, ho sentito una voce interiore che diceva: visto che avevo ragione? Visto che alla fine mi ha lasciata?
 
Credo sia la prima volta che mi metto a nudo davanti a qualcuno. D’altra parte, tu, sei l’unica amica che mi sia rimasta. Tutti gli altri rapporti li ho distrutti, mettendo sempre alla prova le dimostrazioni di affetto che ricevevo, irridendole, creando trabocchetti, peggiorando il mio aspetto fisico, rendendomi sgradevole in ogni modo possibile. Come se  avessi voluto dire a tutti: se mi amate è perché non valete niente, solo chi non vale niente può amare una come me.
 
E’ proprio questo che gli ho detto, quando è ritornato, due mesi fa. E’ tornato per dirmi che non poteva fare a meno di amarmi, che non sapeva spiegarselo, questo amore, ma che non ci riusciva a stare senza di me.
Gli ho detto: Se provi questo per me vuol dire che sei un miserabile, come lo sono io.
Poi mi sono strappata i vestiti di dosso, sono rimasta nuda davanti a lui e gli ho urlato: Guardami, guarda il mio corpo grasso, senza forma, flaccido, schifoso. E poi non valgo nulla, come persona, non sono nulla, meno di un’ameba, sono.
E lui mi ha guardato, mi ha preso fra le braccia, mi ha detto: Ti amo, prova ad amarti anche tu. Ti prego, mi ha detto.
 
Provare ad amarmi. Non ci sono riusciti neanche due anni di analisi, a indurmi a volermi bene. Sai come mi chiamava l’analista? Re Mida all’incontrario. Diceva che io trasformavo in merda tutto quello che toccavo. Non diceva proprio così, ma era quello il concetto. L’origine di questa forza distruttiva non l’ha capita neppure lei. Forse non era molto brava, o forse ero io, a essere intangibile.
 
Ora tu capisci perché non potevo farlo nascere, il bambino.
Sapessi come era contento, quando gli ho detto che ero incinta…  Ha pianto, sai, e mi ha tenuta stretta, e mi baciava su tutta la faccia, e mi accarezzava la pancia, e ha detto che quello sì che era un regalo.
Non avrei dovuto dirglielo.  Ma subito dopo aver letto l’esito delle analisi ho pensato che forse avrei potuto cominciare ad  amarmi e imparare ad  accettare l’amore di una creatura mia e anche l’amore di tutti gli altri.  E sono andata a casa, e gliel’ho detto, perché ero convinta di essere cambiata.  Ma non è durata molto, questa convinzione.
Se non glielo avessi detto sarebbe ancora vivo.
Perché quando poi gli ho detto, l’altro giorno,  di aver abortito, e volontariamente, perché non avrei sopportato che neppure mio figlio mi amasse, lui è uscito di casa, senza una parola, è salito in macchina… e poi lo sai.  Poi, si è schiantato contro quel muro.
E mentre ieri lo vegliavo e guardavo il suo viso e pensavo che sembrava proprio che dormisse, mi sono detta che avrei voluto svegliarlo, e dirgli che lo accettavo, il suo amore, e che lui era un uomo meraviglioso, e che se lui era meraviglioso e mi amava,  allora,  un po’ meravigliosa, forse, lo ero anch’io.
 
Milvia Comastri

Sulla città

 
C'è una luna quasi piena
questa sera
nel cielo chiaro della mia città.
 
E c'è un silenzio
rispettoso delle cose
e dell'umanità. 
 
                                                            Gli alberi tacciono                                                             
e il vento riposa 
tra le siepi del parco.
 
Alcuni insetti compiono
il loro ultimo volo
attratti dalla luce dei lampioni
accesi ancora.
 
E' notte, la vita si ferma,
qualcuno forse muore.

Savina Dolores Massa

Domani, al Centro Servizi Culturali di Oristano, verrà presentato il nuovo libro di Savina Dolores Massa, il titolo è “Mia figlia follia”, edito da Il Maestrale.

Avrei tanto, proprio tanto da dire su questo libro così particolare, ma non si può con poche parole, data la complessità del romanzo e della personalità della stessa autrice.

So che ne parlerò a lungo più avanti, per stasera, come piccolo dono a Savina che oggi compie gli anni, riporto un brano tratto dalla sua ultima “creatura”, un piccolo assaggio di un libro assolutamente da leggere.

La protagonista del brano si chiama Maddalenina, non dico altro per non svelare subito la trama di un racconto davvero straordinario.

 

Mia figlia follia


"Figlia mia, ancora il tuo nome non l'ho scelto, e mancano solo tre mesi a vederti la faccia. Non sono molto convinta di questo obbligo a dare un nome il giorno del battesimo. Almeno qualche anno si dovrebbe aspettare per mettere il giusto per definitivamente, ché la persona, quando nasce, ancora non si è formata le idee di chi è. Aspettando la crescita se ne possono usare altri. Anche ai cani, all'inizio, si dice, Ehi, Psss, e poi quando si capisce se è un cane buono o cattivo si decide il nome. C'è Pasqua come nome bello che ti starebbe bene se diventi una bambina che cade sempre la domenica, quando è primavera. Poi ho pensato che tu uscirai giudiziosa, sempre attenta a dove metti i piedi, no, Pasqua non è nome per te. Io sono sempre caduta, da piccola e da grande, perché se mi mettevo a guardarmi i piedi per stare attenta a non inciampare, cosa ero uscita a fare? I piedi potevo guardarmeli anche a casa.

C'è tanto da decidere di ammirare, se sei in giro, figlia mia. Mia mamma non era contenta quando io piangevo perché volevo andare fuori da casa nostra. Lei mi diceva, La gente è cattiva. Mi diceva, Stai seduta nella sedia e fai un celtrino. Mi diceva, Quello che interessa a te puoi vederlo dalla finestra, ti basta. Io, dalla finestra, vedevo solo il muro della casa dall'altra parte della strada. Le teste delle persone che passavano in fretta. In inverno, a finestra chiusa, non sentivo neppure le voci. La cosa più bella che capitava, in inverno, erano i disegni che la pioggia faceva sul vetro e anche quelli che facevo io sopra il mio alito profumato con mandarino. Mamma usciva solo per ritirare la mia pensione ogni due mesi e per fare la spesa, una volta alla settimana dal negozietto di signora Antonietta a venti passi da casa nostra; qualche volta mi portava, più volte mi diceva, Stai seduta e fai un celtrino. Lei mi ha fatto vedere due o tre volte, Si fa così e così. Sui primi pasticci piangevo e mi agganciavo apposta la mano con l'uncinetto, almeno mamma aveva qualcosa da dire: non mi piaceva il suo zitta zitta. Per colpa del silenzio che c'era a casa, io facevo cadere la sedia, o un cucchiaio. Per non credere che ero diventata sorda. Piangevo a voce alta e facevo le prove della mia voce con le parole che sapevo dire.

A scuola mi ha mandato poco, mamma, le ho chiesto io di lasciarmi a casa: avevo paura di tutti. La maestra il primo giorno aveva detto, Siediti dove ti pare, ma per le altre il posto l'aveva deciso lei: a me era rimasto l'angolo più nel buio della classe, e nessuna seduta vicino. […]

La maestra si chiamava Maestraerminia, il marito le era morto, adesso è morta anche lei chissenefrega. Era alta e secca della famiglia delle canne, vestita di nero, vecchissima, ma portava nell'aula odore bello di borotalco. Anche il suo pellame sembrava borotalco. Io lo so che se mi mettevo a soffiare si sarebbe disfatta, Maestraerminia. Non l'ho fatto, ché non sono cattiva. Nella lavagna disegnava bastoncini e comandava, Copiate nel quaderno. Si avvicinava alle altre bambine e prendeva la loro mano con la matita sopra il foglio, le aiutava. Da me, che ero in fondo, non c'è mai arrivata, ché suonava la campanella per andarcene. Quel quaderno con la copertina nera è dentro l'armadio dei segreti, nuovo come il giorno che mia mamma l'ha comprato nel negozietto di signora Antonietta".

(Savina Dolores Massa, Mia figlia follia, Il Maestrale)

Roberta Dapunt

 


(foto da web)

 

Ho conosciuto nella prima settimana di settembre, a Seneghe, in occasione del Festival letterario che si svolge ogni anno in questo piccolo centro della provincia di Oristano, diversi poeti, scrittori e attori, tra essi anche una poetessa, Roberta Dapunt.
E' una giovane donna nata in val Badia, in quella parte delle Alpi dove si respira ancora la cultura ladina, si parla in ladino, si pensa in ladino, come dice la stessa Roberta.
Vive là, in un maso, è sposata, ha due figlie e continua a curare personalmente il suo pezzo di mondo, gli animali e i prati.
Con semplicità e affetto verso le piccole cose della sua quotidianità. Scrive e vive, e nella scrittura c'è la sua vita, la sua autenticità.
A Seneghe, mentre parlava, mentre leggeva le sue poesie, mi scoprivo stupita ad osservarla, ad osservare i suoi occhi neri incredibilmente espressivi, le dita affusolate delle sue mani, i capelli lunghi, lisci, neri, solo un poco imbiancati sulle tempie, particolare portato con semplice sicurezza, come cosa di ben scarsa importanza.
La sua voce calma e  pacata costringeva me e tutti i presenti ad un ascolto silenzioso, un piacere che trasmetteva serenità.
Era affiancata da una docente universitaria, ma volevamo ascoltare solo lei, e quando l'incontro si è concluso ho sentito diverse persone al mio fianco dire: "L'avrei ascoltata ancora a lungo, peccato che sia finito."
Ho potuto parlarle per qualche attimo, le ho raccontato di essere appena tornata dalla val Badia, le ho manifestato il mio entusiasmo per quell'angolo di paradiso e per la cultura ladina.
Lei mi ha ascoltato con attenzione e poi ha detto."Se vuol conoscere meglio la Valle e la cultura ladina non si accontenti di visitare i centri più conosciuti, ma visiti quelli meno noti, la parte più autentica della Val Badia.
 
Questo è quel poco che so di Roberta Dapunt, ho trovato però frammenti del suo animo nel libro dal quale ho estrapolato alcune poesie.  Eccole.
 
inverno
 
Arrivo a lumi spenti e quindi al buio di ogni sera
me ne entro nel silenzio.
Il messale che conosco è un ricovero di vacche,
una greppia da riempire, il suono umile del fieno
in bocca a chi sa ruminare.
 
Ho le mani profumate dei cafoni, me le tengo
e spargo paglia come il sangue per un ideale.
Il mio cervello è fine e separato
come gli occhi tondi delle bestie
che non vedono lontano.
 
Piove umido il cielo in una stalla,
piovono pure i pensieri e le voglie insoddisfatte.
Poi finiscono e chiudo l'uscio e me ne vado
e lascio il buio e un altro giorno a terminare.
 
***
 
Devo alla mia finestra tutto ciò che non scrivo,
è lei l'immagine distesa sulla quale assopiscono i
                                         pensieri.
Devo alla finestra il ronzio continuato della mosca
e l'immobile sedere e l'ascolto finchè viene sera.
A lei devo il buio pesto e la Pia, che puntuale
ogni sera accende le lampadine del Natale.
Alla finestra devo ciò che a volte fisso per ore,
Badia è lo specchio e l'orologio dei miei giorni.
devo alla finestra l'armonia esterna delle campane,
la fede dal suono parente alla quale non apro,
alla finestra devo la pazienza e l'aspettare.
 
Davanti ad essa però,io non mi commuovo
né mai mi rallegro. Muta rimango
e non schiudo alcun sentimento alla voce,
ora infatti la sola penna,troppo è il rumore per così
                            poco.
 
poesia dolce
 
Due volte in vita mia
ebbi l'amore dentro il corpo,
viscerale più di qualunque altro sentimento.
L'utero accoglieva per tempo e desiderio,
ciò che più avrei curato dopo.
So per certo, non vi è quiete più giusta
di un ventre materno,
dentro infatti, vi cresce il paradiso in carne ed ossa.
Ogni volta lo chiamai per nome
dopo averlo partorito
e per questo, mi era dato piangere di contento.
 
Questo scrivo ed è uguale il sentimento ora
per le figlie che a lungo mi abitarono dentro.
Come un tabernacolo le ho conservate,
talmente sacra è per me la loro vita,
che non esse sono mie,
ma io appartengo a loro,
che sono il seme e il germoglio,
la gettata e la primavera
di ogni volta che mi rivolgono in viso
il loro sguardo per incontrare il mio.
 
Roberta Dapunt, La terra più del paradiso, Giulio Einaudi Editore