Uno scrittore che conosco solo da qualche anno ma che apprezzo molto, un uomo con un forte carisma e una notevole dialettica, un monaco che sa dire la sua sugli avvenimenti di questa nostra epoca ma sa soprattutto raccogliersi in se stesso e riflettere sul senso dell’esistenza.
Ecco un brano tratto dal suo ultimo libro “Ogni cosa alla sua stagione”.
I lunghi inverni

(foto da web)
“Quest’inverno non finisce mai!” Così affermiamo sovente, con sentimento di stizza, quando, invece dell’atteso tepore primaverile ingentilito da una luce nuova, assaporiamo giornate ancora fredde, umide, tristemente buie per via di nuvole che gravano su di noi come una cappa oscura.
Nei vecchi poi questa lamentela assume un tono quasi ossessivo: vedono l’inverno come una stagione brutta perché li costringe a restare in casa, uscendo solo se strettamente necessario, una stagione di cui si temono i tipici “malanni”, percepiti come uno scalino da scendere inesorabilmente. Con la sua scarsa luce, che tarda a giungere al mattino per sparire già nel primo pomeriggio, l’inverno incupisce e sui vecchi ha a volte addirittura l’effetto di renderli un po’ curvi, rinserrati nelle spalle, con un passo che sembra sempre una fuga.
Non a caso, allora, nel cuore dell’inverno si cerca di moltiplicare le occasioni per far festa: Natale, l’anno nuovo, l’Epifania, il carnevale… quasi si volesse combattere contro una quotidianità dura, faticosa, un po’ triste. E poiché scarseggia la luce naturale si moltiplicano le “luci” create dagli uomini: si illuminano le vie di città e paesi, si accendono gli alberi che paiono o morti denudati di foglie o dormienti nel loro letargo sempreverde. Anche questo indaffararsi, di cui oggi conosciamo fin troppo bene anche i risvolti commerciali, ha origine in una lotta contro l’inverno e il suo buio.
I bambini dal canto loro attendono la neve che tutto imbianca, rendendo altro il panorama e più ferstosi i loro giochi, ma questo accresce la mestizia dei vecchi: non solo perché rimpiangono ancor di più la loro infanzia, ma perché si sentono combattuti tra il desiderio di veder scendere il manto bianco che tanto giova alla terra e il timore di essere costretti a una ancor più rigida clausura domestica.
Ma l’inverno è anche stagione prodiga di insegnamenti, se solo lo si vuole ascoltare: è sufficiente pensare che tutto ciò che appare come una morte è in realtà un riposo, un modo diverso di operare, carico di attesa. E capace di sorprese: gli alberi, per esempio, così spogli da apparire secchi, o i prati ingialliti dal gelo, non appena sono baciati dalla galaverna si rivestono di brillanti e scintillano tra le nebbie mattutine. Chi poi vive fuori dai grandi centri abitati conosce in modo iconico la solitudine: rari o nessun passante, un grande silenzio che avvolge ogni cosa, i gesti rapidi ogni volta che si esce di casa per poi rientrare subito, senza indugiare sulla soglia né attendere di scambiare due parole… A volte l’inverno diventa una metafora della nostra vita: una stagione che sembra non finire mai, ora nebbiosa, ora uggiosa, privata della speranza di un nuovo slancio, a volte addirittura prossima alla morte. Sì, l’inverno può anche essere dentro di noi e talora riusciamo a dirlo a noi stessi e agli altri. E’ uno svelamento benefico perché non dobbiamo vergognarci di soffrire: la sofferenza infatti ha una dignità, merita di essere raccontata e comunicata a chi può capire la verità di una persona.
Da parte mia, avvicinandomi ai settant’anni, l’aspetto dell’inverno che vivo con più costanza fin dalla mia infanzia è il camino, quella straordinaria nicchia che già regnava nella cucina della mia casa di paese e che regna ancora nella mia cella di monaco. Al mattino, appena alzati, si va al camino, si scosta la cenere che copre le braci, si aggiunge un po’ di legna ben secca e tagliata sottile e si soffia sopra: gioiosa si sprigiona la fiamma e dà l’avvio a un nuovo giorno, mentre tutto fuori tace, avvolto nel buio.
(Enzo Bianchi, Ogni cosa alla sua stagione, Einaudi)