Archivio | ottobre 2011

Savina Dolores Massa

(foto da web)

Savina Dolores Massa, una scrittrice che gioca agevolmente con le parole, una donna che s’impegna come poche nel cercare di confondere le idee al lettore.

Il brano seguente è tratto dal suo ultimo libro “Mia figlia follia”. Una storia che in tanti abbiamo trovato bella, intensa, ricca di contenuto, di profondità, di magia.

Un libro “difficile”, perché è la vita ad esserlo, e in queste pagine coinvolgenti e sconvolgenti è racchiusa l’intera esistenza con tutto il suo carico di dolore, di fatica e di follia.

Straordinari i ritratti dei diversi personaggi che la scrittrice ha saputo delineare, sembra di vedere questa umanità in difficoltà, di incontrarla per la strada.

Ma è Maddalenina la grande indimenticabile protagonista di una storia corale, è lei, così dimessa e invisibile, scomoda a tal punto da essere scacciata continuamente, è lei che prepotentemente “esce” dalle pagine di questo libro per venirci incontro, per chiederci comprensione se non affetto, per non sentirsi dire ancora una volta da tutti: “Vattene!”.

***

“Sono molto dispiaciuta di di non avere più la mia bambola da regalare alla bambina. Peccato, a volte, non conservarli, i ricordi. Almeno a volte. Figlia mia, lo sai che ho avuto una bambola? Un giorno l’hanno portata a casa mia le signore che fanno la carità; fanno la carità dentro un sacco con zucchero, pasta e due barattoli di pelati. Mamma le ha lasciate entrare perché quelle bussavano bussavano. Molto, avevano bussato, erano state un disturbo. Erano entrate, Ave Maria; mamma non aveva salutato, io avevo detto, Piena di grazia ché così si risponde. Mamma mi aveva mandato un fulmine in bocca. Le signore hanno messo il sacco sopra il nostro tavolo, io ero in piedi, lontana dal tavolo, ché mamma mi ordinava sempre di non avvicinarmi alle persone. Io non ero curiosa di sapere cosa c’era dentro il sacco, poteva essere qualche cattiveria: meglio non non fidarsi di nessuno. Mamma aveva lasciato la porta aperta, così capivano che se ne dovevano andare subito. Erano tre, avevano il cappotto, i guanti giallini, il cappellino e il sorriso colorato nei denti abbinati ai guanti. Mia mamma è rimasta con le braccia incrociate a guardarle. Anche io le ho incrociate. Tutte e tre insieme hanno aperto il sacco e tirato fuori le cose. Mamma ha fatto sì una volta sola con la testa, anche io, e anche loro l’hanno fatto e e sono uscite, in fila. Ave Maria, hanno detto. Io ho pensato, Sono sceme.

Così c’era una bambola sopra il tavolo, usata. Questa la vuoi?, ha chiesto mia mamma quando stava buttando nell’immondezza le altre cose. La sincerità è che la volevo molto, ma avevo paura di fare arrabbiare mamma. Rimanevo zitta. Beh?, mi ha detto lei e già l’aveva presa per un piede. Ho detto, Sì, ho chiuso gli occhi. Quando li ho riaperti mamma era andata a coricarsi, la bambola era sopra il tavolo. La guardavo da lontano, le ho chiesto, Quanti anni avevi quando eri piccola?

Non rispondono mai davvero le bambole, figlia mia, però sembra che rispondono. Alla mia domanda lei non ha risposto perché era la prima che le facevo e ancora non aveva la fiducia o ci doveva pensare molto. Era spogliata. Nella pancia c’era un buco grande tondo tondo per metterci la terra e piantarci un fiore. Il buco mi ha fatto pensare che dentro, le persone, sono vuote. La bambola non nascondeva neanche un anello in pancia. Ho deciso che le bambole e le persone sono diverse. Le mancavano i capelli da una parte, forse glieli aveva mangiati un cane. Gli occhi sembravano come i miei quando li apro molto molto per farci stare più cose. I suoi erano occhi azzurri. Non credere, figlia mia, che gli occhi azzurri sono più belli di quelli neri. Gli occhi decidono il colore: se si nasce di notte sono neri, se di giorno azzurri. Chi ha gli occhi verdi è perché non voleva nascere né di giorno né di notte, ma è nato per forza e quelli si è trovato. Tu avrai gli occhi neri come me. Non so se ti farà felicità: quando le persone te li guarderanno si vedranno un po’ più sporche e abbasseranno la testa: fregatene, tu cammina. Io negli occhi della mia bambola mi vedevo contenta, mamma no, neanche se erano azzurri. L’ha buttata nella spazzatura lei, sono sicura, dopo metà mese?, Le bambole capita anche che se ne vogliono andare se non sono contente, ma non credo che sia entrata da sola, nel bidone.

Si vedevano i piedi che spuntavano, potevo salvarla, se volevo. Nome non gliene avevo mai messo perché non le volevo davvero molto bene. Era faticoso giocare sempre con lei, io ero abituata a restare da sola. A fare i celtrini, zitta zitta come voleva mamma. Nel bidone, sopra a lei, abbiamo buttato le bucce delle patate e la minestra di patate che prima di coricarci non abbiamo avuto il cuore di mangiare né io né mamma. Se l’avessi salvata

se l’avessi salvata adesso potevi averla tu, come ricordo di tua mamma piccolina. Devi accontentarti della storia.”.

(Savina Dolores Massa, Mia figlia follia, Il Maestrale)

Una manifestazione “pacifica”

(foto da web)

Doveva essere una manifestazione pacifica quella di Roma, forte e chiara ma pacifica, senza nessuna connotazione violenta.

Gli “indignati” volevano far sentire la loro voce, far capire che non erano e non sono d’accordo su diverse cose, su molte scelte fatte dai politici, far capire che sono molto preoccupati, che li spaventa il loro essere precari, la mancanza totale di punti di riferimento nella loro vita odierna e futura.

Volevano manifestare il loro disagio e condividerlo con tanti altri cittadini d’Italia e del mondo. Ma a Roma tutto questo non hanno potuto farlo.

Sembra siano state 900 le città del mondo in cui i giovani e i meno giovani hanno manifestato, sono scesi nelle piazze per farsi sentire, e ovunque l’hanno fatto civilmente. A Roma no, a Roma questo progetto è stato infranto, ne è stata impedita l’attuazione, è stato derubato di tutto ciò che di valido e giusto poteva contenere.

E non per colpa degli “indignati”, ma per colpa di persone che con intenzioni ben precise hanno deliberatamente compiuto azioni violente durante la manifestazione impedendone il normale e civile svolgimento.

Le conseguenze sono state devastanti, lo si è visto subito, sabato bastava guardare un telegiornale, compresi quelli straordinari, e adesso per giorni se ne parlerà sui giornali.

Si rimane attoniti davanti a scene così forti, ai visi coperti di sangue, alle auto incendiate, ai palazzi distrutti, alle difficoltà della polizia, che ha fatto ciò che poteva, vittima anch’essa di una cattiva organizzazione.

Così i “violenti” hanno ottenuto esattamente quel che volevano: visibilità, oscurando i legittimi manifestanti e i più che validi motivi per i quali stavano in piazza.

Ritengo sia giusta la protesta degli “indignati” che hanno detto ai giornalisti:” Voi state dando grande spazio agli infiltrati e ai loro gesti violenti e non parlate quasi della nostra manifestazione e soprattutto dei motivi che ci hanno spinto ad organizzarla!”

E a chi chiedeva loro:” Ritenete di essere stati ingenui e non ben organizzati?”, hanno risposto sinceramente che sì avevano mostrato una certa ingenuità ma anche che la polizia, pur facendo del suo meglio, non aveva potuto sostenerli come avrebbe dovuto.

Ora ci saranno discussioni e critiche ma, come sempre succede, non porteranno a niente di concreto.

Siamo un popolo di “venditori di parole”, e quando si tratta di passare dalla teoria alla pratica “facciamo acqua da tutte le parti”.

Il dono

(foto da web)

Entrai nella chiesa in silenzio, volevo visitarla e ammirarla in un momento di calma.

Nell’istante in cui spinsi il pesante portone mi accorsi di lei. Stava in un angolo, quasi nascosta, nella penombra.

Avrà avuto all’incirca cinquant’anni, forse anche meno, un’età indefinita. Indossava una tuta da ginnastica e l’aria di chi non si aspetta niente e si lascia vivere.

Incrociammo i nostri sguardi, fu un attimo, poi io mi avviai verso la navata centrale. Avevo con me la piccola macchina fotografica, compagna da sempre, e mi fermai abbastanza a lungo percorrendo lentamente tutta la chiesa.

Quando tornai verso l’ingresso lei non c’era più.

Stava fuori, addossata ad un muro, lo sguardo mesto.

Si avvicinò ad un passante, forse gli chiese qualcosa, ma la reazione dello sconosciuto fu scortese.
Passò una signora con due cani bianchi, piccoli e identici, cani di razza. Lei si avvicinò, li accarezzò e disse qualcosa sottovoce, subito la signora aprì una borsa dalla quale prese delle monete.

Fece appena in tempo ad offrirgliele, suo marito, poco distante, la chiamò con tono perentorio perché si decidesse a raggiungerlo.

Lei si appoggiò nuovamente, in silenzio, al muro della grande chiesa.

Il dono

Ho attraversato lo sguardo di una donna

sul sagrato di una chiesa,

mi ha raccontato la sua intera vita

con una mano tesa.

Era dimesso l’abito indossato

eppure dignitoso

ed il suo volto scarno

aveva un giusto orgoglio.

Mi son sentita piccola accanto a lei,

privo di senso il gesto che poi ho fatto,

troppo poco e di scarso valore

quello che ho dato.

Nel ringraziarmi, mi è rimasta negli occhi

la traccia di un sorriso,

il dono, per un istante solo,

di uno sguardo più vivo.

Dalla raccolta inedita “(Ri)percorrendo universi”

Jolanda Catalano

(foto da web)

Alcuni testi poetici della poetessa Jolanda Catalano, tratti dalla sua prima raccolta, Alternanze, pubblicata nel 1996 da Calabria Letteraria Editrice.

Il volume è suddiviso in cinque sezioni, le poesie scelte fanno parte della quarta intitolata “Parole”.

Ecco cosa scrisse di lei in Alternanze Gilda Trisolini, poetessa e carissima amica, alla quale in seguito Jolanda dedicò un’altra raccolta intitolata “Lettera a due madri” e pubblicata nel 2004.

“...Le Alternanze di Jolanda Catalano sbocciano, quasi per caso, da un soffice silenzio. E’ questa, “silenzio” (un silenzio ricettivo popolato da ombre memoriali e luci presenti) la parola spia del discorso di questa poetessa che entra nel cuore con discrezione, con la levità di un’ombra, ma un’ombra che canta in “alternanza” alla sordità della vita che ci fanno gli altri e a lei donna con la “D” maiuscola che non si abbassa a chiedere, né si esalta ad urlare i diritti di ogni creatura d’amore, ma che accetta la vita e la mormora in un’ora d’insonnia…

La flessuosità del linguaggio evoca buone radici classiche, una capacità di parola che rasenta, o meglio sfiora, la durezza delle cose per poi immergere il lettore in un clima di chiara bellezza, in cui l’ombra fa da contrappunto doloroso alla luce di un Dio profondamente amato dall’autrice.

Per Jolanda Catalano c’è ancora una poesia da scrivere, una parola da dire già intrisa di futuro.”.

Gilda Trisolini

Che cosa posso aggiungere di mio che non sia banale? Mi limito a dire che ogni volta che leggo qualcosa di Jolanda sto in ascolto cercando dentro e oltre le parole nuove emozioni, nuovi significati, una più profonda conoscenza della sua poetica.

Con questa predisposizione d’animo trascrivo alcune sue poesie, scelte tra le tantissime che vorrei pubblicare.

Fino a che punto

Fino a che punto

la fedeltà, Penelope,

può consentire alla tela il suo disfarsi

mentre scorrono lenti i minuti

scanditi al tempo di solitarie attese?

Muti messaggi vibrano nell’aria

e trema Itaca celata nel mistero

di note struggenti e palpiti d’intesa

che alla notte si affidano nel sogno

che torni Ulisse presto alla sua sposa.

E intanto la distanza si colora

della fragilità dell’umana esistenza,

dell’evolversi col tempo anche la storia

dell’illusorio telaio che chiede tregua.

Ed io non so, Penelope, di notte,

quando infittiva il buio e chiedeva luce

la goccia tremula sospesa nel silenzio,

a chi affidavi la spola del telaio.

O forse dura la favola d’amore

e la pazienza dunque non ha metro

quando lontana si perde la memoria

tra la coscienza e il filo d’un sorriso?

Credi sia nulla

Credi sia nulla

questo continuo tendersi

di voci e luci

aggrappate al tempo

mentre la vita scorre

e si trascina

querce e pagliuzze

libere nel vento?

Ieri…domani…

e l’oggi si rinnova

nel palpito del cuore che vacilla,

nel cerchio magico

che scuote la ragione

nei “forse” e nei “perché”

dell’esistenza.

Credi sia nulla

un alito di voce

che sale e t’imprigiona

col suo canto

mentre acqua e fuoco

ti circondano nel dubbio

e tu in segreto

tenti una canzone?

Ecco appianarsi dunque

nel percorso

le ansie che flagellano

i tuoi battiti

mentre si apre ancora

e si dipana

l’ombra notturna

che si fa mattina.

E queste parole

E queste parole, Uomo,

che nascono e si perdono

come bolle che durano un istante,

io te le dedico

brevi faville al vento

canti notturni

mentre il dolore giace.

Ed il silenzio

che m’agita un sussurro

non sarà

silenzio sopra il mondo

ma suono d’arpe

armonico e fecondo

di note ancora docili

alla vita.

Non temere

Non temere la parola che dice

e palpita e freme dolce nella gola.

Se la parola è vento

falla uscire

concedile la libertà della purezza.

Se la parola è calda

non ferisce

come i silenzi avari d’armonia.

(Jolanda Catalano, Alternanze, Calabria Letteraria Editrice)