(foto da web)
Savina Dolores Massa, una scrittrice che gioca agevolmente con le parole, una donna che s’impegna come poche nel cercare di confondere le idee al lettore.
Il brano seguente è tratto dal suo ultimo libro “Mia figlia follia”. Una storia che in tanti abbiamo trovato bella, intensa, ricca di contenuto, di profondità, di magia.
Un libro “difficile”, perché è la vita ad esserlo, e in queste pagine coinvolgenti e sconvolgenti è racchiusa l’intera esistenza con tutto il suo carico di dolore, di fatica e di follia.
Straordinari i ritratti dei diversi personaggi che la scrittrice ha saputo delineare, sembra di vedere questa umanità in difficoltà, di incontrarla per la strada.
Ma è Maddalenina la grande indimenticabile protagonista di una storia corale, è lei, così dimessa e invisibile, scomoda a tal punto da essere scacciata continuamente, è lei che prepotentemente “esce” dalle pagine di questo libro per venirci incontro, per chiederci comprensione se non affetto, per non sentirsi dire ancora una volta da tutti: “Vattene!”.
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“Sono molto dispiaciuta di di non avere più la mia bambola da regalare alla bambina. Peccato, a volte, non conservarli, i ricordi. Almeno a volte. Figlia mia, lo sai che ho avuto una bambola? Un giorno l’hanno portata a casa mia le signore che fanno la carità; fanno la carità dentro un sacco con zucchero, pasta e due barattoli di pelati. Mamma le ha lasciate entrare perché quelle bussavano bussavano. Molto, avevano bussato, erano state un disturbo. Erano entrate, Ave Maria; mamma non aveva salutato, io avevo detto, Piena di grazia ché così si risponde. Mamma mi aveva mandato un fulmine in bocca. Le signore hanno messo il sacco sopra il nostro tavolo, io ero in piedi, lontana dal tavolo, ché mamma mi ordinava sempre di non avvicinarmi alle persone. Io non ero curiosa di sapere cosa c’era dentro il sacco, poteva essere qualche cattiveria: meglio non non fidarsi di nessuno. Mamma aveva lasciato la porta aperta, così capivano che se ne dovevano andare subito. Erano tre, avevano il cappotto, i guanti giallini, il cappellino e il sorriso colorato nei denti abbinati ai guanti. Mia mamma è rimasta con le braccia incrociate a guardarle. Anche io le ho incrociate. Tutte e tre insieme hanno aperto il sacco e tirato fuori le cose. Mamma ha fatto sì una volta sola con la testa, anche io, e anche loro l’hanno fatto e e sono uscite, in fila. Ave Maria, hanno detto. Io ho pensato, Sono sceme.
Così c’era una bambola sopra il tavolo, usata. Questa la vuoi?, ha chiesto mia mamma quando stava buttando nell’immondezza le altre cose. La sincerità è che la volevo molto, ma avevo paura di fare arrabbiare mamma. Rimanevo zitta. Beh?, mi ha detto lei e già l’aveva presa per un piede. Ho detto, Sì, ho chiuso gli occhi. Quando li ho riaperti mamma era andata a coricarsi, la bambola era sopra il tavolo. La guardavo da lontano, le ho chiesto, Quanti anni avevi quando eri piccola?
Non rispondono mai davvero le bambole, figlia mia, però sembra che rispondono. Alla mia domanda lei non ha risposto perché era la prima che le facevo e ancora non aveva la fiducia o ci doveva pensare molto. Era spogliata. Nella pancia c’era un buco grande tondo tondo per metterci la terra e piantarci un fiore. Il buco mi ha fatto pensare che dentro, le persone, sono vuote. La bambola non nascondeva neanche un anello in pancia. Ho deciso che le bambole e le persone sono diverse. Le mancavano i capelli da una parte, forse glieli aveva mangiati un cane. Gli occhi sembravano come i miei quando li apro molto molto per farci stare più cose. I suoi erano occhi azzurri. Non credere, figlia mia, che gli occhi azzurri sono più belli di quelli neri. Gli occhi decidono il colore: se si nasce di notte sono neri, se di giorno azzurri. Chi ha gli occhi verdi è perché non voleva nascere né di giorno né di notte, ma è nato per forza e quelli si è trovato. Tu avrai gli occhi neri come me. Non so se ti farà felicità: quando le persone te li guarderanno si vedranno un po’ più sporche e abbasseranno la testa: fregatene, tu cammina. Io negli occhi della mia bambola mi vedevo contenta, mamma no, neanche se erano azzurri. L’ha buttata nella spazzatura lei, sono sicura, dopo metà mese?, Le bambole capita anche che se ne vogliono andare se non sono contente, ma non credo che sia entrata da sola, nel bidone.
Si vedevano i piedi che spuntavano, potevo salvarla, se volevo. Nome non gliene avevo mai messo perché non le volevo davvero molto bene. Era faticoso giocare sempre con lei, io ero abituata a restare da sola. A fare i celtrini, zitta zitta come voleva mamma. Nel bidone, sopra a lei, abbiamo buttato le bucce delle patate e la minestra di patate che prima di coricarci non abbiamo avuto il cuore di mangiare né io né mamma. Se l’avessi salvata
se l’avessi salvata adesso potevi averla tu, come ricordo di tua mamma piccolina. Devi accontentarti della storia.”.
(Savina Dolores Massa, Mia figlia follia, Il Maestrale)