Quando sono entrata nella sala d'aspetto lui era già lì.
“Lui” è un “signore” di una certa età ma non anziano, stava seduto vicino alla porta dello studio del medico e aspettava il suo turno per entrare.
Due occhi tondi su un viso dalle gote rosse, pochi capelli e un abbigliamento che voleva essere sportivo e giovanile ma che, in realtà, a me è sembrato abbastanza trasandato.
Teneva tra le mani una stampella, particolare che denotava qualche problema agli arti inferiori, ma lo sguardo sanguigno e la lingua piuttosto sciolta non avevano problemi di alcun genere.
Parlava di tutto senza fare pause e in particolare si lamentava della categoria dei medici, a suo avviso poco capaci.
E' stato a quel punto che un signore, sentendosi chiamato in causa, ha detto:
“Bene, sono contento quando sento i pazienti esprimere con schiettezza il loro parere sul nostro operato”.
Difficile capire dal tono piuttosto neutro il significato che intendeva attribuire alle sue parole.
“Lui” non ha fatto una piega. Quando più tardi il medico è andato via, ha ricominciato il suo estenuante monologo cambiando semplicemente argomento.
Io, in attesa di entrare in ambulatorio, cercavo di ingannare il tempo leggendo qualche pagina di un libro, ma il tono alto del nostro interlocutore non mi permetteva di concentrarmi.
Parlava con una signora che, pazientemente, cercava di trasformare la conversazione in un vero dialogo. Ad un certo punto mi ha incuriosito e colpito l'ultimo argomento trattato. Mi arrivavano stralci di una conversazione tanto banale quanto fastidiosa.
“Stanno bene in carcere, non manca loro niente, mangiano, bevono, dormono, guardano la televisione, escono nel cortile, e poi non lavorano! Per loro è come stare a casa.”.
Mi sono chiesta di chi stesse parlando. Istintivamente ho prestato una maggiore attenzione.
“Perché devono stare qui? Che cosa ci fanno? Lo sapete che le carceri sono piene di stranieri, la maggior parte non è di qui, vengono a creare dei problemi, se ne devono andare!”
E' stato a questo punto che mio marito ha detto:
“Se stanno così bene, come mai in carcere tanti detenuti decidono di suicidarsi? Forse non stanno così bene!”
“Lui” non si è scomposto per niente e ha esplicitato meglio il suo “pensiero”:
“ Lo farebbero anche se fossero liberi, vuol dire che hanno già quest'intenzione!”
“Ma come fa lei a sapere come vivono in carcere?”
“Glielo dico io che è così perché sono andato a fare dei lavori e mi sono fatto aiutare da alcuni di loro. Gli stranieri non devono stare in Italia, se ne devono andare!”
Il discorso è andato avanti a lungo perché lunga è stata l'attesa. Fremevo ma cercavo di trattenermi, sapevo che se avessi dato retta al mio istinto avrei finito forse col bisticciare. Non mi sembrava il caso, in fondo non ne valeva la pena.
Notavo che anche gli altri presenti prendevano le distanze da quel fiume in piena che cercava di rendere più convincenti le sue affermazioni con un linguaggio sempre piuttosto colorito.
Ho tirato un sospiro di sollievo quando finalmente è arrivato il suo turno ed è stato ricevuto dal medico nel suo studio.
La sala d'attesa ha ritrovato la sua “sobrietà”, per usare un termine molto in uso in queste ultime settimane.
Mentre aspettavamo, usufruendo finalmente di un po' di silenzio, ho pensato all'ultima proposta del presidente Napolitano riguardante il diritto di cittadinanza per i ragazzi, figli di genitori stranieri, nati in Italia.
Che contrasto tra l'equilibrio e la saggezza del Capo dello Stato e molti di noi cosiddetti “cittadini italiani”!