Archivio | dicembre 2011

Isoke


(foto da web)

Due giorni fa, ad Oristano, si è tenuto un incontro con Isoke Aikpitanyi, organizzato dall’Associazione culturale “pARTIcORali”, con la collaborazione di altre sensibili Associazioni cittadine.

Isoke è una ragazza nigeriana di trentun anni, venuta in Italia, come tante altre connazionali, col miraggio e la promessa di un posto di lavoro.

Aveva vent’anni quando arrivò a Torino e in breve tempo conobbe la vita di strada, i marciapiedi di una città fino ad allora sconosciuta, i falò accesi, d’inverno, per scaldarsi, il dolore ai piedi chiusi per ore in scarpe dai tacchi vertiginosi, l’ansia continua, l’angoscia di una vita in sospensione, senza punti di riferimento né mete sicure.

Poi, un giorno, prese coscienza del tipo di esistenza che stava conducendo, che non accettava più, e sentì il dovere di ribellarsi. Decise di scappare ma fu fermata, arrivarono le botte, pugni e calci, e rimase in coma per tre giorni. Neppure quest’esperienza però la fermò, tanto che con coraggio e determinazione trovò ancora la forza per fuggire.

E ci fu anche qualcuno veramente disinteressato che volentieri le tese una mano. Quel qualcuno diventerà il suo compagno in una nuova vita.

Ma Isoke non si accontenta di questa libertà ritrovata sia pure ad un prezzo altissimo, vuole che la sua esperienza serva di monito ad altre ragazze e nello stesso tempo  si trasformi per molte di loro in un aiuto concreto.

Nasce così La casa di Isoke, che oggi sta al fianco di tante giovani vite che spesso, per ingenuità o per superficialità, si ritrovano in un baratro da cui non riescono ad uscire.

Isoke ce l’ha fatta, parecchie ragazze, grazie a lei, ce la faranno.

Qualche anno fa, questa coraggiosa ragazza nigeriana, con l’aiuto di una sensibile giornalista, ha scritto e pubblicato due libri nei quali racconta, non senza dolore, la sua esperienza e quella delle sue compagne.

Storie forti, dolorose, che meritano un’attenta lettura e una profonda riflessione.

Ecco alcuni brani tratti dal libro “Le ragazze di Benin City – la tratta delle nuove schiave dalla Nigeria ai marciapiedi d’Italia”.

1

E dopo una settimana Judith ha detto: non puoi stare qui senza soldi e senza lavoro. Devi pagare il mangiare, il dormire. Devi lavorare. E per chi non ha documenti il lavoro è uno solo.

Quale, ho detto io.

Eh, quand’è il momento lo vedrai, ha detto lei.

Così una sera mi ha portato al posto di lavoro.

Ha detto alle ragazze che stavano con me nella casa: datele un vestito per lavorare, qualche cosa che non mettete più. Mi hanno dato il vestito. Era solo un paio di mutande. Sul posto di lavoro si mette questo, ha detto Judith.

Era il 26 dicembre del 2000. Come posso dimenticare quel giorno? A Torino c’era la neve. Era la prima volta che la vedevo. Ma quant’è bella, ho detto. Tutto bianco e immobile e quasi incantato. E’ sempre così bello , qua in Italia? Però faceva freddo. Molto freddo. Così ho detto: io ‘ste mutande non me le metto; e ho tenuto i miei jeans.

Sul marciapiede faceva un freddo cane. Judith ha detto alle altre: questa è Izogìe, da oggi può stare qui. Quando finite di lavorare la portate a casa. Erano tutte in mutande, con le calze pesanti, due o tre paia. E coprispalle che non arrivavano a coprire le spalle. E scarpe ridicole, coi tacchi altissimi.

Ma voi siete matte, ho detto.

Con questo freddo, a stare in mutande.

Che freddo. Che freddo. Stavo lì a guardare le ragazze in mutande e morivo di freddo. Non mi staccavo dal fuoco. Le mani erano calde ma i piedi gelati. Guardavo le altre in mutande e pensavo: non è possibile non è possibile non è possibile.

Era possibilissimo.

Arrivavano le macchine, e sulle macchine degli uomini. Soli. Le ragazze dicevano qualcosa, salivano, andavano via con loro. Io non mi staccavo dal fuoco. I piedi non li sentivo più.

Si è fermato un tizio, vuole te.

Ma non ci penso nemmeno, ho detto, vada da sua sorella.

E dopo un attimo è arrivata la polizia.

[…]

10

Abituarsi a una vita del genere è impossibile.

Eppure ti ci abitui.

Cominci ad avere soldi per le mani, a comprarti un paio di scarpe o la scheda del cellulare. Un vestito. Un gelato. E quando la maman vede che cominci a sentire il gusto dei soldi capisce che il peggio è passato, almeno per lei. Guarda il primo paio di scarpe, il primo vestito. Dice: brava.

E intanto pensa: è fatta.

Anche le famiglie sono contente.

E i primi soldi che arrivano dall’Italia li spendono in un attimo per far vedere alla gente che hanno svoltato. Comprano la macchina. Il frigorifero. Il televisore. Comprano vestiti e scarpe e vanno in giro che neanche li riconosci.

I soldi che arrivano dall’Europa finiscono in un momento, come bruciati.

Nessuno mette da parte niente.

Le ragazze mandano i soldi e magari dicono al fratello, al padre: mettili in un conto corrente, per quando ritorno. Ma quando una di loro torna a casa e dice: fatemi vedere i conti, quelli raccontano mille storie, delle storie che non finiscono più.

Insomma i soldi sono spariti.

Magari le avevano detto al telefono: manda i soldi, che costruiamo una casa. Lei manda i soldi per i mattoni, il tetto, le finestre, poi ritorna e non trova niente. Solo il terreno. E a volte nemmeno quello.

[…].

Allora ci sono i litigi.

Le ragazze dicono basta, di soldi non ne mando più

E allora cominciano a chiamarti che tuo padre sta male, tuo fratello ha l’ernia, tua sorella un tumore. C’è tua madre all’ospedale e deve operarsi. Tuo figlio sta morendo. Manda i soldi.

Ogni volta vai nel panico e non capisci più cosa è vero e cosa è falso. Per esempio Osas ha il sospetto che la storia che sua madre sta male non sia vera, ma che può fare dall’Italia? Manda i soldi per le medicine, i soldi per il dottore. Poi chiama sua zia e le dice: tua madre sta morendo, le medicine che abbiamo comprato erano scadute, manda altri soldi che la portiamo in ospedale…

Tutto così.

Laura Maragnani – Isoke Aikpitanyi

Le ragazze di Benin City

la tratta delle nuove schiave

dalla Nigeria ai marciapiedi d’Italia

Melampo Editore