(foto da web)
In questi giorni ho visto alcuni film sulle persecuzioni razziali, nel corso degli anni ho letto diversi libri sull’argomento, ma ogni volta che ho modo di pensare a ciò che è avvenuto mi sembra di star male, non solo a livello psicologico ma proprio fisicamente.
Eppure c’é gente che nega che tutto ciò sia successo, che afferma che sono tutte invenzioni.
Che dire davanti a tanta insensibilità, durezza d’animo, capacità di menzogna?
Per questo voglio comunque “ricordare”, riflettere su quei fatti che hanno dimostrato, senza ombra di dubbio, di che cosa l’uomo (?) sia capace di fare ai propri simili.
Lascio la parola ad un Uomo vero, un medico che i campi di concentramento li ha conosciuti direttamente e dai quali, per sua fortuna, è riuscito a ritornare.
La vita nel lager
“Credo sia stato Lessing a dire una volta:”Vi sono cose per le quali si perde la testa, o non si ha più testa da perdere”. In una situazione abnorme, una reazione abnorme è un comportamento normale. Come psichiatri, quasi ci attendiamo che quanto più normale è un uomo, tanto più abnorme sia la sua reazione, nel trovarsi in una situazione abnorme, di essere, per esempio, ricoverato in un manicomio. Anche la reazione del prigioniero internato nel Lager rappresenta uno stato d’animo abnorme, ma considerata in sé, è normale, anzi, come vedremo, tipica in rapporto alla situazione di fatto. I sintomi che abbiamo descritto, cominciano a mutare dopo alcuni giorni. Per qualche tempo l’internato resta nel primo stadio di choc, poi scivola nel secondo stadio, quello della relativa apatia. Poco a poco, muore internamente. Eccezion fatta per le diverse reazioni affettive precedentemente descritte, il prigioniero giunto nel Lager da pochi giorni, suisce in modo tormentoso anche altri turbamenti psichici e presto comincia a ucciderli nel suo animo. Vi è, innanzitutto, la sconfinata nostalgia per la gente di casa. Una nostalgia che talvolta si fa così acuta , da suscitare un solo desiderio: morire. Vi è poi il disgusto. Il disgusto per tutte le brutture che circondano il detenuto, e non solo per quelle spirituali, anche per le brutture esterne. Ogni internato “veste”, come quasi tutti i compagni di prigionia, stracci; anche uno spaventapasseri sembrerebbe più elegante di lui. Nel Lager, tra le baracche, non c’è che melma, e quanto più si lavora per eliminarla, per “appianare”, tanto più la si ha addosso. Ai nuovi arrivati capita abbastanza spesso di finire nelle colonne di lavoro che devono pulire le latrine, sgomberare gli escrementi ecc. Se gli escrementi ci spruzzavano nel volto, mentre, come accadeva di frequente, li trasportavamo su un terreno accidentato, i Kapos, indignati per la “leziosaggine” dei loro uomini, accusavano ricevuta di un sobbalzo o del tentativo di asciugarsi con un colpo di bastone. I prigionieri, pertanto, fanno rapidi progressi nel soffocare le proprie emozioni. Nei primi giorni, quando uno è chiamato ad assistere agli esercizi punitivi di qualche gruppo, cerca di non guardare. Non sopporta ancora la vista di uomini sadicamente torturati, la vista di compagni che per ore e ore devono fare piegamenti nella melma, mentre gli aguzzini battono il ritmo a furia di botte. Giorni o settimane più tardi, il suo animo è profondamente mutato. Accade questo, per esempio: di primo mattino, è ancora buio pesto, sta attendendo sulla porta, pronto a partire con tutta la sua colonna. Improvvisamente sente delle grida, guarda, e vede un compagno buttato a terra a suon di pugni; lo rialzano, lo buttano nuovamente a terra. Perché? Perché ha la febbre, ma solo dalla notte, e così non ha potuto farla controllare per tempo (nell’ambulatorio) e darsi ammalato. Lo puniscono per il disperato tentativo di marcare visita al mattino, perché avrebbe voluto evitare il lavoro esterno. Il detenuto che osserva la scena, è giunto ormai al secondo stadio delle sue reazioni psichiche, non si preoccupa più di guardare altrove: indifferente, già apatico, assiste tranquillo all’episodio. Una sera, si presenta anche lui, con la folla degli altri internati, nell’infermeria, sperando di ottenere due giorni di “riguardo”, per le sue ferite, o per il suo edema da fame, o per la febbre. Vedrà allora senza emozione che qualcuno porta dentro un ragazzetto appena dodicenne, per il quale non v’erano scarpe nel Lager e che quindi doveva rimanere a piedi nudi nella neve, durante l’appello, prima di eseguire il suo quotidiano lavoro esterno. Le dita dei suoi piedi sono ora congelate; il medico strappa con una pinzetta dall’articolazione i neri moncherini. Disgusto, orrore, pietà, indignazione: in quell’attimo, il nostro spettatore non ha avvertito nulla di tutto ciò. Sofferenti, malati, moribondi, morti, dopo alcune settimane di Lager li si incontra tanto spesso, che la loro vista non commuove più.”.
(Uno psicologo nei lager, Viktor E.Frankl, Edizioni Ares)