Archivio | gennaio 2012

Viktor E. Frankl

 

 

(foto da web)

 In questi giorni ho visto alcuni film sulle persecuzioni razziali, nel corso degli anni ho letto diversi libri sull’argomento, ma ogni volta che ho modo di pensare a ciò che è avvenuto mi sembra di star male, non solo a livello psicologico ma proprio fisicamente.

Eppure c’é gente che nega che tutto ciò sia successo, che afferma che sono tutte invenzioni.

Che dire davanti a tanta insensibilità, durezza d’animo, capacità di menzogna?

Per questo voglio comunque  “ricordare”, riflettere su  quei fatti che hanno dimostrato, senza ombra di dubbio, di che cosa l’uomo (?) sia capace di fare ai propri simili.

 Lascio la parola ad un Uomo vero, un medico che i campi di concentramento li ha conosciuti direttamente e dai quali, per sua fortuna, è riuscito a ritornare.

 

 La vita nel lager

 

 “Credo sia stato Lessing a dire una volta:”Vi sono cose per le quali si perde la testa, o non si ha più testa da perdere”. In una situazione abnorme, una reazione abnorme è un comportamento normale. Come psichiatri, quasi ci attendiamo che quanto più normale è un uomo, tanto più abnorme sia la sua reazione, nel trovarsi in una situazione abnorme, di essere, per esempio, ricoverato in un manicomio. Anche la reazione del prigioniero internato nel Lager rappresenta uno stato d’animo abnorme, ma considerata in sé, è normale, anzi, come vedremo, tipica in rapporto alla situazione di fatto. I sintomi che abbiamo descritto, cominciano a mutare dopo alcuni giorni. Per qualche tempo l’internato resta nel primo stadio di choc, poi scivola nel secondo stadio, quello della relativa apatia. Poco a poco, muore internamente. Eccezion fatta per le diverse reazioni affettive precedentemente descritte, il prigioniero giunto nel Lager da pochi giorni, suisce in modo tormentoso anche altri turbamenti psichici e presto comincia a ucciderli nel suo animo. Vi è, innanzitutto, la sconfinata nostalgia per la gente di casa. Una nostalgia che talvolta si fa così acuta , da suscitare un solo desiderio: morire. Vi è poi il disgusto. Il disgusto per tutte le brutture che circondano il detenuto, e non solo per quelle spirituali, anche per le brutture esterne. Ogni internato “veste”, come quasi tutti i compagni di prigionia, stracci; anche uno spaventapasseri sembrerebbe più elegante di lui. Nel Lager, tra le baracche, non c’è che melma, e quanto più si lavora per eliminarla, per “appianare”, tanto più la si ha addosso. Ai nuovi arrivati capita abbastanza spesso di finire nelle colonne di lavoro che devono pulire le latrine, sgomberare gli escrementi ecc. Se gli escrementi ci spruzzavano nel volto, mentre, come accadeva di frequente, li trasportavamo su un terreno accidentato, i Kapos, indignati per la “leziosaggine” dei loro uomini, accusavano ricevuta di un sobbalzo o del tentativo di asciugarsi con un colpo di bastone. I prigionieri, pertanto, fanno rapidi progressi nel soffocare le proprie emozioni. Nei primi giorni, quando uno è chiamato ad assistere agli esercizi punitivi di qualche gruppo, cerca di non guardare. Non sopporta ancora la vista di uomini sadicamente torturati, la vista di compagni che per ore e ore devono fare piegamenti nella melma, mentre gli aguzzini battono il ritmo a furia di botte. Giorni o settimane più tardi, il suo animo è profondamente mutato. Accade questo, per esempio: di primo mattino, è ancora buio pesto, sta attendendo sulla porta, pronto a partire con tutta la sua colonna. Improvvisamente sente delle grida, guarda, e vede un compagno buttato a terra a suon di pugni; lo rialzano, lo buttano nuovamente a terra. Perché? Perché ha la febbre, ma solo dalla notte, e così non ha potuto farla controllare per tempo (nell’ambulatorio) e darsi ammalato. Lo puniscono per il disperato tentativo di marcare visita al mattino, perché avrebbe voluto evitare il lavoro esterno. Il detenuto che osserva la scena, è giunto ormai al secondo stadio delle sue reazioni psichiche, non si preoccupa più di guardare altrove: indifferente, già apatico, assiste tranquillo all’episodio. Una sera, si presenta anche lui, con la folla degli altri internati, nell’infermeria, sperando di ottenere due giorni di “riguardo”, per le sue ferite, o per il suo edema da fame, o per la febbre. Vedrà allora senza emozione che qualcuno porta dentro un ragazzetto appena dodicenne, per il quale non v’erano scarpe nel Lager e che quindi doveva rimanere a piedi nudi nella neve, durante l’appello, prima di eseguire il suo quotidiano lavoro esterno. Le dita dei suoi piedi sono ora congelate; il medico strappa con una pinzetta dall’articolazione i neri moncherini. Disgusto, orrore, pietà, indignazione: in quell’attimo, il nostro spettatore non ha avvertito nulla di tutto ciò. Sofferenti, malati, moribondi, morti, dopo alcune settimane di Lager li si incontra tanto spesso, che la loro vista non commuove più.”.

 

(Uno psicologo nei lager, Viktor E.Frankl, Edizioni Ares) 

Antonio Gramsci


(Ales 22 gennaio 1891 – Roma 27 aprile 1937)

 

Al di là del mare

 

Il prigioniero cammina lento

nella cella

ascoltando la pioggia

che batte

sul vetro opaco del lucernario.

 

Le lenti rotonde non velano

lo sguardo penetrante

che fruga tra i pensieri

pronti a prendere forma

sulle pagine bianche.

 

Un ragno si trascina piano

nell’ombra di un angolo

e interrompe l’intreccio sulla tela

per seguire l’amico taciturno

che lavora.

 

Si ferma il passo, stanco,

all’improvviso

per volare oltre le grate,

sperando di incontrare

gli occhi chiari

di due figli lontani

ai quali raccontare le storie

di un’infanzia

vissuta al di là del mare.

 

 Senza sole

 

Era un inverno freddo ed il sole nascondeva i suoi raggi dietro le forme eterogenee delle nuvole. La penombra occupava quasi tutti gli angoli della cella, e Antonio, per poter utilizzare la scarsa luce che riusciva in qualche modo a passare attraverso il vetro della finestrella, spostò il minuscolo tavolo consumato dai tarli, che stava addossato al muro, verso il centro dove quel tenue filo di luce poteva arrivare. Accostò poi la sedia, piccola e sgangherata, al tavolo, disponendo sotto uno dei piedi un pezzetto di compensato perché rimanesse in posizione stabile sul pavimento.

Lentamente si sedette, prese alcuni fogli , un pennino e incominciò a scrivere.

La penombra avvolgeva anche il suo corpo, stanco, piccolo, scosso da qualche nervoso colpo di tosse, ma la mano era ferma, sicura nel grattare sul foglio bianco. E lo sguardo, quello sguardo acuto, si fermava talvolta sulla parete, senza guardarla, proiettato all’interno, verso l’unico mondo libero nella sua vita di detenuto, affidando alla memoria e agli affetti la sua sopravvivenza.

 

Un padre fantasma

 

Quante notti dominate dall’insonnia, trascorse a pensare a quello che poteva essere e non era stato. Quella esigua parte di vita coniugale durata troppo poco, spezzata da eventi immaginati ma certamente non voluti, pensati possibili ma tenuti lontani con la speranza che mai si sarebbero concretizzati.

Invece, la crudeltà dell’animo umano, aiutata dalle circostanze, gli aveva impedito di essere padre, al fianco di due figli quasi sconosciuti ma profondamente amati.

Paternità a distanza, motivo di sofferenza lacerante, desiderio di entrare con affettuosa prepotenza nella loro vita, per cercare di costruire un filo diretto basato su racconti di sue esperienze lontane, su impressioni e consigli.

Ma i figli spesso sfuggivano all’ impegno preso non potendo capire l’esigenza di un padre affamato di notizie, di particolari anche insignificanti ma vitali, che non si rassegnava ad un destino deciso da altri uomini i quali volevano negargli anche il diritto di essere un genitore.

 

I bambini sanno capire

 

Il 1930 stava per finire e Antonio, in prigione ormai da diversi anni, non riusciva ad accettare il fatto che i figli non sapessero ancora della sua detenzione, il motivo per cui lui fosse in carcere.

Si chiedeva che cosa potessero pensare di questo padre assente, sempre più lontano, e non gli sembrava giusto che Giulia non avesse spiegato loro come stessero le cose.

Certamente in un primo momento lo sconcerto sarebbe stato grande, ma poi avrebbero finito col capire perché lui fosse un detenuto. Antonio di questo era sicuro.

Non era un ladro né un malfattore, nessun sopruso, nessuna violenza lo avrebbero fatto rinunciare alle sue idee.