Archivio | febbraio 2012

In questura

Il racconto che segue, scritto da una ragazza di origini cinesi, fa parte di una raccolta il cui titolo è “Rondini e ronde”, raccoglie venti storie di autori, stranieri e italiani, uniti da un unico grande desiderio, quello di combattere il razzismo in ogni sua forma.

In questura

Zhanxing Xu

21 settembre 2009

Questa sarà un’altra delle mie indimenticabili date, un’altra macchia indelebile che porterò con me, in questa mia vita da figlia di immigrati, cresciuta in Italia.

Già… un’intera adolescenza vissuta col terrore dei documenti, di girare fra comuni, questure, uffici immigrazione, prefetture, fatta di preoccupazioni, di preghiere che tutto vada bene.

Sveglia alle 6.45, una veloce sciacquata e poi subito alla stazione a prendere il treno delle 7.24. L’attesa dell’autobus e poi alla Questura di Grosseto. Intanto mille domande scorrevano veloci nella mia testa: come sarebbe andata questa volta? Cosa sarebbe successo? Mi sarebbero uscite le lacrime come l’ultima volta? Tante, troppe le preoccupazioni. Arrivo in questura alle 8.35, una fila di decine di persone, due poliziotte allo sportello, alla macchinetta per il rilevamento delle impronte. Mi siedo e aspetto. Le gambe cominciano improvvisamente a tremare, le mani si chiudono in pugni stretti che cercano di scaricare la tensione, intanto tutta l’energia si accumula all’altezza dello stomaco, un ammasso gigantesco simile ad un ordigno pronto a scoppiare. Brividi, continue scosse in tutto il corpo, i denti digrignano, sguardo nel vuoto, vulnerabile, indifesa, sola in una stanza resa falsamente più accogliente dalle pareti color marroncino chiaro. Mi sento male, corro fuori, prendo aria e leggo sulla porta d’ingresso: “sportello per stranieri aperto dalle 8.30 alle 13,00” e penso “perché sono qua? Perché sono in una struttura per stranieri?”. Mi sento fuori luogo, sento il dovere e la necessità di andarmene eppure non posso. Non posso perché io, cresciuta in Italia risulto essere fra i cosiddetti stranieri. Sento una voce sopraggiungere da lontano: Zhanxing Xu… Tocca a me. Arrivo, consegno le foto, il passaporto e sorrido perché nei momenti difficili è l’unica arma che ho per non soccombere.

Pollice, indice, medio, anulare e mignolo, ecco le impronte della mano destra che vengono caricate sul pc, ora la mano sinistra, poi nuovamente indice destro e indice sinistro fatto, veloce e indolore. Già… pochi secondi che rimarranno sempre impressi nella mia memoria, nella mia esistenza, che sono motivo della mia rabbia e della mia disperazione; perché contro un sistema terribilmente ingiusto lotti, ma intanto sei costretto a seguire le sue regole. Intanto chiedo alla signora quanto durerà il mio permesso e mi risponde due anni, facendo i calcoli dovrebbe scadere a Marzo 2011, dimentico solo che lo potrò ritirare a novembre e sono già stata graziata. Ho scritto, ho pianto, ho gridato, sono andata a implorare, ho pregato che mi dessero un permesso valido per almeno due anni e così dopo tre anni di attesa mi è stato concesso.

Sono felice perché ora assaporo un po’ di libertà, quella che tutti dovrebbero avere: di muoversi, di viaggiare ed infine di progettare. In questi anni quanti “no” ho detto agli amici che mi chiedevano di partire, alle follie adolescenziali di andare in aeroporto e scappare lontano ed invece io ero sempre qui, ostaggio di questa nazione, senza nessuna possibilità di scelta. Ora, forse, una piccola barriera burocratica l’ho superata. Esco dalla questura, mi volto ancora indietro a guardare e spicco in volo.

Intanto la mia mente viene bombardata di flash-back, ricordo i miei sedici anni, quando entrai timorosa nella stanzetta e mi presero le impronte, dpingendomi la mano di nero, così anche i diciassette, i diciotto e tutti gli anni a venire. Ricordo ancora quando la mamma mi svegliava alle cinque di mattina per andare in questura ad aspettare al freddo fuori dai cancelli, perché bisognava fare le file e prendere il numerino.

Ricordo l’orgoglio e la dignità di una bambina/ragazza ferita da qualcosa più grande della sua età, ricordo la forza e la durezza con cui ho reagito a tutto ciò. Ricordo soprattutto gli sguardi interrogativi delle persone: ma tu non sei italiana? Già, io non lo sono, io ho la cittadinanza cinese, italiana solo di fatto, italiana con il permesso di soggiorno. Ricordo tutto, ogni singolo attimo, ogni singolo istante in cui mi hanno umiliata, in cui mi hanno fatto credere di essere “nessuno”. Sono amareggiata, rattristata per tutto ciò che in questi anni ho dovuto rinunciare per cause di forza maggiore, tuttavia non provo risentimento, né rancore verso l’Italia, nonostante ciò che subisco ancora tutti i giorni. E’ una lotta continua, prima di tutto con me stessa, con le istituzioni e con i pregiudizi e vincerò io presto, ne sono certa.

Non posso votare, non posso partecipare ai concorsi, non posso fare determinati lavori, non posso fare richiesta per i viaggi studio e il mio permesso scadrà tra un anno e mezzo, ciononostante sono tranquilla, serena, in pace.

Io non posso fare tante cose ma posso valere molto di più.

Corro, guardo avanti e piango ma questa volta di felicità.

Rondini e ronde

 scritti migranti per volare alto sul razzismo

a cura di Silvia De Marchi

Mangrovie Edizioni

I tuoi occhi

Scrissi questo testo nel giugno dello scorso anno, quando alcuni cari amici poeti vennero da Sassari per “raccontarci” il loro modo di “fare poesia”, il senso e il fine per cui si cerca di guardare il mondo in un modo forse diverso.

Fu quella una serata speciale, di vera magia, di parole che racchiudevano in se stesse musica e melodie, ricca di atmosfere e suggestioni.

Faceva parte del gruppo una mia cara amica, arrivata con la sua famiglia, compreso il suo bambino più piccolo.

A lui ho voluto dedicare questo testo, a lui e alla sua dolcissima madre.

I tuoi occhi

 A Gabriele

Hai sollevato

il tuo limpido sguardo su di me

mentre ti stringevo al petto

dolcemente.

Ho accarezzato

i tuoi morbidi capelli chiari

e le tue piccole mani

da bambola.

Due stelle azzurre

mi son sembrati i tuoi occhi,

un tenero fagotto

il tuo corpo di bimbo.

Niente sapevo ancora

 di te

in quella calda notte di poesia

in cui tua madre, soave,

leggeva,

eppure hai fatto parte subito

di me

sia pure per un istante soltanto.

P.M.C.

Wislawa Szymborska


  La sua ironia, la sua apparente leggerezza, il suo sguardo disincantato sul mondo.

Questo voglio ricordare di lei mentre già ne avverto profondamente l’assenza…

(foto da web)

 Sulla morte, senza esagerare

Non s’intende di scherzi,

stelle, ponti,

tessitura, miniere, lavoro dei campi,

costruzione di navi e cottura di dolci.

Quando conversiamo del domani

intromette la sua ultima parola

a sproposito.

Non sa fare neppure ciò

che attiene al suo mestiere:

né scavare una fossa,

né mettere insieme una bara,

né rassettare il disordine che lascia.

Occupata ad uccidere,

lo fa in modo maldestro,

senza metodo né abilità.

Come se con ognuno di noi stesse imparando.

Vada per i trionfi,

ma quante disfatte,

colpi a vuoto

e tentativi ripetuti da capo!

A volte le manca la forza

di far cadere una mosca in volo.

Più di un bruco

la batte in velocità.

Tutti quei bulbi, baccelli,

antenne, pinne, trachee,

piumaggi nuziali e pelame invernale

testimoniano i ritardi

del suo svogliato lavoro.

La cattiva volontà non basta

e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni

è, almeno finora, insufficiente.

I cuori battono nelle uova.

Crescono gli scheletri dei neonati.

Dai semi spuntano le prime due foglioline,

e spesso anche grandi alberi all’orizzonte.

Chi ne afferma l’onnipotenza

è lui stesso la prova vivente

che essa onnipotente non è.

Non c’è vita

che almeno per un attimo

non sia immortale.

La morte

è sempre in ritardo di quell’attimo.

Invano scuote la maniglia

d’una porta invisibile.

A nessuno può sottrarre

il tempo raggiunto.

 Wislawa Szymborska