Archivio | giugno 2013

Giugno

Se ne va giugno

mese in cui son nata

e mi dispiace

essendo il favorito,

eppure mi lascia

molti doni

voli di uccelli

e fiori intorno ai rami.

 

Tanti colori

estesi arcobaleni

lo smeraldo dell’erba

sopra i prati

un cielo azzurro

solo un po’ macchiato

dal bianco delle nuvole

incostanti.

 

Cosa voglio di più

da questo mese

che nel suo mezzo

mi ha donato la vita?

Niente gli chiedo ancora

e lo ringrazio

perché tanto mi ha dato

tanto ho avuto.

 

 

I pensieri vagabondi di Gavino Puggioni

Un bel testo poetico di Gavino Puggioni che fa parte di una bella raccolta intitolata “ Nelle falesie dell’anima o delle umane emozioni”.

Non parlerò oggi di questa silloge, lo farò in seguito, ma voglio anticiparne qualcosa attraverso i versi di questa coinvolgente poesia dai contenuti profondi e amari, dove la realtà si mescola con la fantasia e con il sogno, dove il passato sembra assumere connotazioni senza tempo.

La natura, gli animali, gli uomini, le città, l’intera esistenza è presente in questi versi talvolta enigmatici, così suggestivi.

E infine la chiusa dove un bambino accende comunque una speranza, nonostante “la luna accenda disegni di fantasmi“.

Appunti per pensare, dalla sezione Pensieri vagabondi

 

In un lembo di terra dimenticata

farfalle di girasoli rincorrevano

fiumi di perle sottratte

al buio della notte

 

Cammelli appassiti

dall’ardore del deserto infinito

abbracciavano ombre di nuvole

desiderio d’acqua e di essenza

 

Uccelli dei primordi

scorrazzavano grigie pareti di pietra

in cerca di un buco nero

dove deporre l’elemento di vita

 

Barche lunghe lunghe fatte di liane

attendevano il sacro Eolo a poppa

per navigare altri mari oltre

oltre l’infinito dell’orizzonte

 

In un cielo scarlatto

armigeri dell’universo

combattevano una guerra già persa

dai loro antenati mille anni prima

 

E in quel paese

come in una immensa polis

si riunivano altre città

per ri-parlare e per ri-conoscere

tutte le vie del mondo andate perdute

come in un ectoplasma

dal risveglio incerto

 

Il sole degradava luci in nebbie collinari

la luna accendeva disegni di fantasmi

e un bambino si staccava sazio dal seno materno

in attesa di un altro giorno……per vivere

 

Gavino Puggioni

 

 

 

Il verbo “mantenere” e il verbo “amare” in Erri De Luca

Tra i diversi scrittori contemporanei che amo Erri De Luca occupa senz’altro un posto di riguardo. Mi piace molto il suo stile, così asciutto, essenziale, e mi piace il lirismo che trovo spesso nella sua scrittura. Erri De Luca non è un poeta, secondo il senso che comunemente diamo a questo termine, eppure la sua è molto spesso una prosa poetica, una prosa che scaturisce naturalmente, credo, dal suo sguardo sulle cose.

Egli scopre la poesia intorno a sé, ma la trova esattamente là dove nessuno andrebbe a cercarla, nelle piccole cose, nelle azioni più semplici, nei risvolti più nascosti della vita. Forse è stata la sua vita eclettica a dare questo “taglio” alla sua mente, al suo pensiero, e anche al suo animo, così riservato, sensibile e profondo. Mi piace quel  “prendere” dalle sue stesse esperienze di quando bambino amava starsene in solitudine o frequentare pochi amici, o dagli avvenimenti da cui tanto si è lasciato coinvolgere da grande, sempre a causa o grazie a quello sguardo che gli consentiva di capire al volo le difficoltà dei più deboli, la prepotenza dell’ingiustizia.

Vorrei parlare a lungo di lui, ho avuto il privilegio di ascoltarlo a Seneghe, piccolo centro della Sardegna in cui ogni anno d’estate viene organizzato un bel Festival Letterario, grazie al quale il paese si anima per l’arrivo di numerosi poeti, scrittori, attori, ma mi fermo qui. Saranno questi brani, tratti da uno dei suoi libri, I pesci non chiudono gli occhi, a raccontare qualcosa di lui.

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“Piangevo, cantavo, mosse clandestine. Attraverso i libri di mio padre imparavo a conoscere gli adulti dall’interno. Non erano i giganti che volevano credersi. Erano bambini deformati da un corpo ingombrante. Erano vulnerabili, criminali, patetici e prevedibili. Potevo anticipare le loro mosse, a dieci anni ero un meccanico dell’apparecchio adulto. Lo sapevo smontare e rimontare.

Di più mi dispiaceva la distanza tra le loro frasi e le cose. Dicevano, anche solo a se stessi, parole che non mantenevano. Mantenere: a dieci anni era il mio verbo preferito. Comportava la promessa di tenere per mano, mantenere. Mi mancava. Papà s’infastidiva in città a prendere per mano, per strada non voleva, se provavo si liberava infilandosela in tasca. Era una respinta che mi insegnava a stare al posto mio. Lo capivo perché leggevo i suoi libri e sapevo i nervi e i pensieri che stavano alle spalle delle mosse.”

“Conoscevo gli adulti, tranne un verbo che loro esageravano a ingrandire: amare. Mi infastidiva l’uso. In prima media lo studio della grammatica latina l’adoperava per esempio di prima coniugazione, con l’infinito in -are. Recitavamo tempi e modi dell’amare latino. Era un dolciume obbligatorio per me indifferente alla pasticceria. Più di tutto mi irritava l’imperativo: ama.”

“Al culmine del verbo gli adulti si sposavano, oppure si ammazzavano. Era responsabilità del verbo amare il matrimonio dei miei genitori. Insieme a mia sorella eravamo un effetto, una delle bizzarre conseguenze della coniugazione. A causa di quel verbo litigavano, stavano zitti a tavola, i bocconi facevano rumore.

Nei libri c’era traffico fitto intorno al verbo amare. Da lettore lo consideravo un ingrediente delle storie, come ci stava bene un viaggio, un delitto, un’isola, una belva. Gli adulti esageravano con quell’antichità monumentale, ripresa tale e quale dal latino. L’odio sì, lo capivo, era un contagio di nervi tirati fino al carico di rottura. La città se lo mangiava l’odio, se lo scambiava col buongiorno di strilli e di coltelli, se lo giocava al lotto. Non era quello di adesso, aizzato contro i pellegrini del Sud, meridionali, zingari, africani. Era odio di mortificazioni, di calpestati in casa e appestati all’estero. Quell’odio metteva aceto nelle lacrime.”

“Intorno a me non lo vedevo e non lo conoscevo il verbo amare. Avevo appena letto il Don Chisciotte intero e mi ero confermato. Dulcinea era latte cagliato nel cervello del cavaliere eroico. Non era dama e si chiamava Aldonza. Ho saputo poi che per i lettori è un libro divertente. Lo prendevo alla lettera e mi faceva piangere di rabbia la batosta che doveva subire a ogni capitolo.

I suoi cinquant’anni arditi e rinsecchiti erano per me a quel tempo l’età di cornicione per chi rasenta l’abisso da sonnambulo. Temevo per Chisciotte da un capitolo all’altro. Giusto la mia malizia di lettore mi rassicurava: il libro conteneva pagine davanti a centinaia, non poteva morire nelle prime. Mi faceva lacrime di rabbia lo scrittore che ammaccava di colpi la sua creatura. E dopo le bastonate, le sconfitte, a maggior penitenza gli spalancava gli occhi, lo squarcio di un momento, per fargli vedere la realtà miserabile com’era. E invece aveva ragione lui, Chisciotte, secondo i miei dieci anni: niente era come sembrava. L’evidenza era un errore, c’era ovunque un doppio fondo e un’ombra.”

(Erri De Luca, I pesci non chiudono gli occhi. Feltrinelli)