Il 27 aprile del 1937 moriva Antonio Gramsci, aveva 46 anni.
Si potrebbero scrivere pagine intere su di lui, sulla lunga detenzione, sulla solitudine che per anni è stata la sua unica compagna, si potrebbe parlare delle sue letture, innumerevoli e approfondite, dei suoi scritti, di importanza incalcolabile, raccolti nei Quaderni, delle sue riflessioni politiche, filosofiche, pedagogiche, della sua sterminata curiosità intellettuale, e ancora, del suo rigore, della sua umanità, del suo coraggio, e soprattutto della sua incredibile dignità, di uomo, di politico, di marito e di padre che, nonostante i gravissimi problemi di salute, ha lottato sempre, prima rinchiuso nelle carceri scelte dal regime fascista, una detenzione durissima, spietata, e infine, nell’ultimo tratto di vita, nelle cliniche dove era stato ricoverato in condizioni ormai disperate.
Si potrebbe parlare di Giulia, sua moglie, di Delio e Giuliano, i suoi figli, di Tatiana, la cognata, che gli stette sempre vicino, della madre, amatissima, dell’intera sua famiglia, ma si andrebbe lontano, per rendersi conto poi di aver solo incominciato a raccontare di quest’uomo tanto grande quanto complesso.
E allora lascio la parola a Giuseppe Fiori, grande giornalista e scrittore, che scrisse una bella biografia su Antonio Gramsci, intitolata appunto Vita di Antonio Gramsci, edita da Ilisso.
Dal capitolo trentesimo di questo libro estrapolo alcuni passi che raccontano esattamente l’ultimo periodo della sua vita.
“Fu visitato dal professor Frugoni il 26 agosto. Era in condizioni disperate: […]. Eppure lottò ancora.
Pensava a Giulia. Riprese a scriverle. Le propose il 14 dicembre di venire in Italia: […].
A lungo insistè: […]. Giulia non venne. Antonio si spegneva lentamente.
[…].
Sembrava, o forse era veramente, distaccato da tutto. […].
Ora Gramsci si rivolgeva soltanto a Giulia, ai figli lontani. Non conosceva Giuliano, se non per fotografia. Delio aveva adesso, nel ’36, dodici anni. Tra loro si intrecciavano a distanza colloqui di tenerezza infinita: […].
Le energie si affievolivano. Un po’ lo teneva su la prospettiva del vicino ritorno alla libertà. La pena sarebbe scaduta il 21 aprile 1937. Pensava di tornarsene in Sardegna, per vivere in assoluto isolamento. Lo scrisse a casa. Come il padre seppe di questo disegno, gli salì la febbre, per l’emozione.
Era malato, vecchio, settantasette anni. Non vedeva Nino dal ’24. Anche gli altri figli erano fuori casa, lontani: […]. Si spegneva con i figli sparsi nel mondo.
[…].
Nino era morto alle 4,10 del 27 aprile; aveva quarantasei anni. Gli fecero il funerale l’indomani pomeriggio, sotto il temporale. Seguiva il feretro soltanto una carrozza, con Tatiana e Carlo dentro.
Francesco Gramsci morì appena due settimane dopo, il 16 maggio 1937. Tante volte, prima d’andarsene, aveva riletto le parole scritte da Nino alla mamma il 10 maggio 1928, alla vigilia del processo:
“Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini.”
(Dal libro “Vita di Antonio Gramsci”, di Giuseppe Fiori, Ilisso Edizioni)