Archivio | marzo 2019

Nota al saggio “Una stanza tutta per sè”, di Virginia Woolf

 

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Il saggio, intitolato inizialmente “Le donne e il Romanzo“, scaturisce da due conferenze che Virginia Woolf tenne nell’ottobre del 1928 davanti ad un pubblico tutto al femminile, i due scritti, modificati e ampliati, furono pubblicati, col titolo definitivo, l’anno successivo, il 24 ottobre 1929.

Il primo titolo nacque probabilmente dall’esigenza di capire quale tipo di rapporto ci fosse tra le donne e il romanzo riflettendo sulla vita delle donne dei secoli precedenti al suo, il cinquecento, il seicento, il settecento, con particolare riferimento al cosiddetto “periodo elisabettiano”, e soffermandosi su quel tipo di donna che aveva, o avrebbe potuto avere, se si fosse trovata nella situazione ideale, attitudine per la scrittura.
Un saggio, dunque, dedicato al mondo femminile. Lo sguardo attento di Virginia Woolf analizza principalmente due aspetti della loro vita.
Il primo riguarda l’istruzione, la possibilità di poter fare studi regolari, anche a livello universitario; purtroppo però questa possibilità si scontrava spesso con la realtà, perché le scuole e le università venivano frequentate quasi esclusivamente dagli uomini, le famiglie infatti investivano i propri soldi sui figli e non sulle figlie, le donne non avevano denaro, mezzi di sostentamento personale, si occupavano della casa e dei figli, questo veniva chiesto loro dalla famiglia e dalla società. E quando qualcuna, più forte e determinata, si cimentava nella scrittura e cercava un suo posto nel mondo, veniva derisa dal sesso maschile. Gli uomini invece scrivevano un numero elevato di romanzi, e paradossalmente parlavano quasi sempre di donne.
Ma quale era lo scopo? La figura femminile diventava unicamente uno strumento per accarezzare il loro narcisismo e migliorare l’autostima, con la convinzione che le donne fossero inferiori a loro in ogni campo. Se poi qualcuna insisteva nel coltivare la passione per la scrittura, gli uomini, indulgenti, potevano anche accettare questa possibilità, a patto naturalmente che la potenziale scrittrice si mantenesse fedele ad alcune indicazioni date da loro. Ma, si chiedeva Virginia Woolf, senza istruzione come potevano le donne vissute in quei secoli avere qualche possibilità di diventare delle buone scrittrici? Che esperienza di vita potevano avere, chiuse com’erano nelle loro case? Quante di loro, pur avendo del talento letterario, hanno avuto la possibilità di venire alla luce? Indubbiamente poche, tra queste Emily Bronte, Jane Austen, George Eliot e George Sand, alcune di loro scrissero inizialmente in forma anonima, altre, utilizzando nomi maschili.
Il secondo aspetto preso in esame da Virginia Woolf riguarda l’ambiente in cui vivevano, aspetto strettamente collegato a ciò che è stato detto in precedenza.
La vita della maggior parte delle donne si svolgeva principalmente dentro casa, poche quelle che osavano andare da sole in giro per la città, e ancora meno allontanarsi per vivere esperienze decisamente più complesse. La loro vita si svolgeva sostanzialmente nel soggiorno della propria casa, nessuna di loro aveva “una stanza tutta per sè” dove poter leggere, riflettere, scrivere in tranquillità. Le donne che avevano in qualche modo studiato, e che amavano scrivere, dovevano farlo in quell’unico ambiente comune; si possono immaginare le continue interruzioni, le distrazioni, dovute a quelli che venivano considerati i loro impegni primari. Potevano le donne, in condizioni così ristrette, trovare una strada diversa?
Sono state queste riflessioni a spingerla a cambiare il titolo del suo saggio.
Un piccolo libro di appena centoquaranta pagine, ma denso di contenuto. Ci sarebbe ancora tanto da dire, perché tante sono le domande che la scrittrice si poneva e alle quali provava a dare delle risposte, senza nessuna certezza, però, come lei stessa teneva a precisare.

Prima di concludere questa Nota, voglio scrivere alcune riflessioni su una donna straordinaria che, pur non avendo fatto degli studi regolari, ha lasciato un’impronta fortissima nel mondo letterario.
Virginia Woolf dimostrò di essere un’attenta osservatrice di ciò che avveniva intorno a lei, che fosse il mondo naturale o quello degli uomini, una donna riflessiva che sapeva scandagliare la realtà per poi ricomporla. La sua scrittura è brillante, ironica, coinvolgente, mai monotona, garbata e controllata nello stile, ma incisiva nei contenuti. Fu una donna fuori dagli schemi, libera e pronta ad opporsi alle convenzioni sociali, quando sentiva di non condividerle.

Mi piace ora riportare un brano di questo piccolo capolavoro. Si tratta di un passo che è la conclusione del sesto capitolo, l’ultimo. In esso Virginia Woolf si rivolge per l’ultima volta alle studentesse presenti alle sue conferenze, ma in generale a tutte le donne che amano scrivere, e dà loro alcuni consigli che sono ben lontani dall’essere esclusivamente letterari.

Vi ho già detto, nel corso della mia conferenza, che Shakespeare aveva una sorella; ma voi non cercatela nella biografia del poeta scritta da Sir Sidney Lee. Lei morì giovane, e ahimè non scrisse neanche una parola. E’ sepolta là dove oggi si fermano gli autobus, di fronte alla stazione di Elephant and Castle. Ora, è mia ferma convinzione che questa poetessa che non scrisse mai una parola e fu seppellita nei pressi di un incrocio, è ancora viva. Vive in voi, e in me, e in molte altre donne che non sono qui stasera perché stanno lavando i piatti e mettendo a letto i bambini. Eppure lei è viva. Perché i grandi poeti non muoiono; essi sono presenze che rimangono; hanno bisogno di un’opportunità per tornare in mezzo a noi in carne e ossa. E offrirle questa opportunità, a me sembra, comincia a dipendere da voi. Poiché io credo che se vivremo ancora un altro secolo – e mi riferisco qui alla vita comune, che è poi la vita vera e non alle piccole vite isolate che viviamo come individui – e se riusciremo, ciascuna di noi, ad avere cinquecento sterline l’anno e una stanza tutta per sè; se prenderemo l’abitudine alla libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che pensiamo; se ci allontaneremo un poco dalla stanza di soggiorno comune e guarderemo gli esseri umani non sempre in rapporto l’uno all’altro ma in rapporto alla realtà; e così pure il cielo, e gli alberi, o qualunque altra cosa, allo stesso modo; se guarderemo oltre lo spauracchio di Milton, perché nessun essere umano deve precluderci la visuale; se guarderemo in faccia il fatto – perché è un fatto – che non c’è neanche un braccio al quale appoggiarci ma che dobbiamo camminare da sole e dobbiamo entrare in rapporto con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne, allora si presenterà l’opportunità, e quella poetessa morta, che era sorella di Shakespeare, riprenderà quel corpo che tante volte ha dovuto abbandonare. Prendendo vita dalla vita di tutte le sconosciute che l’avevano preceduta, come suo fratello aveva fatto prima di lei, lei nascerà.
Ma che lei possa nascere senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte nostra, senza la precisa convinzione che una volta rinata le sarà possibile vivere e scrivere la sua poesia, è una cosa che davvero non possiamo aspettarci perché sarebbe impossibile. Ma io sono convinta che lei verrà, se lavoreremo per lei, e che lavorare così, anche se in povertà e nell’oscurità, vale certamente la pena.

Brano tratto da “Una stanza tutta per sè“, di Virginia Woolf, Oscar Mondadori, Scrittori del Novecento. Traduzione di M. Antonietta Saracino. Note di Nadia Fusini)

Virginia Adeline Woolf nacque a Londra nel 1882, e morì a Rodmeil nel 1941. Tra le sue opere più importanti: La camera di Jacob, del 1922, La signora Dalloway, del 1925, Gita al Faro, del 1927, Orlando, del 1928.

La vecchia

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Macugnaga, qualche tempo fa

Una vecchia riposa
su una sedia
poco fuori dall’uscio di una casa
avvolta dal sole.

Ricche fioriere intorno
dove i colori danzano
gareggiando tra di loro.

Ovunque i monti brillano
sotto i raggi
abbracciando colorate case
dai balconi fioriti.

Solo l’anziana non avverte
la bellezza del luogo
chiusa com’è nella sua solitudine
e in un pesante silenzio che fa male.

Piera M. Chessa

Meraviglie, l’interessante programma televisivo di Alberto Angela

 

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La settimana scorsa ho seguito un bel programma alla televisione, Meraviglie, condotto da Alberto Angela. La prima parte riguardava Mantova e si è protratta abbastanza a lungo, un piacere per me che amo questa città, nonostante non l’abbia ancora visitata, grazie ai racconti interessanti e anche appassionati  di alcuni amici.
Raccontarla non credo sia facile, ma Alberto Angela lo ha fatto egregiamente, come è nel suo stile. Grande divulgatore, appassionato di storia e di arte, e non solo, ha scelto alcuni luoghi, quelli che ha ritenuto più importanti, bene infatti soffermarsi soltanto su alcuni capolavori per poterli approfondire meglio.
Ed ecco davanti a noi il Palazzo Ducale, che comprende diversi edifici collegati tra di loro da ampi cortili e giardini. Il Castello di San Giorgio, prima di tutto, la sua stupefacente Camera degli sposi, i meravigliosi affreschi, il genio straordinario del Mantegna. E poi il Palazzo Tè, il luogo in cui Federico II, figlio di Isabella D’este, incontrava Isabella Boschetti. Bellissimi e sensuali gli affreschi di Giulio Romano, discepolo prediletto di Raffaello. E poi ancora la Sala dei Cavalli, dove si possono ammirare i dipinti dei cavalli prediletti dai Gonzaga, la Camera dei Giganti, dove vengono rappresentati i Giganti uccisi da Giove a causa della loro superbia, e il magnifico Cortile della Cavallerizza. E altri luoghi ancora dove ogni singola cosa aveva il suo senso: omaggiare i Gonzaga, la loro ricchezza e magnificenza. Dopo aver sconfitto la potente famiglia dei Bonacolsi, infatti, sono stati per tanto tempo, dal 1328 fino al 1707, i signori incontrastati di Mantova, città che deve proprio a loro la sua bellezza e la sua fama.

Mi piace aggiungere a questo breve riassunto un bel passo tratto dal libro “Rinascimento Privato”, di Maria Bellonci, scrittrice che apprezzo per le storie che racconta ma anche per lo stile particolare, stile che si rifà alla lingua usata negli anni in cui la storia si svolge.
L’io narrante è Isabella D’este, donna intelligente, determinata, capace di comandare, ma anche di attirare alla sua corte, grazie al suo straordinario carisma, artisti di grandissimo ingegno, come l’Ariosto, Leonardo da Vinci e tanti altri.

… “C’è anche una lettera del mio Baldesar Castiglione; anche lui mi rende a quella generosa festività romana. Annuncia che Raffaello farà il quadro che gli ho chiesto di persona. Io l’ ho visto questo nume della pittura proprio nelle stanze del Vaticano. Dolce e gentile pareva: in verità il suo viso sereno è lontanissimo, divorato da visioni incomunicabili. Nei luoghi dove egli vive vuole essere solo, o così, senza saperlo, lascia intendere, sfuggendo a tutto ciò che non lo avvicina alla sua ricerca di perfezione. A volte lo inseguivo con lo sguardo dalla mia finestra riquadrata mentre passava per la piazza, sotto il palazzo dove abitavo, in compagnia di gente dell’arte e di gente di nome che si contentava di mirarlo: sembrava disarmato, esile nelle sue sopravvesti scure e corte, per lo più tagliate in velluto di grande finezza. La folla si apriva al suo passare e lo salutava. […]
“Dio mio, devo subito rispondere al signor Castiglione per il quadro di Raffaello: domanda soltanto le misure e da quale parte debba venire il lume sulla tela. Se potessi proporre un soggetto, sarei per un quadro di quelli piccoli e preziosi del pittore con una Madonna delle sue che danno il senso dell’inesprimibile, e magari con qualche figura come l’infante divino e un San Giovannino o Sant’Anna; li vedrei in un luogo aperto che abbia per sfondo le rovine di Roma tra una lieve bruma luminescente, e si riconoscessero il Pantheon dal colonnato possente o le gigantesche mura arcuate delle Terme di Diocleziano o le colonne corinzie del tempio di Vespasiano. Vorrei il fantasma di Roma iscritto nel fondo e la figura della nostra religione in primo piano nella maestosa armonia di un tempo senza tramonti.”

Funtana Meiga

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L’abitato di Funtana Meiga si trova nella penisola del Sinis, in territorio di Cabras, un comune di circa diecimila abitanti in provincia di Oristano. Il suo nome in lingua italiana significa “Fontana medica”, o medicamentosa. Sembra infatti che in un passato lontano ci fosse nei pressi una sorgente le cui acque venivano considerate benefiche.

La sua spiaggia non è molto ampia, ma l’acqua del suo mare ha dei colori cangianti che la rendono speciale, così come le sue rocce. Si trova tra San Giovanni del Sinis e la Torre di Seu (Torre del Sevo). Immaginando di stare nel mezzo, si ammira, a sinistra, la Torre di San Giovanni, situata presso il sito fenicio-punico di Tharros, e a destra, la Torre di Seu, costruita nel sedicesimo secolo dagli aragonesi.

Il luogo è conosciuto per la presenza di una bella e interessante Oasi Naturalistica nata nel 1981 come Oasi WWF, e diventata in seguito, negli anni 90, Parco Naturale di Cabras. Molto belle le ampie distese di macchia mediterranea, sono presenti in particolare il cisto e il lentischio; per quanto riguarda la fauna, invece, vi sono numerose specie di uccelli, alcune piuttosto rare.

Le notizie sono state reperite sul web.

Di seguito, un po’ di foto scattate da me.

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Piera M. Chessa

In questura

Pubblicai  già questo post sul mio blog il 26 febbraio 2012. Sono passati ormai diversi anni, mi rendo conto però, con profonda amarezza, che nulla è cambiato rispetto ad allora, forse le cose sono semplicemente peggiorate, perché noi siamo ulteriormente cambiati, purtroppo. Seguo il mio cuore, lo voglio riproporre per provare a riflettere ancora un po’ insieme.

*** 

Il racconto che segue, scritto da una ragazza di origini cinesi, fa parte di una raccolta il cui titolo è “Rondini e ronde”, raccoglie venti storie di autori, stranieri e italiani, uniti da un unico grande desiderio, quello di combattere il razzismo in ogni sua forma.

In questura

Zhanxing Xu

21 settembre 2009

Questa sarà un’altra delle mie indimenticabili date, un’altra macchia indelebile che porterò con me, in questa mia vita da figlia di immigrati, cresciuta in Italia.

Già… un’intera adolescenza vissuta col terrore dei documenti, di girare fra comuni, questure, uffici immigrazione, prefetture, fatta di preoccupazioni, di preghiere che tutto vada bene.

Sveglia alle 6.45, una veloce sciacquata e poi subito alla stazione a prendere il treno delle 7.24. L’attesa dell’autobus e poi alla Questura di Grosseto. Intanto mille domande scorrevano veloci nella mia testa: come sarebbe andata questa volta? Cosa sarebbe successo? Mi sarebbero uscite le lacrime come l’ultima volta? Tante, troppe le preoccupazioni. Arrivo in questura alle 8.35, una fila di decine di persone, due poliziotte allo sportello, alla macchinetta per il rilevamento delle impronte. Mi siedo e aspetto. Le gambe cominciano improvvisamente a tremare, le mani si chiudono in pugni stretti che cercano di scaricare la tensione, intanto tutta l’energia si accumula all’altezza dello stomaco, un ammasso gigantesco simile ad un ordigno pronto a scoppiare. Brividi, continue scosse in tutto il corpo, i denti digrignano, sguardo nel vuoto, vulnerabile, indifesa, sola in una stanza resa falsamente più accogliente dalle pareti color marroncino chiaro. Mi sento male, corro fuori, prendo aria e leggo sulla porta d’ingresso: “sportello per stranieri aperto dalle 8.30 alle 13,00” e penso “perché sono qua? Perché sono in una struttura per stranieri?”. Mi sento fuori luogo, sento il dovere e la necessità di andarmene eppure non posso. Non posso perché io, cresciuta in Italia risulto essere fra i cosiddetti stranieri. Sento una voce sopraggiungere da lontano: Zhanxing Xu… Tocca a me. Arrivo, consegno le foto, il passaporto e sorrido perché nei momenti difficili è l’unica arma che ho per non soccombere.

Pollice, indice, medio, anulare e mignolo, ecco le impronte della mano destra che vengono caricate sul pc, ora la mano sinistra, poi nuovamente indice destro e indice sinistro fatto, veloce e indolore. Già… pochi secondi che rimarranno sempre impressi nella mia memoria, nella mia esistenza, che sono motivo della mia rabbia e della mia disperazione; perché contro un sistema terribilmente ingiusto lotti, ma intanto sei costretto a seguire le sue regole. Intanto chiedo alla signora quanto durerà il mio permesso e mi risponde due anni, facendo i calcoli dovrebbe scadere a Marzo 2011, dimentico solo che lo potrò ritirare a novembre e sono già stata graziata. Ho scritto, ho pianto, ho gridato, sono andata a implorare, ho pregato che mi dessero un permesso valido per almeno due anni e così dopo tre anni di attesa mi è stato concesso.

Sono felice perché ora assaporo un po’ di libertà, quella che tutti dovrebbero avere: di muoversi, di viaggiare ed infine di progettare. In questi anni quanti “no” ho detto agli amici che mi chiedevano di partire, alle follie adolescenziali di andare in aeroporto e scappare lontano ed invece io ero sempre qui, ostaggio di questa nazione, senza nessuna possibilità di scelta. Ora, forse, una piccola barriera burocratica l’ho superata. Esco dalla questura, mi volto ancora indietro a guardare e spicco in volo.

Intanto la mia mente viene bombardata di flash-back, ricordo i miei sedici anni, quando entrai timorosa nella stanzetta e mi presero le impronte, dpingendomi la mano di nero, così anche i diciassette, i diciotto e tutti gli anni a venire. Ricordo ancora quando la mamma mi svegliava alle cinque di mattina per andare in questura ad aspettare al freddo fuori dai cancelli, perché bisognava fare le file e prendere il numerino.

Ricordo l’orgoglio e la dignità di una bambina/ragazza ferita da qualcosa più grande della sua età, ricordo la forza e la durezza con cui ho reagito a tutto ciò. Ricordo soprattutto gli sguardi interrogativi delle persone: ma tu non sei italiana? Già, io non lo sono, io ho la cittadinanza cinese, italiana solo di fatto, italiana con il permesso di soggiorno. Ricordo tutto, ogni singolo attimo, ogni singolo istante in cui mi hanno umiliata, in cui mi hanno fatto credere di essere “nessuno”. Sono amareggiata, rattristata per tutto ciò che in questi anni ho dovuto rinunciare per cause di forza maggiore, tuttavia non provo risentimento, né rancore verso l’Italia, nonostante ciò che subisco ancora tutti i giorni. E’ una lotta continua, prima di tutto con me stessa, con le istituzioni e con i pregiudizi e vincerò io presto, ne sono certa.

Non posso votare, non posso partecipare ai concorsi, non posso fare determinati lavori, non posso fare richiesta per i viaggi studio e il mio permesso scadrà tra un anno e mezzo, ciononostante sono tranquilla, serena, in pace.

Io non posso fare tante cose ma posso valere molto di più.

Corro, guardo avanti e piango ma questa volta di felicità.

(Rondini e ronde, scritti migranti per volare alto sul razzismo, a cura di Silvia De Marchi)