
Foto da web
Quando Marina entrò nella sala d’aspetto, lui era già lì. “Lui” era un “signore” di una certa età ma non anziano, stava seduto vicino alla porta dello studio del medico e aspettava il suo turno per entrare.
Due occhi tondi su un viso dalle gote rosse, pochi capelli e un abbigliamento che voleva essere sportivo e giovanile, ma che in realtà a Marina sembrò abbastanza trasandato.
Teneva tra le mani una stampella, particolare che denotava qualche problema agli arti inferiori, ma lo sguardo sanguigno e la lingua piuttosto sciolta non evidenziavano problemi di alcun genere.
Parlava di tutto senza fare pause, e in particolare si lamentava della categoria dei medici, a suo avviso poco competenti.
E’ stato a quel punto che un signore, sentendosi chiamato in causa, disse:
“Bene, sono contento quando sento i pazienti esprimere con franchezza il loro parere sul nostro operato”.
Difficile capire, dal tono piuttosto neutro, il significato che intendeva attribuire alle sue parole.
“Lui” non fece una piega. Quando, più tardi, il medico andò via, ricominciò il suo estenuante e disordinato monologo cambiando semplicemente argomento, senza tuttavia riuscire a portarlo avanti con coerenza.
Marina, in attesa di entrare in ambulatorio, cercava di ingannare il tempo leggendo qualche pagina di un libro che aveva portato con sè, ma il tono alto dell’interlocutore non le permetteva di concentrarsi. “Lui” parlava con una signora che, pazientemente, cercava di trasformare la conversazione in un vero dialogo.
Ad un certo punto Marina fu incuriosita e colpita dall’ultimo argomento trattato. Le arrivavano stralci di una conversazione tanto banale quanto fastidiosa.
“Stanno bene in carcere, non manca loro niente, mangiano, bevono, dormono, guardano la televisione, escono nel cortile, e poi non lavorano! Per loro è come stare a casa.”.
Si chiese di chi stesse parlando e, istintivamente, prestò una maggiore attenzione.
“Perché devono stare qui? Che cosa ci fanno? Lo sapete che le carceri sono piene di stranieri, la maggior parte non è di qui, vengono a creare dei problemi, se ne devono andare!”
E’ stato a questo punto che un altro signore cercò di inserirsi nella conversazione dicendo:
“Se stanno così bene, come mai in carcere tanti detenuti decidono di suicidarsi? Probabilmente non stanno esattamente come dice lei!”
“Lui” non si scompose per niente ed esplicitò meglio il suo “pensiero”.
“Lo avrebbero fatto anche se fossero stati liberi, vuol dire che avevano già quest’intenzione!”
“Ma che ne sa lei di come vivono in carcere!”, disse il signore abbastanza spazientito.
“Glielo dico io che è così perché sono andato a fare dei lavori e mi sono fatto aiutare da alcuni di loro. Gli stranieri non devono stare in Italia, se ne devono andare!”
Il discorso andò avanti a lungo, perché lunga fu l’attesa.
Marina fremeva ma cercava di trattenersi, sapeva che se avesse dato retta al suo istinto avrebbe finito col litigare. Non le sembrava il caso, in fondo non ne valeva la pena.
Notò, guardandosi intorno, che anche gli altri presenti prendevano le distanze da quel fiume in piena, che cercava di rendere più convincenti le sue affermazioni con un linguaggio sempre più colorito.
Tirò un sospiro di sollievo quando finalmente arrivò il suo turno e fu ricevuto dal medico nel suo studio.
La sala d’attesa ritrovò di colpo la sua “sobrietà”, per usare un termine molto diffuso in quei giorni.
Mentre tutti aspettavano con pazienza, usufruendo finalmente di un po’ di silenzio, Marina non potè fare a meno di pensare ai tanti ragazzi nati in Italia, ma figli di genitori stranieri, che chissà quanti anni ancora avrebbero dovuto attendere per vedere realizzato il loro sogno di sentirsi a tutti gli effetti cittadini italiani.
Dalla raccolta “Sguardi di donne”
P.M.C.