Archivio | novembre 2019

Il risveglio

 

images

(foto da web)

 

Donna,
tu che cammini
con la testa china
e non sai spiegarti il perché,
tu che non gioisci più
e nascondi i tuoi segreti
dietro un sorriso spento.

Tu che abbracci forte i tuoi figli
con tenera violenza
per paura di perderli,
tu che con timidezza esci di casa
per cercare aiuto
e ti vergogni nel farlo.

Tu che non sai più
cosa daresti
per avere ancora
gesti sinceri di tenerezza
e il rispetto dovuto.

Ma arriverà il giorno del risveglio
con la certezza di potercela fare,
di trovare il coraggio
per mettere fine
a una storia di dolore e paura
che non ha proprio niente di speciale.

P.M.C.

Il signor Francesco

 

20190724_190520

 

Agata lo seppe per puro caso parlando con Elisa, la titolare del piccolo albergo in cui aveva alloggiato nelle due settimane di vacanza trascorse a Bormio. Lo stesso albergo nel quale era stata tanti anni prima, e dove si era trovata talmente bene col gestore di allora, il signor Francesco, da mantenere con lui, per diverso tempo, dei contatti regolari, sentendosi telefonicamente almeno in occasione delle principali festività.
Una mattina Agata gustava una dolce e accattivante colazione proprio nel momento in cui la signora si era avvicinata alla tavola per accertarsi che non mancasse niente. Era una donna non proprio giovanissima, ma ancora molto attiva, che portava avanti la sua attività quasi da sola, solo nei giorni particolarmente impegnativi veniva aiutata da una figlia.
E fu proprio in quel mattino di un settembre ancora estivo che Agata venne a conoscenza del fatto che il signor Francesco non c’era più. Sapeva che da tempo era andato in pensione, ma non che stesse male. Fu un grande dispiacere perchè conservava di lui un ottimo ricordo.
Anche Elisa lo conosceva bene da tempo, da quando, titolare appunto di quello stesso albergo, ormai avanti negli anni e con qualche problema di salute, aveva lasciato il lavoro ai suoi figli, che tuttavia avevano dimostrato di non esserne all’altezza e di non amarlo come il loro padre.
Molto amareggiato, il signor Francesco aveva deciso di darlo in gestione, con l’intenzione poi di venderlo, non potendolo più seguire personalmente. Una scelta difficile che aveva reso più amari i suoi ultimi anni di vita. Tutto questo Agata venne a sapere dalla signora, che non era neppure una parente, ma dimostrava di provare per  lui stima e simpatia.
E quando il signore decise di interrompere l’attività, Elisa, che amava quel lavoro e il contatto con la gente, gli propose di sostituirlo, prendendo inizialmente l’albergo in gestione, e poi, non appena le fu possibile, acquistandolo.
La struttura in breve tempo ricominciò a vivere, grazie alla sua energia e alla sua  passione.

Elisa si stupì molto di fronte al dispiacere della sua ospite, la colpì quel suo interessamento verso Francesco, come lei amichevolmente lo chiamava.
” Vede”, le disse quel giorno Agata, “io viaggio spesso, vengo in montagna a sciare, d’inverno, e a fare lunghe passeggiate, d’estate, sono stata ospite in tanti alberghi e, devo dirlo, mi sono trovata sempre bene. Ma col signor Francesco, tanti anni fa, le mie vacanze sono state più belle, direi, speciali. Fin dal giorno del mio arrivo, mi colpì subito il suo atteggiamento distinto ed educato. Faceva il suo lavoro con grande attenzione, niente veniva lasciato al caso, impossibile notare delle mancanze nella gestione dell’albergo; ottime colazioni, niente da dire sulla pulizia, e ancor meno sul suo modo di rapportarsi con gli altri. Era un uomo discreto, rispettoso della privacy, ma anche piacevole affabulatore quando intuiva che l’ospite desiderava conversare un po’.
E fu proprio in quei momenti, quando il lavoro gli lasciava del tempo libero, che potei chiacchierare con lui e conoscerlo meglio. Non seppi mai se fosse vedovo, ma lo pensai spesso vedendolo sempre da solo, e soprattutto intuendo in lui una certa malinconia, che affiorava talvolta nello sguardo persino quando sorrideva. Tuttavia sapeva anche scherzare, raccontare barzellette e aneddoti molto gustosi. E poi la gentilezza, l’amabilità nel proporre itinerari, escursioni nei boschi, visite d’arte. Talvolta mi prestò delle guide molto ben  fatte, semplici da consultare ed estremamente utili.
Un giorno mi parlò anche dei suoi interessi, scoprii così la sua grande passione per la musica classica, amava soprattutto Mozart e Beethoven. E poi l’altra sua grande passione, quella per i francobolli. Ne parlava come se fossero dei figli, mi colpì il suo entusiasmo nel raccontare del “Gronchi rosa” e delle sue imperfezioni, diventato proprio grazie a loro ancora più pregiato. La sua passione era assolutamente contagiosa.”.
Agata tacque, e poi aggiunse:” Vede perché ho questo bel ricordo di lui? Certo ora era anziano, lo conobbi quando forse era vicino ai sessant’anni, ma è il sapere dell’amarezza degli ultimi tempi che mi procura dispiacere. Era un uomo che avrebbe meritato molto di più dalla vita, io credo”.
Elisa la guardò annuendo, e disse:”Sì, sono d’accordo con lei, ho avuto modo anch’io di apprezzarlo, meritava più affetto e considerazione anche dalla gente che vive qua, più propensa a far soldi che a svolgere il proprio lavoro con amore, come invece faceva Francesco.”

Dopo qualche istante di silenzio, entrambe sembravano riflettere sulle parole che si erano dette, Agata disse: “Senta, potrebbe dirmi dove è stato sepolto? Vorrei andare a trovarlo, se possibile”.
“Come no,” rispose Elisa, “da qui non è difficile arrivare al cimitero, le farò uno schizzo, non troverà difficoltà. Quando arriva sul posto chieda al custode, le farà strada fino all’area che io le segnalerò”.
Nel pomeriggio di quello stesso giorno, Agata, col suo foglio di carta tra le mani, si recò nel cimitero dove il signor Francesco era stato tumulato. Elisa era stata accurata nella descrizione del percorso, era tutto molto chiaro.
Raggiunse in breve tempo il cimitero dove, senza intoppi, trovò anche il custode, al quale chiese informazioni. Fu fortunata perché in quel momento i visitatori erano piuttosto rari e lui si offrì di farle strada fino alla tomba, prima di allontanarsi con discrezione.
Agata si avvicinò, stupendosi lei stessa della propria emozione. Si disse che era una cosa abbastanza insolita, in fondo erano passati tanti anni, e il signor Francesco era stato semplicemente il gestore di uno dei tanti alberghi in cui  nei suoi viaggi aveva alloggiato. Eppure aveva lasciato in lei qualcosa di più. Una traccia, il segno del suo passaggio, fatto di educazione e sobrietà, di amore per le cose belle e di profondo rispetto per la montagna.
Non era poco se, a distanza di anni, lei ancora lo ricordava con stima, e se ora era lì, in piedi davanti a una tomba estremamente semplice, così in armonia con quello che era stato lo stile di vita del signor Francesco.

Dalla raccolta ” Sguardi di donne”

P.M.C.

Il cane Comunista e altri racconti, di Laura Vargiu

 

download

foto da web

 

Il libro “Il cane Comunista e altri racconti”, di Laura Vargiu, è costituito da nove storie ed è la prima di queste a dare il titolo alla raccolta. Sono centosei pagine in tutto, eppure questi racconti sono così densi di contenuto che pare, leggendoli, di conoscere una parte non esigua dell’intera umanità.
Mentre si va avanti con la lettura, passano davanti ai nostri occhi i diversi personaggi, protagonisti tutti di storie difficili.
La prima, ambientata negli anni venti del secolo scorso, narra di un uomo, presumibilmente ancora giovane, che si oppone con coraggio alle ingiustizie e ai soprusi dei cosiddetti miliziani, che anticiperanno di poco l’avvento del regime fascista, e che, per generosità e affetto, pensa più alla sopravvivenza del suo cane che alla sua stessa vita.
Vi è poi il soldato che ritorna dal fronte e ha solo un desiderio, quello di ricongiungersi alla moglie e ai figli, ma che poi in famiglia si trova a dover sbrogliare una situazione non prevista.
E ancora, la storia di una ragazza che, giovanissima, deve lavorare per aiutare la sua famiglia, ed è costretta per necessità a sopportare angherie e ricatti.
In un altro racconto viene nuovamente affrontato il tema della guerra e dei rapporti tra persone che hanno ruoli differenti, che nella vita si ritrovano a essere nemici, ma che riescono, nonostante tutto, a costruire momenti di solidarietà e di possibile amicizia.
Coinvolgente e carica di sofferenza è la storia di Barbara, che ha solo diciotto anni e fa la cernitrice in una miniera del Sulcis. Uno dei racconti più duri, dove il dolore è il protagonista assoluto, tema comunque presente un po’ in tutto il libro.
A stemperare in parte tanta sofferenza, la storia della venditrice ambulante, così accogliente, soprattutto con chi ha ancora meno degli altri ed è stato colpito maggiormente dalla vita.
Il racconto intitolato La firma in qualche modo alleggerisce “la fatica di vivere”, ed è la storia di Benito, nome piuttosto diffuso, e non a caso, in quel periodo.
E che dire dell’Ultima corsa? Un piccolo mondo formato da uomini, donne, ragazzi e anche anziani, tutte persone che per anni sono salite sui treni di quella che dagli abitanti della zona veniva chiamata La ferrovia del Sulcis. Una storia raccontata con garbata leggerezza, appena velata di malinconia.
La parte conclusiva di questo bel mosaico è il personale viaggio interiore di una ragazza, presumibilmente la stessa autrice, che ripercorre una parte significativa, e non certo in discesa, della sua vita, guardando tuttavia anche al futuro.
Un bel libro in cui l’esistenza viene raccontata con garbo e rispetto dei sentimenti, cercando di capire quel dolore che da sempre accompagna la nostra vita, ma la scrittrice lo fa con un tratto lieve, stemperandone, là dove è possibile, il peso, con l’uso discreto, e nello stesso tempo incisivo, di un’amabile ironia.
Laura è una giovane donna che sa guardare oltre l’apparenza, che non si accontenta e vuole approfondire, e mi pare che in questa raccolta di racconti, ma non solo, lo faccia con ottimi risultati.

P.M.C.

Liliana Segre: alcune riflessioni

 

download

foto da web

Sono giorni indimenticabili questi che stiamo vivendo, giorni che non avremmo voluto vivere, almeno una parte di noi, perché lasciano addosso un’amarezza che avvolge come se fosse una colla resistente, e della quale è difficile liberarsi.
Non è una novità per nessuno quella che è stata la vita di Liliana Segre, un’esistenza durissima fin da quando era bambina, sopravvissuta poi all’inferno di Auschwitz. Non voglio certamente tracciare una sua biografia, solo soffermarmi su alcuni particolari della sua vita.
Per esempio, si parla sì, ma poi non così tanto, di quel ricordo indistruttibile, non solo a livello mentale ma anche fisico, che è un numero, costituito da più cifre, che Liliana Segre porta con sè, su un braccio, da quando non aveva ancora quattordici anni, questo numero è 75190.
Se solo provassimo a immaginare di vivere noi stessi quella sua esperienza, rinchiusa a tredici anni, un anno e mezzo di campo di concentramento, l’aver visto il padre morire dopo pochi mesi… Una ragazzina di quattordici anni e mezzo che ritrova la sua libertà, che prova a condurre una vita “normale”, cresce, forma una famiglia, tutto ciò che di solito fa parte della vita di ognuno di noi.
I ricordi però non si possono cancellare, e neppure gli incubi, e quel numero portato fino ad oggi per decine di anni penso che abbia impedito a Liliana Segre di sentirsi, come tutti noi, una persona “normale”, perché la sua vita non può che essere considerata straordinaria, non normale.
Per anni lei non ha parlato della sua esperienza, neppure i suoi per diverso tempo ne sono venuti a conoscenza nella sua interezza, poi ha deciso che era giusto parlarne, raccontare la sofferenza patita nel campo, la crudeltà di cui i suoi occhi sono stati testimoni; erano, non dimentichiamolo, occhi da bambina, eppure è riuscita ad andare oltre.
E noi, una parte di noi, che facciamo? Da dove nasce oggi quest’odio verso una donna avanti negli anni, pacata nei comportamenti e nel linguaggio, che cosa può disturbare in lei? Lei che non conosce l’odio, eppure ne avrebbe motivo, che si meraviglia nel vedere che non tutti, al momento del voto, abbiano votato concordi contro ogni forma di razzismo e discriminazione, che non si spiega il perché dei tanti insulti che quotidianamente le arrivano.
Ora avrà una scorta, perdendo un pezzo considerevole della sua libertà. Perché sì, si sentirà più sicura, ma la libertà, la vera libertà, non ha prezzo.
Io trovo che sia profondamente ingiusto ciò che sta succedendo in questi giorni, ingiusto e vergognoso. Diverse persone vorrebbero chiedere scusa a quest’anziana signora che ha veramente dato tanto, andando nelle scuole, incontrandosi con i giovani, costringendo se stessa a ricordare ogni volta quello che ognuno di noi vorrebbe solo dimenticare. Lei lo fa perché sente che è giusto farlo, la morale, quella autentica che dovrebbe guidarci nella nostra vita tutti i giorni, quella legge morale lei l’ascolta. Eppure in molti non le riconoscono neppure questo, ritenendo che ci sia ben altro dietro le sue scelte.
Oggi, in questo nostro Paese allo sbando, sembra veramente difficile capire che certe strade si  possa decidere di percorrerle senza nessun secondo fine.

P.M.C.

Nella nebbia

 

20191103_134817

 

Marta, quella mattina, come tutte le mattine, entrò nella stanza di sua madre silenziosamente, come ormai faceva da anni. Non voleva svegliarla, dal momento che, finalmente, dopo una notte di insonnia quasi totale, si era addormentata. Avevano combattuto insieme in quelle ore di buio, come tante altre volte, Antonella con i suoi fantasmi, e lei nel cercare di tenerli lontani da quella mamma amata.
Diversi anni di vita in comune, da quando Marta, per via di un rapporto complicato, si era separata dal marito ed era andata a vivere nella sua casa, dedicandole, in seguito, quasi tutto il suo tempo come se fosse una figlia. E una figlia a tutti gli effetti era diventata Antonella, da quando la sua mente, aveva poco meno di ottant’anni, aveva incominciato a confondersi, a non ricordare più come prima. Da quando il suo carattere, determinato ma molto amabile, si era inasprito, trasformato in qualche modo, acquisendo inizialmente caratteristiche aggressive che mai, fino a quel momento, avevano fatto parte di lei.
Era stata una mamma severa, indubbiamente, ma molto equilibrata, aveva saputo dosare regole e coccole, per questo i figli le avevano voluto così bene. E ora? Ora era in balìa delle ombre, la sua mente confusa alternava brevi momenti di lucidità a ore interminabili di assenza.
Il neurologo aveva parlato subito di morbo di Parkinson, ma probabilmente non aveva previsto che la malattia sarebbe degenerata in brevissimo tempo. Lui stesso ne rimase meravigliato quando la vide, pochi mesi dopo. Contribuì a complicare la situazione anche una caduta dal letto non prevista, e la conseguente frattura di un femore.

Incominciò così, per Marta e la sua mamma, un periodo molto faticoso che le avrebbe provate entrambe, ma che, nello stesso tempo, avrebbe contribuito a rafforzare un rapporto già nutrito da un grande affetto.
A Marta apparve subito chiaro che la sua vita sarebbe cambiata parecchio, che avrebbe dovuto coltivare la pazienza e modificare molte delle sue abitudini. E d’altra parte, che altro poteva fare? Abbandonare sua madre? Certamente no, si sarebbe fatta aiutare indubbiamente, aveva bisogno di qualcuno che potesse anche sostituirla, ma lei sarebbe stata sempre ben presente.
E ora era lì a guardarla, mentre ancora dormiva, sebbene fossero le nove del mattino. Sembrava proprio una bambina!
Pur non essendo stata mai molto robusta, ora appariva in tutta la sua fragilità. Era diventata piccola piccola, un fuscello, diceva spesso Marta, nel parlarne con le tante amiche che venivano a trovarla, un esilissimo giunco che sembrava dovesse spezzarsi da un istante all’altro.
Invece no, Antonella, o meglio, Nella, come spesso era stata chiamata da bambina, dimostrava ogni giorno di non essere poi così fragile. Nonostante tutto il suo corpo reagiva a ogni sorta di intemperie. Si opponeva all’età che avanzava, ai parecchi anni vissuti in un letto, alla malattia devastante che l’aveva colpita. Solo la sua mente aveva ammainato le vele, decidendo di non reagire più. Eppure viveva ancora qualche momento di lucidità.
Erano quelli gli attimi più belli per Marta, quelli in cui “incontrava” sua madre, e poteva sentirsi un po’ meno sola.

Quante volte, guardandola, pensava a ciò che Nella era stata!
Innanzitutto, una brava moglie, suo marito Paolo, che ora purtroppo non c’era più, l’aveva amata molto, a tal punto da ricordare che, quando erano giovani, gli piaceva chiamarla Bambola. Proprio così, non Nella, ma Bambola, come se fosse il suo nome proprio.
Era stata una bella donna, Nella, capelli neri e ondulati, occhi nocciola, che alla luce evidenziavano delle pagliuzze dorate, il naso un tantino pronunciato, ma non esageratamente grande, e un sorriso che disarmava. Ma forse la cosa più bella che aveva avuto erano le gambe. Perfette, diceva Paolo. E detto da lui nessuno osava metterlo in dubbio. Ma Marta, sì, le ricordava, eccome, le gambe di sua madre. E gliele invidiava un poco, perché sapeva di non averle del tutto ereditate. Certamente non erano così perfette.
E poi Nella aveva un bel carattere, lo dicevano tutti, parenti e amici. Quando i suoi genitori erano giovani, di amici ne avevano tanti, e spesso li venivano a trovare. Allora sì, si faceva baldoria! Quanti pranzi aveva organizzato sua madre, coadiuvata dal babbo, se la cavava molto bene anche lui in cucina, lo ricordava Marta, e tante volte si erano sfidati amichevolmente, soprattutto quando avevano ospiti, per il pranzo o per la cena. E gli amici a dire la loro sulle qualità dell’una o dell’altro.
Ma non era stata soltanto un’ottima cuoca, era una donna brillante, un’affabulatrice, sapeva farsi ascoltare, ma nello stesso tempo lasciava spazio agli altri e aveva la rara dote di non interrompere nessuno.
Era stata anche una brava madre, Marta e suo fratello, che purtroppo viveva fuori, lo avevano sempre riconosciuto. Ferma nelle decisioni ma molto affettuosa.
E come nonna? Ai suoi nipoti aveva dispensato una quantità infinità di coccole, per non parlare dei dolci che aveva preparato per i loro compleanni, durante le festività, e spesso anche quando non c’era proprio nulla da festeggiare, semplicemente per il piacere di stare insieme.

Ora era lì, coperta da un semplice lenzuolo, era estate e faceva tanto caldo, spuntava solo la testa da quel letto che appariva così grande e dove lei si perdeva.
Mentre la osservava con affetto e rimpianto per ciò che non era più, Marta vide che Nella aveva gli occhi aperti e sembrava guardarla. Nel lungo momento in cui aveva dato spazio ai ricordi, sua madre si era svegliata, senza che lei se ne fosse resa conto.
Chissà da quanto tempo la guardava! Perché ora era proprio chiaro, lo sguardo di Nella in quell’istante non era assente. Si mosse un poco, cercando di girarsi su un fianco, e Marta la assecondò aiutandola.
Per un istante i loro visi furono vicinissimi, lei guardò dentro gli occhi di sua madre, si perse in quel nocciola dorato che conosceva così bene, e in quello sguardo per qualche attimo lucido e presente. Percepì il faticoso movimento della sua mano che si allungava e si liberava del lenzuolo, e poi sentì le sue fragili dita fare una maldestra carezza sul suo viso, prima di ricadere sfinite con un impercettibile piccolo tonfo.
Il dono di pochi istanti, ma così intenso che Marta l’avrebbe portato con sè per sempre, ne era certa.
Riuscì a dire semplicemente una parola, grazie, e sperò con tutta se stessa che sua madre potesse sentirla mentre la pronunciava.
La guardò, e le parve di vedere, ai lati della bocca, l’accenno di un sorriso.

Dalla raccolta “Sguardi di donne”

                                                                          P.M.C.

Ricordando Alda Merini

 

download

Foto da web

 

Alda Merini nacque a Milano il 21 marzo del 1931, morì, sempre a Milano, il 1° novembre del 2009, esattamente dieci anni fa.

Desidero ricordarla con questo mio testo scritto poco tempo dopo la sua morte.
Sono passati gli anni, ma io credo che una donna come lei, che tanto ha sofferto, ma che da quella sofferenza ha fatto scaturire versi molto belli, e non soltanto versi, non si possa dimenticare.

Alda

Ti immagino qui, accanto a me,
la sigaretta tra le labbra,
lo sguardo diretto di chi non ha timore
perché conosce bene i morsi del dolore.

Mi guardi, non sai che ti conosco,
che ho letto tante volte i tuoi pensieri
e a lungo ho riflettuto sulla vita
di chi del pozzo ha conosciuto il fondo.

Ti vedo camminare lentamente
tra i tanti fogli bianchi che hai riempito,
tra mozziconi brevi a terra andati,
gettati lì dalla tua noncuranza.

Tu non vorresti parlare del passato,
di tutto ciò che a lungo ti ha ferito.
In fondo a cosa serve raccontare
a chi non conosce affatto quel dolore
profondo e insopportabile del cuore
e della mente, ma cerca di capire?

Io ti saluto, Alda, e ti rimpiango,
difficile scordare il tuo sorriso
a volte dolce a volte un po’ beffardo,
le tue movenze morbide e un po’ lente,
il tuo indagare lucidamente il mondo.

P.M.C.