Archivio | Maggio 2020

La spiaggia di Abarossa/Sassu

 

 

20200525_122943

 

La spiaggia di Abarossa, che a un certo punto prende il nome di Sassu, si trova all’interno del comune di Santa Giusta, a pochissimi chilometri da Oristano. In auto la si raggiunge in dieci minuti.
Il suo arenile è lungo quattro chilometri, una spiaggia dunque perfettamente adatta a chi, in questo periodo di “distanziamento sociale”, desidera fare un bagno, prendere il sole, e anche praticare alcuni sport acquatici in tutta tranquillità. C’è spazio per tutti, e naturalmente in sicurezza.
In questi giorni di fine maggio, ho potuto constatare che diverse persone hanno preferito questa spiaggia ad altre ugualmente vicine, come Torregrande e Arborea, per quanto dotate di un maggior numero di servizi.
E’ facile incontrare qui intere famiglie, ma anche coppie giovani e meno giovani, e persino qualche camperista; e poi parecchie persone che, in piacevole solitudine, decidono di scegliere questa località per fare corse o lunghe camminate, e poi, magari, un bel bagno rinfrescante.
Non mancano naturalmente i pescatori, e io non smetterò mai di stupirmi davanti alla loro pazienza e tenacia, capaci come sono di stare ad attendere per ore e ore.
Credo che il piacere non stia solo nella quantità di pesce pescato, che talvolta è piuttosto modesto, ma proprie in quelle lunghe attese, e nell’essere in compagnia del mare.
Devo ammetterlo, amo questa spiaggia da tanto tempo, nonostante venga da tutti considerata di gran lunga meno bella tra tutte quelle dell’oristanese, che certamente io stessa apprezzo molto.
Mi piace perché è una spiaggia “discreta”, non ha la pretesa di essere bellissima, però, proprio per il fatto che sia meno frequentata, permette ai più affezionati di apprezzarla ancora di più.
Quattro chilometri di arenile non sono pochi, ed è bello camminare lasciando a tutti il giusto spazio.
Si può infine assecondare anche il desiderio dei nostri cani di poter finalmente assaporare un po’ di libertà, costretti spesso in città a rimanere, durante le passeggiate, prigionieri del guinzaglio.
Persino i cani anziani come il mio, una volta liberi, sembrano ringiovanire, scatenandosi in lunghe e appassionate corse liberatorie.

Ora, di seguito, un po’ di fotografie scattate alcuni giorni fa.

 

20200525_123552    20200525_120917

20200525_120138    20200525_121136

20200525_121555    20200525_122240

20200525_124857    20200525_124856

Piera M. Chessa

Alicudi: l’isola senza automobili

 

IMG_1549

 

 

Cinque anni fa, nel settembre del 2015, trascorsi ad Alicudi una bellissima vacanza, ospite di cari amici. Una settimana di scoperte, di bellezza, di amicizia.
Alicudi è una delle isole più piccole che formano l’arcipelago delle Eolie, ed è la più occidentale.
Poco distante, si trova Filicudi, ed è così vicina da poterla vedere. Poi c’è Salina. Più a sud si trova Lipari, la maggiore, e Vulcano. A nord, invece, Panarea, la più piccola, e ancora più su, Stromboli.
Sette isole, una più bella dell’altra, e ognuna unica, con caratteristiche proprie.
Io ho conosciuto in particolare Alicudi, e ho avuto modo di visitare Lipari, il capoluogo.

Alicudi è stata abitata più tardi, rispetto alle altre isole dell’arcipelago, sembra infatti che i primi insediamenti risalgano all’Antica Età del Bronzo (1900-1600 avanti Cristo).
Nell’isola sono state trovate tracce di insediamenti relativi anche al periodo greco ( IV secolo avanti Cristo), di cui rimangono alcuni sarcofagi di lava e oggetti funerari, ma anche all’occupazione romana (252- 51 a. C.), lo dimostrano i frammenti di ceramica che sono stati rinvenuti.
E’ interessante l’attuale nome di Alicudi, l’antica Ericusa, che deriva dalla lingua greca e fa riferimento alla notevole quantità di erica presente sull’isola. Di origine araba è invece il nome, in dialetto siciliano, degli abitanti, che si chiamano Arcudari.
L’isola ha un’area di 5,2 km quadrati e raggiunge un’altitudine di 675 m. s. l.m. Dal punto di vista amministrativo appartiene a Lipari, comune della città metropolitana di Messina. E’ ben collegata con Milazzo tramite gli aliscafi, e nel periodo estivo anche con Palermo.

Incomincio col dire che quest’isola mi è piaciuta molto. Mi ha colpito la sua particolarità, il suo essere in qualche modo diversa dalle altre, unica.
Mi è stato detto, e credo sia vero, che quando arrivi sul posto puoi provare due soli sentimenti: te ne innamori, oppure non la sopporti proprio.
E’ inutile dire che io l’ho amata, e spero di poterci ancora ritornare.
La prima cosa che colpisce è il fatto che di tutte le isole dell’arcipelago sia l’unica nella quale non si può usare l’automobile. Le auto non circolano proprio. Vi è infatti un unico lungo tratto pianeggiante, ed è la via che costeggia il mare.
Per il resto si cammina in verticale, se la si vuole conoscere, lasciandosi catturare dai colori, i profumi, i luoghi e le atmosfere.
E per salire si devono affrontare una quantità infinita di gradini, o per meglio dire, di gradoni, perché sono piuttosto ampi. Ma ne vale la pena.
Si incomincia la salita di buona lena, ogni tanto bisogna fermarsi per riprendere fiato, poi si continua. Non ti sfiora neppure l’idea di tornare indietro e rinunciare, perché ogni cosa che vedi ti stupisce.
Si parte dal porto, dove bisogna fare una scelta, si possono infatti percorrere sentieri diversi che conducono verso luoghi dai nomi particolari: La tonna, Molino, Pianicello, Filo dell’Arpa, questo mi è piaciuto tanto, Montagna, Montagnola, Bazzina, e altri ancora, fino alla cima.
Vi sono due chiese sull’isola, la prima che si trova lungo il percorso è la chiesa del Carmine, era chiusa, è stato possibile vederla solo dall’esterno; l’altra è quella ottocentesca di San Bartolomeo, più conosciuta come chiesa di San Bartolo, che rimane ancora più in alto. Ritengo che entrambe vengano aperte soltanto per le celebrazioni religiose.
Essendo l’isola un vulcano spento, capita di trovare lungo la strada le caratteristiche rocce scure formatesi nel tempo con le colate di lava, assumendo via via delle forme molto particolari.
Sull’isola vi sono diversi borghi, alcuni abitati dalla gente del luogo, altri da piccole comunità inglesi o tedesche, che col tempo hanno poi acquistate le case disabitate decidendo di trascorrere lì lunghi periodi. Altri, tra questi dei pittori che si sono innamorati dei paesaggi, e che spesso li hanno riportati sulle loro tele, hanno deciso di stabilirsi lì in modo definitivo. Qualcuno ha scelto addirittura di essere sepolto nell’isola.
Il borgo abitato dalla piccola comunità inglese colpisce per la cura dei giardini che si intravedono oltre i cancelli delle abitazioni. Anche intorno a noi, fiori e piante di ogni genere colpiscono il nostro sguardo.
Nel corso delle passeggiate si possono incontrare dei muli. Sono loro che, in assenza di automobili, portano su nei vari abitati vettovaglie di ogni genere. Nel vederli, devo dirlo, a me hanno fatto pena, pur non sembrandomi particolarmente affaticati, abituati da sempre a portare sul dorso carichi spesso molto pesanti.
L’isola ora non è più molto abitata, i suoi abitanti sono meno di cento, ma si anima naturalmente con l’inizio della buona stagione grazie al turismo.
Io che sono arrivata ad Alicudi da turista non ho potuto fare certamente percorsi troppo difficili, ma c’è chi ritorna nell’isola tutte le estati, la conosce ormai in buona parte e percorre i sentieri e le strade in salita come se fosse nata lì. Le belle passeggiate che comunque ho potuto fare mi hanno permesso di vedere e apprezzare dei paesaggi che sono difficili da dimenticare, e che a distanza di qualche anno ricordo ancora perfettamente.
Per certi versi ho ritrovato ad Alicudi qualcosa in comune con la mia Sardegna. Vi sono infatti numerose piante di fichi d’India, sparse un po’ ovunque, e anche delle zone aride difficili da coltivare, eppure, anche lì crescono alcuni tipi di piante molto belle e ogni pezzetto di verde sembra sorridere. L’uomo si è abituato da tempo a fare dei piccoli grandi miracoli.
E poi, d’improvviso, mentre prosegui la salita, senti l’urgenza di fermarti. Sei magari in un punto abbastanza elevato, guardi sotto di te e vedi il mare, talvolta con il suo luccichio e i suoi colori, altre volte al tramonto quando il sole sembra volerti accecare. Ed è allora che ti convinci di essere nell’isola “che non c’è”.
Alicudi è anche terra di capperi. Quante piante intorno a noi, piccoli arbusti che donano vere e proprie delizie! Così buoni e dal gusto diverso rispetto a quelli che solitamente acquistiamo nei negozi. La gente del luogo, poi, è bravissima nel confezionarli, e anche nell’accettare quello che è un lavoro molto lungo e faticoso: la raccolta. Che viene fatta spesso sotto il sole.
Come in tutti i luoghi in cui si vive prevalentemente di turismo, anche ad Alicudi ci sono alcuni piccoli negozi in cui è facile trovare dei suggestivi oggetti fatti in maniera artigianale, da portare via al momento della partenza.
Anch’io ne ho acquistato alcuni, per regalarli e per tenerli per me. Così, quando avverto un pizzico di nostalgia, li vado a cercare.
Alicudi è in ugual misura un borgo di pescatori. Ovunque, sulla spiaggia, costituita non di sabbia ma di grossi ciottoli scuri dalla forma spesso rotonda, sono numerose e di tanti colori diversi le barche in attesa di essere portate al largo. Anche loro un simbolo di questo pezzo di terra vulcanica.
Una terra speciale, rude ma buona, capace di donarti tanto. A me rimangono, a distanza di tempo, i colori del suo mare, il grigio dei suoi gradini che sembrano dirti: ” Non avere paura di un po’ di fatica, lassù troverai tanta bellezza!”. E poi la particolarità delle case eoliche, così diverse dalle nostre, il profumo dei capperi, ma anche la bontà del pesce e di tante altre leccornìe, tutte preparate con passione e generosità dalla mia amica Anna.
Alicudi, l’antica Ericusa, che dei greci porta il ricordo anche nel nome, non si può dimenticare.
“Uno scoglio, il mio scoglio, la mia isola che non c’è”, ripete spesso una persona a me molto cara che lì è nata.
Con queste affettuose parole per la propria terra, voglio chiudere questo mio ricordo di “un’isola che per fortuna c’è”.

 

IMG_1337    IMG_1360

IMG_1408    IMG_1419

IMG_1434    IMG_1566

IMG_1588    IMG_1630

IMG_1636    IMG_1640

IMG_1660                     IMG_1672

Piera M. Chessa

Ezio Bosso: quando musica e vita coincidono

 

download

(Foto da web)

 

Ieri se n’è andato un uomo speciale, un musicista straordinario: Ezio Bosso. Aveva soltanto quarantotto anni.
L’ho saputo per puro caso e non volevo crederci, pur sapendo che purtroppo era tutto vero.
Conoscevamo Ezio relativamente da poco tempo, pur essendo così straordinariamente bravo, sia come pianista che come direttore d’orchestra, inizialmente non era certamente conosciuto come avrebbe meritato.
E’ stato il palco del Festival di Sanremo, qualche tempo fa, a dargli notorietà. Ed è stato da quel momento che noi tutti, amanti della musica, ma non solo, abbiamo incominciato ad apprezzarlo e amarlo.
Perché noi, a un uomo e a un artista come Ezio Bosso abbiamo voluto bene. E gli abbiamo voluto bene perché ci è venuto naturale provare un sentimento bello, era uno che si conquistava senza fatica l’apprezzamento degli altri.
Era autentico, se stesso sempre, amabile e ironico. Uno che non indossava maschere, che mostrava i propri sentimenti, che credeva fermamente che la musica potesse unire le persone.
Era un uomo libero, sebbene il corpo lo avesse tradito, ma lui ha continuato a volare, fino alla fine.
Che piacere ascoltarlo mentre suonava il pianoforte, e osservarlo mentre dirigeva i suoi orchestrali!
Libero nell’ascoltare dentro di sè quel dono meraviglioso che è la musica, e poi la sua capacità nel condividerla faceva il resto. Che bellezza!
Era bello anche sentirlo parlare. Quanta fatica nell’esprimere un pensiero o un’emozione, eppure, con quanta forza quel suo sentire, quel suo sguardo ampio sul mondo, arrivava diretto e potente al cuore di chi lo ascoltava!
Ha sofferto molto, in questo periodo di quarantena dovuto alla pandemia. Gli mancavano gli amici, i suoi musicisti, desiderava tanto poterli incontrare. E aspettava con impazienza il giorno in cui finalmente sarebbe potuto uscire.
Bastava poco, veramente poco. E’ andato via prima.
A noi rimane un enorme rimpianto, un vuoto immenso, perché il suo mondo era immenso. In lui musica e vita coincidevano, la musica era la sua vita.
Ci rimarrà il ricordo di un uomo straordinario, il suo sorriso, la passione, il coraggio, il suo non arrendersi mai davanti alla malattia.
Lei lo ha fermato, ma sarà la sua musica ad andare ancora molto lontano.

Piera M. Chessa

Il rientro in Italia di Silvia Romano

 

images

(foto da web)

 

Sono trascorsi soltanto alcuni giorni dal rientro in Italia di Silvia Romano, eppure, in questo breve lasso di tempo è successo di tutto.
Questa giovane donna, poco più di una ragazza, ha trascorso diciotto mesi di prigionia in Somalia, dove è stata portata dopo il suo rapimento avvenuto in Kenya il 20 novembre del 2018, stato in cui lei faceva la cooperante per la Ong marchigiana “Africa Milele”. Una ragazza dunque che voleva, in prima persona, fare qualcosa di bello e di costruttivo per i più fragili e meno fortunati.
Ma le cose non sono andate come dovevano, e Silvia è finita, senza neppure tanta fatica, nelle mani di un gruppo di jihadisti somali di al Shabaab, legati ad al Qaeda.
Diciotto mesi di sofferenza di cui non sapremo mai tutto, ma solo ciò che lei e gli inquirenti vorranno o potranno farci sapere.
Doveva essere un ritorno liberatorio, sereno, il ricongiungimento desiderato e sperato con i propri cari. Abbiamo visto, felici, il suo primo sorriso, ma anche un viso provato; ci siamo sentiti per un po’ quasi parte della sua famiglia, madri, padri, sorelle o fratelli, abbiamo provato veramente affetto per questa ragazza che non conoscevamo.
Molti di noi, per fortuna, provano ancora lo stesso sentimento, e sperano per lei un futuro sereno.
Ma non per tutti, purtroppo, è così. Dopo poche ore dall’arrivo di Silvia in Italia, la gioia per il suo rientro a casa si è via via attenuata fino ad assumere colori sempre più scuri e neri.
I colori del pregiudizio, della cattiveria, della chiacchiera facile, del non rispetto per scelte che devono essere libere, se di scelte si tratta, decisioni che devono essere prese in piena libertà. Ma questo si vedrà solo in seguito. Entrare nella vita privata di una persona, che ha appena assaporato il sapore delicato e ugualmente intenso del sentirsi liberi, è violenza, una violenza che nasce dall’incapacità di capire che non esiste una sola verità. Comportamenti e convinzioni che devastano e uccidono anche i momenti più belli.
Abbiamo letto e sentito tutti dei commenti, delle parole che mai avremmo voluto udire. Nei tempi difficili in cui viviamo, pensavamo di aver visto ormai di tutto, ma non è andata così.
E’ inutile raccontare ancora cose che conosciamo, giornali, televisione e social ci aggiornano di ora in ora, andremo avanti per giorni; l’informazione è una cosa giusta, ma ogni volta ci sentiremo un po’ più amareggiati e ancora più indignati.
Siamo una nazione civile, un popolo civile, la maggior parte di noi lo è, ma dove vogliamo arrivare, siamo scesi già fin troppo in basso , ancora più in basso?
Io spero che Silvia Romano trovi la sua strada, quella giusta per lei, e che la sappia percorrere lontana dalle prigioni costruite dagli altri, sentendosi soprattutto libera dentro di sè.
Tutto il resto bisogna lasciarlo, e lo facciamo volentieri, alle persone che delle parole fanno un uso vergognoso a causa dei loro preconcetti e delle loro meschinità.
A me piace ricordare ancora quanto le parole possano essere belle, lo sono quelle che non feriscono, che sanno lenire il dolore, che sanno incoraggiare. Quelle che sappiamo usare nel quotidiano, e che vengono nutrite dal rispetto che dobbiamo avere sempre verso gli altri.

Piera M. Chessa

Candide sorelle

 

20200313_130041

 

Crescono timide
le umili margherite
prima di stringersi
in un candido abbraccio.

Occupano ampi spazi
tra l’erba tenera e fresca
e sembra di sentirle
chiacchierare piano.

Un’esplosione di bianco e giallo
sotto l’azzurro del cielo,
un brusio appena avvertito
soltanto se, leggero, si alza il vento.

Piera M. Chessa

Mistràl, di Alessandro Melis

 

 

20200118_165128

 

 

Quest’isola è un fossile di mare,
la rotta, perduta,
era forse verticale:
ma del viaggio
rimane solo il vento, senza vele.

Spira da sempre
questo profumo candido di sale,
e l’umido sanguigno delle bacche
misto al marcio
fecondo delle posidonie.
Tutto nasce già carico di secoli,
tutto s’abbruna,
perché il colore è un parco lusso
di pochi giorni:
fiamme di papavero
e piccoli grumi gialli di ginestre.

Ma solo l’aspro della pietra è vero,
il disperato radicarsi del lentisco,
il basalto grezzo dei nuraghi.

E su tutto
la ruggine dolce dei licheni.

 

Alessandro Melis

Una donna impegnativa

 

download

(foto da web)

 

Morena non era una cattiva donna, ma certamente non era neppure di quelle che viene da prendere come esempio per amabilità o coerenza. Non era amabile, e quanto a coerenza aveva ancora un bel po’ di cammino da fare. In una cosa eccelleva: era capace di parlare per ore di se stessa, vantando le proprie attitudini, senza mai aspettare che qualcuno le evidenziasse al suo posto.
In fondo era un po’ buffa, e non vedeva che gli altri si prediponevano con buona volontà ad ascoltare i suoi interminabili monologhi, cercando di nascondere gli inevitabili  sbadigli.
Abitava in un piccolo centro vicino a Bologna, dove  si era trasferita con suo marito, anche lui abbruzzese, tanti anni addietro.
Morena non era bella, aveva dei tratti somatici un po’ forti, era scura di occhi e di carnagione, aveva però dei bellissimi capelli neri, lucenti e sempre ben curati. Avrebbe dovuto mettersi un po’ a dieta, dal momento che faceva una vita sedentaria, ma essendo pigra, di questo non voleva neppure sentir parlare; amava troppo la buona tavola, e per dimagrire, si sa, ci vuole costanza ed esercizio fisico. A lei tuttavia non interessava avere “qualche chilo in più”, e come spesso diceva, a parte gli anni, “era sempre la stessa”. Ma non era vero, i chili in più erano diversi, gli anni erano trascorsi velocemente, e lei era notevolmente cambiata. Il fatto è che vedeva se stessa con un occhio speciale, decisamente diverso da quello degli altri.

Ilaria l’aveva conosciuta quando, nel palazzo in cui abitava ormai da tanti anni, proprio sul suo stesso piano, era stato venduto un appartamento, dove per molto tempo era vissuta una coppia con la quale lei aveva costruito un rapporto di vera amicizia. Per motivi di lavoro poi entrambi si erano dovuti trasferire nella vicina Bologna.
Fu così che Morena, sia pure in modo indiretto, entrò a far parte della sua vita.
Inizialmente Ilaria, dispiaciuta per la partenza degli amici, non ebbe molta voglia di approfondire nuove conoscenze, per cui, pur mantenendo rapporti di correttezza, non fece molto per frequentare in modo più assiduo i nuovi vicini di casa.
Conobbe prima di tutto il marito, una persona dall’aspetto distinto, un po’ timido, dal sorriso cordiale. Fu lui a presentarsi un giorno mentre entrambi entravano in ascensore. Come sempre accade tra sconosciuti in queste circostanze, fu Osvaldo a chiederle in che piano dovesse fermarsi.
“Io al terzo, lei?”
“Anch’io”, disse lui un po’ stupito, per poi aggiungere:”Tra qualche giorno anche noi verremo ad abitare in questo palazzo, proprio nell’appartamento sfitto del terzo piano. Faremo il trasloco nel prossimo fine settimana. Io sono Osvaldo, mia moglie si chiama Morena, abbiamo due ragazzi. Siamo venuti già diverse volte, ma si sa, d’estate con le ferie anche i palazzi si spopolano.”
“Sì, effettivamente non vi ho mai incontrato, anch’io ero in ferie, sono rientrata ieri”, rispose Ilaria, poi aggiunse:” Ben arrivati, allora!”. Si salutarono sulla porta delle rispettive case.
Osvaldo le fece subito una buona impressione, e non si sbagliò. Era quel che talvolta si dice “un pezzo di pane”, di una bontà unica, disponibile sempre, solo le parve da subito un po’ malinconico, senza neppure capire il perché. Anche quando sorrideva.
Come lui aveva detto, la settimana successiva avvenne il trasloco. In realtà qualcosa nell’appartamento era già stato portato, alcuni mobili, diverse scatole colme di oggetti, delle bellissime piante… Ma fu dal venerdì sera alla domenica che il trasloco vero e proprio venne effettuato.

E fu in quell’occasione che Ilaria conobbe Morena.
Avendo già conosciuto il marito, tutto si aspettava tranne che di trovarsi davanti una donna che già ad una prima impressione le parve esattamente l’opposto rispetto a lui. Come il giorno con la notte, o se si preferisce, la luce rispetto al buio.
Era un vero terremoto, chiassosa, andava su e giù camminando su due tacchi alti con un ticchettio fastidioso che penetrava nelle orecchie. E poi quel tono di voce, così alto e poco armonioso!
Quel sabato mattina Ilaria uscì piuttosto presto per andare a fare alcune compere, proprio mentre si accingeva a chiudere la porta di casa sentì alle sue spalle una voce di donna che la chiamava. Gentilmente si voltò, ma non fece in tempo ad aprire bocca che Morena già si presentava. “Buongiorno, mi chiamo Morena, sono la sua vicina, come avrà intuito, in questi giorni io e la mia famiglia stiamo traslocando. Abbiamo cercato di disturbare il meno possibile, ma sicuramente mi capisce, un trasloco è un trasloco!” Lei come si chiama?”
Ilaria, sconcertata e anche un po’ infastidita, rispose:” Mi chiamo Ilaria. Ora, se non le dispiace, devo andar via, ho diverse cose da fare, mi scusi,  buona giornata”.
Certamente in quel momento non poteva immaginare che la sua esistenza, e non solo la sua, sarebbe stata messa presto a dura prova.
Il trasloco infatti non durò soltanto dal venerdì sera alla domenica, ma andò avanti ancora per diversi giorni , durante i quali Morena si diede da fare per rendere la vita difficile agli operai che li aiutavano, e a Osvaldo, che rosso in viso per il caldo estivo cercava in tutti i modi di fare da intermediario tra moglie e operai, disperando di riuscirvi.
Morena infatti non era mai soddisfatta, ogni cosa doveva essere fatta secondo le sue direttive, nulla poteva essere lasciato al caso, quel mobile doveva essere posizionato esattamente lì, e non di un millimetro più indietro o avanti, i televisori dovevano occupare quel posto specifico, nè un pochino più in qua nè un millimetro più in là. Per non parlare di Osvaldo, che lei rimproverava continuamente per non aver fatto quello invece di questo.
“Devi seguire gli operai più da vicino, se non li tieni col fiato sul collo non fanno le cose come devono essere fatte, li paghiamo per questo, no?”
E al povero Osvaldo non rimaneva altro da fare che assentire, mentre le gocce di sudore gli cadevano dalla fronte prima sul collo e poi sulla camicia aperta. E non era soltanto lui a dover pazientare fino allo sfinimento, ma più volte ne fecero le spese anche i loro ragazzi.
Avevano due nomi poco diffusi, il più grande, forse sui sedici anni, si chiamava Amedeo, il secondo, di poco più piccolo, Ares. Amedeo somigliava molto alla mamma, aveva gli occhi e i capelli scuri come lei, ma era alto e snello come il padre, mentre il temperamento, seppure meno accentuato in alcuni tratti, era quello della madre. Ares, al contrario, era assolutamente identico a Osvaldo, distinto negli atteggiamenti, anche lui piuttosto timido, ma col sorriso sempre pronto.
Più volte, durante il trasloco, Amedeo si scontrò con sua madre, in certi momenti sentiva proprio di non sopportarla, non ne tollerava il tono autoritario, quel suo modo di dare sempre ordini, e anche consigli, soprattutto se non richiesti. Lo infastidivano  soprattutto certi atteggiamenti che quotidianamente aveva con suo padre, così paziente e sempre pronto a perdonarla.
Anche Ares pagava il suo prezzo, lui non osava mai mettersi contro la madre, troppo intelligente, capiva che non l’avrebbe spuntata. Temeva i suoi attacchi d’ira, il suo temperamento sanguigno, ancora troppo piccolo per riuscire ad opporsi, aveva paura persino del suo sguardo, che a lui, poco più che bambino, sembrava minaccioso.
Fu in questo contesto che il famoso trasloco fu portato a termine.

E fu soltanto allora che Morena finalmente riuscì a sorridere. Perché lei era fatta così, si arrabbiava tanto per ogni sciocchezza, e con la stessa facilità cambiava umore.
Era in fondo una bambina, da sempre troppo coccolata, viziata e mai contraddetta.
Ilaria, abitando di fronte, ebbe modo di conoscere a fondo la quotidianità della famiglia De Dominicis.
“Povero marito, e poveri ragazzi”, diceva a se stessa, “come fanno a convivere con una donna così!”
Eppure Morena aveva anche delle buone qualità nei momenti cosiddetti “buoni”, termine usato spesso e in modo appropriato dal marito, talvolta sapeva essere anche  simpatica. Era una discreta affabulatrice, capace di raccontare aneddoti e barzellette con ironia; era inoltre brava nel preparare torte e dolci di ogni genere Anche con i ragazzi riusciva ad entrare in sintonia, manifestando loro il suo affetto con coccole e baci.
Ma bastava un nonnulla perché l’idillio di un momento si trasformasse in interminabili discussioni. La medesima cosa avveniva con suo marito, passava da un bacio appassionato a un attacco d’ira incontenibile, era sufficiente essere contraddetta su qualcosa perché le saltassero i nervi. Momenti questi conosciuti bene dalla stessa Ilaria, che aveva la fortuna di condividere con lei il pianerottolo e di avere le verande vicine.
Osvaldo faceva esercizio di resilienza quotidianamente, ubbidiva senza reagire mai, accettando tutto. Quando talvolta la sua pazienza era ormai agli sgoccioli, provava timidamente ad opporsi alle sue assurde richieste, ma bastava uno sguardo perché il suo tentativo andasse in frantumi.

Gli anni passarono, e capitava che Ilaria e Morena si ritrovassero talvolta a scambiare qualche parola quando, nelle rispettive verande, erano intende a stendere la biancheria o ad innaffiare i fiori.
Ilaria non aveva in realtà voluto approfondire più di tanto la loro conoscenza, non apprezzava le persone poco discrete, quelle che parlano tanto, che vogliono sapere tutto di tutti. E poi era sempre stata una donna troppo libera per poter accettare imposizioni. Viveva da sola, dopo un matrimonio burrascoso finito male. Lui, troppo possessivo e geloso, lei, troppo aperta: impossibile andare avanti insieme.
Figuriamoci se voleva diventare lo zerbino di una vicina di casa così particolare!
E fu proprio in un giorno bellissimo di primavera, si era in giugno, che Morena, dalla sua veranda, vide Ilaria che innaffiava i fiori.
La chiamò per la prima volta con un tono di voce molto basso, lo sguardo malinconico e il viso arrossato. Poi la chiamò una seconda volta.
Ilaria stavolta la sentì, e stupita si protese il più possibile verso di lei. Aveva davanti a sè una donna che riconosceva con fatica; si disse che doveva essere successo qualcosa di molto grave nell’appartamento dei De Dominicis. Non dovette attendere a lungo.
Con poche parole pronunciate così piano da sentirsi a malapena, Morena le disse semplicemente: “Osvaldo se n’è andato, mi ha lasciato senza darmi nessuna spiegazione. Ma io non ne ho bisogno, ho capito da sola il perché: non mi sopportava più.”.

 

(Dalla raccolta “Sguardi di donne”)

Piera M. Chessa

Tra timore e speranza

 

20200501_075159

 

 

Una strana domenica questa che viviamo, persino il cielo appare un po’ strano, stamattina. Colori indecisi, come pure il tempo, ci si sente quasi in uno stato di sospensione.
Eppure questa sensazione non è legata al tempo ma, credo, all’incertezza, e bisogna dirlo, anche a un certo timore: dopo tanto tempo, domani qualcosa cambierà. Da quanto desideriamo questo cambiamento, e da quanto lo aspettiamo!
Stare in casa ci ha fatto sentire quasi prigionieri, e ora che possiamo, quasi ci viene da rintanarci ancora in questo nido che fino a oggi ci è sembrato stretto.Ci sentiamo frenati, ci manca la sicurezza che tutto vada bene, l’unica cosa certa è che sappiamo di poter contare solo su noi stessi, sulla nostra capacità di reazione e di adattamento a una nuova situazione, sapendo che non possiamo e non dobbiamo in nessun modo smettere di rispettare quelle regole fondamentali che oggi tutti conosciamo bene, sperando naturalmente che ogni singolo cittadino si impegni a rispettarle.

Domani però, al di là delle nostre paure individuali, ci sarà finalmente la tanto attesa “ripartenza”. Aziende e cantieri apriranno nuovamente i loro cancelli. Sarà tuttavia un ritorno graduale, si recheranno infatti al lavoro “soltanto” quattro milioni e mezzo di lavoratori. Certamente sono ancora tante le categorie che non rientreranno in questa parziale apertura, ed è difficile immaginare pienamente la delusione e la preoccupazione per il futuro di tanti cittadini, però non mi sento neppure di andare addosso a nessuno con critiche che spesso sono dettate da risentimento e desiderio di stare sempre al centro della scena.

Stiamo incominciando un percorso a dir poco difficilissimo, io non credo che nessuna persona seria possa in questo momento fare nessun scelta a cuor leggero, credo che si debba prendere giustamente delle decisioni, ma anche essere prudenti. Nessuno sa con certezza niente di quel che nelle prossime settimane potrà succedere, buona parte dipenderà dal senso di responsabilità individuale, dalla maturità di un intero popolo.
All’interno di un’azienda o di un cantiere, tutto può essere stato predisposto nel migliore dei modi, con la maggiore accuratezza possibile, ma se a livello individuale saremo superficiali, approssimativi, arroganti, pensando di poter decidere liberamente, credo che il rischio di annullare  ciò che è stato precedentemente raggiunto sarà altissimo.
I prossimi giorni ci faranno capire se siamo stati responsabili, o al contrario, se abbiamo intrapreso un pericoloso percorso a ritroso.

Io, come dicevo prima, non nascondo la mia preoccupazione per questa ripartenza, a livello individuale, ma anche e soprattutto come cittadina di un Paese che amo e che voglio rivedere in ripresa; nello stesso tempo, però, sento che possiamo farcela, non voglio pensare che il nostro Paese non sia capace anche di costruire tempi nuovi, con la convinzione che una epidemia, si è detto innumerevoli volte in questo periodo, può essere sconfitta solo con il contributo di tutti.
E allora crediamoci in questa difficile ma possibile ripresa, non dimentichiamoci, i nostri vecchi le ricordano ancora, le macerie del dopoguerra, e parlo di macerie nel senso più ampio del termine, eppure le generazioni che ci hanno preceduto si sono rialzate, con grande fatica ma ce l’hanno fatta. Noi, che non stiamo comunque combattendo una guerra, figli e nipoti di quelle generazioni coraggiose, dobbiamo farcela.

Piera M. Chessa

Un “Primo Maggio” diverso dal solito

 

download

Giuseppe Pellizza da Volpedo: “Il Quarto Stato”

(foto da web)

 

E’ un giorno particolare, anomalo, quello che stiamo vivendo, un Primo Maggio che non dimenticheremo facilmente.
Le strade oggi sono e saranno silenziose fino a sera, non ci sarà nè musica nè allegria, come da anni invece avviene nelle nostre vite.
Il periodo, anch’esso anomalo, che stiamo vivendo non lo permette, anche se a breve, si spera, ci saranno dei graduali cambiamenti.
Eppure oggi in tutti noi, nonostante tutto, la festa del 1° Maggio occuperà comunque un posto di riguardo, come sempre. Senza canti, manifestazioni, incontri tra amici, senza il piacere di stringerci la mano, e perché no, di abbracciarci, chiedendoci magari:”Come stai? Tutto bene? E’ da un po’ che non ci vediamo!”
Sì, è da un po’ che non ci vediamo, care amiche e amici, ma ci incontreremo di nuovo in qualche modo, a breve, magari un po’ a distanza, per raccontarci di noi, e della nostra lunga quarantena.
Però il 1° Maggio ci fa sentire comunque vicini, perché sono le idee comuni, lo stesso sguardo sul mondo, a cementare le vicinanze e le amicizie.
Non scordiamo tuttavia che questo è un giorno di incontro, di festa, ma anche di ricordo.
Non dimentichiamo le grandi lotte del passato, di quello anche molto lontano da noi, le conquiste importanti, affinché i lavoratori, tutte le categorie sociali, possano sempre vedere riconosciuti i loro diritti fondamentali. Diritti che in parte sono stati acquisiti, ma che non lo sono sempre per tutti, e per i quali si deve continuare a lottare.
E allora accettiamo di trascorrere questo giorno così importante con i limiti che purtroppo ci vengono richiesti, si concluderà anche questo incredibile periodo.
Quel che non deve passare è la negazione di diritti che sappiamo giusti, e che spettano a tutti, nessuno escluso.
Buon Primo Maggio ai lavoratori, così provati dalle difficoltà di questi mesi difficili, e giustamente spaventati da un futuro purtroppo estremamente incerto.
Un augurio a tutti noi, cittadini di un’Italia ferita e privata delle due cose più importanti: la salute e il lavoro, con la speranza, i sogni talvolta si realizzano, che veramente incominci un nuovo periodo di Rinascita, e che comprenda in sè, come si diceva prima, la salute e il lavoro, senza dimenticare però che tutto diventa più complicato nella realizzazione dei progetti se mancano altre due cose altrettanto prioritarie, che hanno nomi abbastanza semplici ma profondamente densi di contenuto: la solidarietà e la giustizia.
Ricordiamo sempre che uno Stato è costituito da persone, e la ricchezza più grande, per ogni singola persona, è la dignità. E la dignità si spegne se non c’è lavoro, e dunque, se non c’è giustizia sociale.

Piera M. Chessa