Archivio | giugno 2020

Le domus de Janas (Le case delle fate), tra leggenda e realtà

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La necropoli di Ludurru, presso Buddusò (SS)

(foto da web)

Le Janas, secondo la tradizione popolare sarda, erano delle fate piccolissime, molto più piccole degli umani, e vivevano in minuscole case scavate nella roccia.
Non sempre erano delle fate buone, anzi, avevano fama di essere lunatiche e capricciose. Un po’ fate e un po’ streghe, insomma, e anche piuttosto birichine. Le si può, in qualche modo, associare agli elfi, molto più conosciuti. Venivano talvolta considerate come degli esseri che stavano nel mezzo tra il mondo degli umani e quello delle divinità.
Si narrava che, all’interno delle piccolissime case, trascorressero il loro tempo tessendo sui loro magnifici telai d’oro.

 

****

 

Domus de Janas

 

Stanno
le case delle fate
nei campi verdi e soleggiati.
L’ingresso buio e misterioso
è un velo sollevato
su vite già vissute.

Tessono sempre
le fate silenziose
sui telai d’oro
lucenti come soli.

Poi, quando arriva
il momento del distacco,
abbandonato il corpo
morbido e sinuoso,
si trasformano in pietre.

Sentinelle guardinghe,
ridono
nel buio delle stanze,
scrutando il mondo intorno
e l’inutile affanno
degli uomini.

****

Al di là delle leggende, sempre molto suggestive, la verità è abbastanza diversa.
Le Domus de Janas erano in realtà delle tombe preistoriche scavate nella roccia più di cinquemila anni fa.
Talvolta erano effettivamente piccole, altre invece costituite da più ambienti. Spesso venivano scavate le une accanto alle altre, formando delle necropoli anche molto ampie. Le pareti venivano talvolta decorate con motivi stilizzati o simboli, ma anche con disegni geometrici o rappresentanti delle divinità. Tra queste quelle più venerate erano il Dio Toro e la Dea Madre.
Nel tempo, all’interno dei vari ambienti, sono stati trovati diversi oggetti che costituivano il corredo funerario del defunto. Come presso altre civiltà, si pensava infatti che dopo la morte incominciasse una nuova vita.
La Sardegna è disseminata di Domus de Janas, ve ne sono diverse in tutte le province. Alcune sono particolarmente frequentate dai turisti, che rimangono positivamente colpiti dalle spiegazioni fornite dalle guide locali, come spesso avviene anche durante le visite ai nuraghi.

Voglio, in breve, dire alcune cose almeno su due di esse.
La prima è la Domus de Janas di Ludurru. Si trova presso Buddusò, poco distante da Pattada, il paese in provincia di Sassari in cui sono nata, ed è una necropoli appartenente al Neolitico finale (3200-2800 a. C.).
E’ scavata nel granito, essendo Buddusò una terra particolarmente ricca di questo tipo di roccia, una pietra nobile e bella che viene abilmente lavorata, e che ha permesso al paese di essere conosciuto non solo all’interno dell’isola ma anche fuori.
La particolarità di questa necropoli sta proprio nel fatto che sia stata scavata in questa pietra dura, mentre solitamente le Domus venivano scavate nel calcare, molto più facile da modellare.
La seconda è la necropoli prenuragica di Sant’Andrea Prius. Si trova in una zona pianeggiante a circa dieci chilometri da Bonorva, in provincia di Sassari, presso una chiesetta campestre dedicata a Santa Lucia.
La necropoli è costituita da venti domus de janas, e risale al IV-III millennio a.C. Fu riutilizzata per lungo tempo anche durante il periodo romano e bizantino.
Una parte, la cosiddetta “Tomba del Capo”, al tempo delle persecuzioni venne poi trasformata in una chiesa rupestre. Più tardi venne affrescata con scene tratte dal Nuovo Testamento.
La chiesa fu dedicata a Sant’Andrea. Per questo motivo anche il sito prese il nome del Santo.

Una storia antica di millenni, quella sarda, come è antichissima l’isola, che conserva con passione e amore le tante leggende che di generazione in generazione sono state tramandate, e nello stesso tempo cura con rigore e competenza la sua storia.
Una storia alla quale i turisti sembrano oggi più interessati rispetto al passato, più curiosi e propensi ad approfondirla.
Io sono da sempre convinta che, per poter conoscere almeno un po’ i luoghi che desideriamo visitare, sia  opportuno dedicare un pochino del nostro tempo anche alla loro storia.

 

Sant 'Andrea Prius           bonorva_ss_necropoli_di_sant_andrea_priu_86_0

                        La necropoli di Sant’Andrea Prius, presso Bonorva (SS)

(foto da web)

Piera M. Chessa

 

 

I tuoi occhi neri

 

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(foto da web)

 

Lacrime amare
sul tuo viso minuto,
uno sguardo smarrito,
i tuoi occhi neri
mi colpiscono al cuore.
Ti aggiri spaesata
trascinando con fatica
i tuoi sei anni violati,
i brutti ricordi
per pochi istanti allontanati.

Trascorrono i giorni
e coprono le ore scure
del tuo breve passato.
Non parli né racconti,
solo un viso di madre
a volte affiora labile
da qualche parola pronunciata
stringendo la mia mano.

Un nome,
un sentimento ancora vivo,
talvolta il pianto
che riconduce lontano
da chi non seppe darti
quello che tu
chiedevi invano.

(Dalla raccolta “Un ordinato groviglio”, Casa Editrice Il Filo)

Piera M. Chessa

Il cerchio infinito, di Renzo Montagnoli, Edizioni Il Foglio

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Già da diversi anni conservo con cura tra i miei libri una bella silloge il cui titolo è Il cerchio infinito, di Renzo Montagnoli.
Questa raccolta di poesie si apre con una breve ma utile introduzione dell’autore, e con una altrettanto breve ma interessante prefazione di Fabrizio Manini.
Mi piace incominciare questa mia riflessione proprio riportando le parole dello stesso poeta, perché trovo in esse il senso e il fine dell’intera raccolta.
“La vita, nel suo mistero, il tempo, nella sua incertezza, la distanza, nella sua imperfezione, sono il tema di questa silloge.
E’ un tema unico, perché nell’universo tutto è infinito e nulla è lasciato al caso: il tempo, lo spazio, e, lasciatemelo credere, anche la vita.
Se esiste l’anima, scintilla che fa scoccare l’esistenza, questa non può finire con il corpo e quindi è eterna.
E’ una teoria, un sogno, ma anche io sono un uomo e non sfuggo alla logica di ridurre alla mia piccola dimensione la risposta alle domande fondamentali.”

Ecco, in questa interessante e profonda riflessione è racchiuso lo sguardo del poeta aperto su quel mondo che comprende in sè l’esistenza di ogni singolo uomo, ma anche  ogni altra forma di vita. Quell’esistenza che a noi talvolta appare quasi priva di uno scopo, tanto è vero che ci si sente spesso in balìa del caso, e fragili come fili d’erba.
Ma avviene davvero tutto per caso quello che ci succede? Perché altre volte invece  ci sembra che avvenga esattamente il contrario, e cioè che in tanto disordine esistenziale in fondo ci sia un ordine che probabilmente non appartiene a noi?
E’ una percezione questa che abbiamo in alcuni momenti della nostra vita, e spesso  quando si è arrivati a quell’età in cui dovremmo essere più saggi. Quando il pensiero incomincia a mettere in ordine tutte le tessere di quel puzzle che è la nostra esistenza.
A me sembra di ritrovare un po’ queste riflessioni nelle poesie che compongono questa bella raccolta.

Il primo testo si intitola Il cerchio infinito, esattamente come la silloge, e naturalmente non è un caso.
“Un cerchio infinito
di albe e tramonti,
di nascite e di perdite,
in cui tutto mai termina.
E’ già il buio e poi sarà la luce
fra atomi erranti
in un tempo senza fine,
in una catena di indissolubili destini,
dove resta la polvere di anime spoglie,
soffi di vita ritornati nell’eternità.”

Anche nel testo Il respiro dell’universo ritroviamo, in forma diversa, gli stessi concetti. Una tensione continua verso l’infinito, dove tutto, si immagina, prenderà la giusta forma.
“Muscoli che si tendono
mani che si aprono
il respiro che si avvia.
E’ la vita corporea
la nuova casa dell’anima
che un giorno fuggirà
per tornare a nuova materia.
L’eterno è il suo regno.
Il tempo finito è la sua grazia.
Lei,
che dà la vita,
è il respiro dell’universo.”

E’ presente spesso nelle poesie di Renzo anche la natura, in tutte le sue meravigliose forme, come nel testo Il glicine .
“Quasi contorto nel freddo
s’aggrappa ancora alla vita
tronco rugoso orbo di foglie
avvinghiato all’umida ringhiera
sfida il vento d’inverno
sperando in un’altra primavera.”

Nella poesia La cometa l’autore continua a guardare verso l’alto, ma questa volta per seguire il cammino di una magnifica stella.
“Una luce fugge nel cielo di notte
un arcano mistero solca l’universo
veloce si muove in un cerchio infinito
corre senza posa in un’eterna fatica
le sue strade son lastricate di stelle
la sua meta è rincorrere se stessa
in un corrosivo cosmico affanno.
E quando rapida scompare ai nostri occhi
lascia uno sciame di sogni svaniti.”

Non manca neppure il dialogo con se stessi, come in Anima mia, dove si è in compagnia di qualcuno o di qualcosa che con noi ha diviso gioie e pene.
“Un amore il nostro senza limiti
sempre a correre per mano
o a sonnecchiare su pensieri astrusi.
Ora il tempo s’è rallentato,
come foglie in autunno
le speranze son cadute
i giorni lunghi son di un inverno
senza primavera.
Anima mia,
stammi accanto un poco ancora
accompagnami per mano
fino al buio della notte
fa che ogni minuto
sia stato degno d’essere vissuto.”

In Oltre la logica l’autore continua, con lucida consapevolezza, a porsi le stesse faticose domande alle quali, in modo definitivo, mai potremo dare delle risposte.
“Nulla è più certo
di quel che di incerto
presiede a ogni cosa.
Non siamo che atomi
di un sistema
che sfugge a ogni logica
i microscopici tasselli
di un ordine ignoto
umili parti di un disegno
troppo immenso
per esser capito.”

In Pubertà, infine, si rivolge a un bambino, forse il nipotino, per il quale trova parole di tenerezza, affetto e incoraggiamento a volare verso l’alto.
“Nella luce della tua primavera
sei un piccolo fiore
che s’apre alla vita.
Si scioglie ogni timore
resta solo il desiderio
di provare l’amore.
Corri veloce
cadi e ti rialzi
tutto è permesso
nulla è vietato.
Vai fin che puoi
vola
insegui le stelle.”

Una raccolta densa, poeticamente bella, testi che si leggono condividendone il messaggio, malinconico, certamente, ma perché scaturito da una riflessione lucida e consapevole, che non esclude tuttavia il desiderio di vivere la vita in modo pieno e perché no, anche appagante.

Piera M. Chessa

 

Il disertore, di Giuseppe Dessì, prefazione di Sandro Maxia, Nuoro Ilisso

 

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In questi ultimi giorni ho letto “Il disertore“, un libro di appena centotrentaquattro pagine, di cui una parte destinata alla bella e interessante prefazione del professor Sandro Maxia.
Un libretto dunque, ma dal respiro così ampio che, quando si arriva all’ultima pagina, si vorrebbe velocemente ritornare indietro per gustarlo ancora, vedere se qualcosa è sfuggito alla nostra attenzione; magari un particolare non messo a fuoco, una caratteristica di uno dei protagonisti, o anche semplicemente un termine al quale non è stata data la giusta importanza. Ma andiamo con ordine.

Lessi già una prima volta questo libro, tanti anni addietro, quando ero giovane. Ora, a distanza di alcuni decenni, ho sentito il bisogno di riprenderlo in mano, come ho già fatto con altri, per rileggerlo in un’età che probabilmente sa comprendere meglio quello che un autore intende dire quando si accinge a raccontare una storia.
Ebbene, anche questo è stato una nuova scoperta. Ritengo infatti di averlo oggi apprezzato e capito meglio in tutti i suoi risvolti psicologici.
Prima di tutto ho letto la prefazione, cosa che di solito faccio a lettura ultimata. Sentivo che in questo caso era importante e poteva tornarmi utile per capire meglio la storia.
Il professor Maxia ha fatto un’attenta e accurata presentazione che permette al lettore di conoscere gli aspetti più importanti della vita di Dessì, ma soprattutto gli influssi che altri scrittori e studiosi hanno avuto sui suoi scritti.
Poi ho avviato la lettura della storia vera e propria. Come ho già anticipato, si tratta di un racconto che cattura sin dall’inizio l’attenzione del lettore, coinvolgendolo profondamente.
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La storia è ambientata in un paesino della Sardegna, Cuadu, nome di fantasia, e fin dalla prima pagina si incomincia a parlare della costruzione di un monumento ai caduti, in ricordo dei settantatré giovani morti nel corso della prima guerra mondiale. Si tornerà diverse volte sulla costruzione del  monumento, sulle difficoltà incontrate, ma soltanto nell’ultimo capitolo si conosceranno le decisioni finali.
I protagonisti di questa coinvolgente storia sono fondamentalmente due, entrambi di grande spessore, nessuno di loro prevarica l’altro, tanto diversi per temperamento, si ritrovano tuttavia in qualche modo a dover intrecciare i loro destini.
Don Pietro Coi è il viceparroco del paese, Mariangela Eca è una povera donna che ha perso non uno ma due figli, una madre sopravvissuta per due volte ai suoi affetti più cari.
Don Pietro è un personaggio dalla personalità anche contraddittoria, ma che non può non suscitare simpatia e benevolenza. Un uomo avanti negli anni, ma ancora forte, rude, apparentemente, soprattutto nei confronti di Mariangela, sua parrocchiana, eppure sensibile e capace di prendere delle decisioni molto difficili, che più volte gli impediscono di riposare la notte, quando tutto appare più difficile da capire, e molte domande rimangono senza risposte.
Mariangela è più o meno coetanea del viceparroco, ma all’apparenza più vecchia, perché provata dalla povertà e soprattutto dal dolore per la morte dei figli, un distacco che non riesce ad accettare. Donna che ha fatto del silenzio una caratteristica della sua personalità. Lei che non sopporta le tante parole, perché le ritiene del tutto inutili.
Un personaggio difficile da dimenticare nella sua semplice complessità, la descrizione che ne fa lo scrittore, nella sua essenzialità, è perfetta, e a noi sembra di incontrarla, potremmo anche riconoscerla tra le tante altre donne di quel tempo.
Un ruolo molto importante ha anche Urbano Castai, medico in un paese che confina con Cuadu, Ruinalta. E’ lui l’amico più caro, forse l’unico, di don Pietro. Un personaggio molto interessante, che appare piuttosto tardi all’interno della storia, ma che lascia un’importante traccia di sè.
Vi sono poi parecchi altri personaggi, che appaiono in alcuni capitoli, scompaiono per un po’ per ritornare in seguito. Sono il marchese Roberto Manca di Tharros, un nobile decaduto, il commendatore Alessandro Comina, il nuovo ricco, l’arciprete Tarcisio Pau, che rimprovera a don Pietro il fatto di essere stato per tanti anni un cacciatore, Gregorio, il marito di Mariangela, personaggio “sfumato”, credo volutamente, sempre in ombra rispetto a lei, così potente nella manifestazione del suo dolore. Senza dimenticare Saverio e Giovanni, i loro due figli, entrambi partiti per la guerra. Giovanni, il figlio dal carattere difficile, Saverio, il più buono, secondo la mamma, ma anche il più fragile. Lui, di cui sappiamo ben poco inizialmente, ma il cui aspetto e carattere vanno prendendo forma gradualmente.
E poi i giovani con le fusciacche rosse, sono i minatori che lavorano nelle miniere dell’Iglesiente, e che nel fine settimana ritornano a Cuadu. Giovani che si oppongono allo strapotere dei cosiddetti “prinzipales”, e che in seguito cercano di opporsi ai gruppi fascisti che in quel periodo incominciano a essere presenti anche in paese e nella non lontana Iglesias.
Tante particolari mi verrebbe da rendere ancora più espliciti per capire una storia che Dessì ha saputo raccontare così bene, ma non voglio svelare niente di più di questo straordinario racconto che, secondo il mio parere, è un vero capolavoro.
Un piccolo gioiello che racchiude dentro la grande storia una piccola storia fatta di povertà e di dolore, diversa e nello stesso tempo uguale a quella di tante altre persone comuni che quasi sempre non hanno voce.
E allora grazie agli scrittori come Giuseppe Dessì che danno loro voce e dignità.

***

Di seguito due brani tratti dal settimo capitolo.

“Mariangela, messa la caffettiera sulla brace del fornello, aspettava che montasse il bollore. Guardava sempre l’angolo della finestra e faceva con la testa quel movimento abituale, come se inghiottisse. Poteva aspettare indefinitamente, senza rispondere alle domande che le venivano fatte, e non c’era in lei né tracotanza né imbarazzo, ma un’antica, sottile persuasione di silenzio.”

“Il prete versò il caffè nelle tazzine, le fece un cenno: lei prese la sua. Aveva la sua stessa età, ma sembrava più vecchia.
La guardò mentre sorbiva il caffè soffiandoci su a ogni sorso. Aveva sempre bisogno di guardarla per convincersi di quanto fosse invecchiata, che non era più forte come un tempo, come prima della morte dei figli. Se la ricordava sempre com’era tanti anni prima, quando i figli erano piccoli. Giovanni robusto, prepotente, e l’altro, Saverio, mingherlino e malaticcio.”

 

Cenni biografici

Giuseppe Dessì nacque a Cagliari nel 1909, ma dimostrò sempre un grande attaccamento a Villacidro, il paese delle sue origini.
Visse una giovinezza abbastanza complicata, ma poi, grazie ad alcuni incontri importanti, quello con lo storico Delio Cantimori e quello con Claudio Varese, che poi fu sempre grande amico, riuscì a dare una svolta alla sua vita.
Si recò a Pisa, dove si laureò in Lettere. E fu in quella città che pubblicò, nel 1939, una prima raccolta di racconti, La sposa in città, e anche il suo primo romanzo, San Silvano.
Nel 1942, pubblicò Michele Boschino, nel 1949, Storia del principe Lui, nel 1955, I passeri; due raccolte di racconti invece videro la luce nel 1957, Isola dell’Angelo e La ballerina di carta. Nel 1959, L’introduzione alla vita di Giacomo Sgarbo, e nel 1961, Il disertore. Nel 1966 pubblicò ancora una nuova raccolta di racconti, Lei era l’acqua.
Infine, nel 1972, vide la luce Paese d’ombre, che vinse il Premio Strega.
Scrisse anche per il teatro, tra le altre opere, La giustizia e Eleonora D’Arborea.
Dopo la sua morte furono pubblicati altri due libri, la raccolta di racconti Come un tiepido vento, e il romanzo La scelta.
Giuseppe Dessì dedicò alla Sardegna anche numerosi articoli, che furono poi raccolti, nel 1987, da Anna Dolfi nel libro Un pezzo di luna.

Piera M. Chessa

 

Una casa

 

 

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(foto da web)

 

C’è una casa, poco oltre il quartiere,
che si affaccia sui campi.
In realtà son due muri soltanto
tutto ciò che poi resta,
le orme e i mattoni di fango.
E’ avvolta dall’erba ora alta,
dall’ombra di un albero
e di chi vi trascorse la vita.

Vi passo vicino al mattino
con Argo, il mio cane.
Lui si accosta, poi annusa,
e sembra cercare un mondo lontano
che un tempo aveva un suo senso
tra quelle due mura.

Immagino senta il profumo del legno,
dei vecchi il cui sigaro è spento da tanto,
dei bimbi che forse lì dentro son nati,
di mamme stremate e felici
di tener tra le braccia la vita.

Visioni pensieri e profumi
nel pensare al passato
di una casa che oggi si regge soltanto
sul sostegno di tre pali addossati
e forse del nostro rimpianto.

 

Scrissi questo testo diversi anni fa, lo ripropongo con qualche leggera modifica.
Di quella casa oggi, purtroppo, rimane soltanto un frammento di muro.

 

Piera M. Chessa

Il Mont Saint Michel

 

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(foto da web)

 

C’era la bassa marea quella sera
davanti al monastero di Saint Michel.
Il sole lasciava l’orizzonte
mentre guardavo attonita
il paesaggio lunare intorno a me.

I bambini pedalavano sicuri
sul fondale melmoso.
Anche tu camminavi deciso
e io raccoglievo conchiglie,
piccole bianche e preziose
perché rubate al mare
del Mont Saint Michel.

Poi, lo sguardo sul Monte
d’improvviso illuminato
dalle luci appena accese.
Minuscole scintille
balenanti davanti agli occhi,
mentre il cielo diventava nero
e la notte abbracciava il borgo
e il suo suggestivo monastero.

Piera M. Chessa

Un amore grande

 

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Erano entrambi vicini ai quarant’anni Tania e Mirko, quando si incontrarono per la prima volta, forse lui ne aveva qualcuno in più. Si erano lasciati alle spalle storie difficili, e tanto dolore. Con fatica avevano cominciato a ricucire i frammenti delle loro vite, e vi erano riusciti. Lo avevano fatto insieme, riscoprendo stupiti che l’esisteva aveva in sè ancora tanto da dare.
Avevano convissuto per qualche anno, poi, un giorno, questa soluzione non era parsa loro più sufficiente. Sebbene non avessero dimenticato la sofferenza legata alle storie precedenti, avevano deciso di riprovarci. Così, in un giorno tiepido di fine estate, senza tanto clamore, alla presenza dei soli testimoni, si erano sposati civilmente.
Agata, quando lo seppe, a nozze avvenute, ne fu molto felice. Aveva avuto modo di conoscerli un poco, essendo vicini di casa, ne conosceva in buona parte le storie passate, ma soprattutto il presente, l’intesa che si era creata, la loro nuova serenità.

Tania era una bella donna, aveva una carnagione di porcellana di cui era perfettamente consapevole, e che curava molto con delle ottime creme nutrienti, ma non meno belli erano i suoi capelli.
Neri, robusti e folti, leggermente ondulati. Tuttavia lei li desiderava lisci, e faceva di tutto per averli così.
Per diversi anni portò quella chioma nera, poi decise di schiarirla un po’. “Per dare al viso più luce”, diceva. E in effetti stava benissimo, era stata un’ottima scelta.
Anche Mirko era un bell’uomo. Abbastanza alto, per quanto non altissimo, molto magro, con le spalle leggermente curve. Non amava purtroppo le palestre, eppure ne avrebbe avuto bisogno.
I suoi capelli neri, tenuti sempre corti, si erano col tempo, o per via delle vicissitudini, sbiancati. Ma ne aveva tanti, e quell’argento sulla testa non gli stava affatto male.
Si erano conosciuti in un Ufficio Postale della loro città, dove entrambi lavoravano già da qualche anno. Per qualche tempo erano stati degli ottimi colleghi, poi, amici veri; si erano consolati a vicenda nel ricordare i propri momenti neri, aiutandosi reciprocamente.
Dopo qualche tempo avevano incominciato ad incontrarsi anche lontano dall’ambiente di lavoro. Lei, ottima cuoca, le era sempre piaciuto pasticciare in cucina, gli raccontava ciò che preparava per il pranzo e per la cena, pur vivendo da sola, e Mirko, meravigliato, si chiedeva che voglia potesse avere una donna sola di preparare pietanze complicate. Lui, da tempo, si accontentava di ciò che offriva la piccola rosticceria a due passi da casa, oppure di prepararsi velocemente una pastasciutta al sugo, una delle pochissime cose che sapeva fare.
Diceva sempre di non avere tempo per stare davanti ai fornelli, in realtà non ne aveva voglia, impegnato com’era a combattere i vecchi fantasmi.
Così Tania, un giorno, sentendo questi discorsi lo invitò a casa sua per il pranzo.
Era una domenica, Mirko la ricordava ancora, una bella giornata di un gennaio che era stato piuttosto freddo, e che allora, in quei suoi ultimi giorni, aveva deciso, clemente, di regalare qualche giornata di sole.
Era stata Tania a ricordarsi, mentre prendevano un aperitivo insieme, che gli ultimi giorni di gennaio venivano chiamati “i giorni della merla”. E davanti allo sguardo stupito di Mirko raccontò la leggenda.
Lui ricordava molto bene anche quel momento. E gli sembrava di vedere la sua Tania, mentre parlava, e subito dopo vedeva se stesso che pensava: ” Sembra una maestrina, bella ma anche brava, e come racconta bene le storie! Avrebbe dovuto insegnare, non lavorare in un ufficio!”.
Sta di fatto che quell’aperitivo prima del pasto, per quanto leggero, seguito dalle ottime pietanze che lei aveva preparato, accompagnate da un gradevolissimo vino, insomma, tutto l’insieme, conclusosi con una torta profumata, fecero in modo che l’affettuosa amicizia si trasformasse in qualcosa di più profondo.

Erano trascorsi più di vent’anni da quei giorni così belli che promettevano tempi sereni. Ed erano stati anni sereni, per quanto intrecciati con momenti anche molto difficili. Eppure insieme avevano superato tutto, guardando sempre in avanti.
Lei, forte e tenace, decisa a proteggere in ogni modo quel legame nel quale aveva ormai investito l’intera vita, lui, altrettanto determinato, era tuttavia più chiuso in se stesso, un po’ “ruvido” in alcuni momenti, ma con un cuore “di burro”, come ripeteva spesso Tania. Sempre più innamorato di una donna che gradualmente era riuscita anche a cambiarlo un poco, a stemperare quel suo stare sempre “dentro un guscio”.
Amabile in apparenza, rimaneva suo malgrado un po’ sulla difensiva.”Una caratteristica di tutti noi, in famiglia”, aveva confidato a Tania un giorno, e lei questo, in seguito, ebbe modo di verificarlo personalmente.
Vent’anni di complicità, di viaggi, durante le ferie che cercavano di prendere insieme, facendo talvolta dei voli pindarici, accordandosi con i colleghi, rinunciando a qualcosa durante l’anno. E poi, via! Spagna, Grecia, Turchia, Croazia, e ancora, le belle capitali dell’Est. Praga soprattutto era rimasta a lungo nei loro cuori.
In Turchia avevano invece cercato i luoghi descritti da Pamuk nel suo bellissimo libro “Istanbul”. In Grecia avevano visitato i luoghi più belli e rappresentativi di quella terra straordinaria. Quante foto erano state scattate! Della Spagna avevano visitato alcune città, fermandosi soprattutto a Madrid, e riproponendosi di tornarvi presto. Della Croazia ricordavano il mare, l’incanto delle sue spiagge… E quanti viaggi ancora anche in Italia! Ma puntavano all’estero. “L’Italia la visiteremo tutta quando saremo più avanti nell’età, ora abbiamo ancora tante cose in programma”, dicevano.
Volevano andare in Egitto, negli Stati Uniti, visitare le regioni scandinave, vedere quei magnifici fiordi tante volte ammirati nelle foto e nei filmati visti alla televisione. Quanti sogni da realizzare, e tutti possibili.

E invece le cose non erano andate così. Questo pensava Mirko in quel momento, avvicinandosi alla sua Tania che, immobile e con gli occhi chiusi, stava distesa in un anonimo lettino d’ospedale.
Tutto era successo in brevissimo tempo. Quattro mesi prima si era ammalata, una di quelle malattie aggressive che non tengono certamente conto di niente, tantomeno dei sogni delle persone, che così spesso rimangono a metà.
Ora Tania si trovava in una di quelle strutture che ospitano sia il malato che un suo familiare.
C’era un cartello all’ingresso, con una parola scritta in stampato grande, Hospice, che ad Agata, la loro amica e vicina di casa, sembrò, quando lo vide per la prima volta, un termine gigantesco, una parola senza fine, che le fece provare una profonda inquietudine.
Agata, l’amica discreta e sempre presente nei momenti giusti, quelli in cui Mirko aveva bisogno di una mano tesa ma mai invadente, di una parola giusta, quando era necessaria, del silenzio prolungato di certi momenti, quando niente può essere di aiuto se non il silenzio, avendo però qualcuno vicino.

Quante volte Mirko, in quei giorni, aveva percorso quel brevissimo tratto che dal ” suo” divano letto portava al lettino di Tania. Si avvicinava per sistemare il lenzuolo, per farle una lieve carezza, leggera, per non farle male, per posare le labbra sulla sua fronte, per controllare che i macchinari funzionassero bene.
Ma questi gesti affettuosi Mirko li compiva quand’era solo nella stanza, in quei momenti in cui lui e Tania erano ancora famiglia e avevano un minimo di intimità.
Quanta gente entrava e usciva in quello spazio ristretto: medici, infermiere, parenti, conoscenti… E lui sempre attento, soprattutto con i visitatori occasionali.
Conoscevano tantissime persone, erano apprezzati e stimati, in tanti erano voluti venire a salutare Tania, a stare per un momento anche accanto a lui. Ma la sua preoccupazione prioritaria era che lei non si stancasse ulteriormente, che non provasse dolore.
Poteva fare ben poco ancora, i medici avevano fatto il possibile e l’impossibile, l’unico scopo ora era quello di evitarle ulteriori sofferenze.
Mirko lo sapeva bene, sapeva bene tutto fin dall’inizio, ora lui poteva solo donarle il suo profondo affetto e la sua vicinanza. E attendere che lei si addormentasse, perché indietro non si poteva più ritornare.

 

(Dalla raccolta “Sguardi di donne”)

 

Piera M. Chessa