Archivio | gennaio 2021

Mentre leggo

(foto da web)

Seduta davanti alla scrivania
illuminata da una luce
innaturale, io leggo.

A un tratto, dall’esterno,
penetra leggera
la voce della pioggia.

S’insinua piano nella stanza
e nell’animo,
distraendomi lieve.

Poi l’intensità aumenta,
suscitando in me un’inquietudine
che si trasforma presto in sofferenza.

Piera M. Chessa

Etty Hillesum: una giovane donna ebrea, vittima della Shoah, che non si arrese mai

Quando si finisce di leggere il Diario e le Lettere di Etty Hillesum ci si accorge di essere entrati in un mondo che non ha proprio niente in comune con il nostro. Per un momento almeno sembra quasi impossibile ritornare in quella che noi chiamiamo la nostra vita. Poi, un po’ alla volta, incominciamo a ritrovarci, e proviamo uno sconcerto e una tristezza infinita pensando a quanto l’uomo possa essere capace di crudeltà, sadismo, totale indifferenza verso i propri simili. E allora, ai precedenti sentimenti subentrano un’indignazione e un disprezzo profondi.
Stati d’animo che io provo ancora ogni qualvolta mi predispongo a leggere libri e articoli relativi alla Shoah, nonostante li abbia già letti precedentemente, come in questo caso.

Esther Hillesum, conosciuta da tutti come Etty, nacque a Middelburg, in Olanda, il 15 gennaio del 1914, e morì ad Auschwitz il 30 novembre del 1943. Suo padre era nato ad Amsterdam, la madre era invece russa. Aveva due fratelli: Michael, chiamato Mischa, e Jacob, conosciuto come Jaap. Mischa, musicista già affermato, morirà insieme ai genitori e ad Etty ad Auschwitz, Jaap, particolarmente portato per le scienze, diventerà medico, e morirà durante il viaggio di ritorno nei Paesi Bassi, dopo la liberazione.
Etty era una ragazza brillante e senza preconcetti, estremamente libera, forse un po’ insoddisfatta e ancora alla ricerca di veri punti di riferimento. Si laureò in giurisprudenza, poi si dedicò allo studio delle lingue slave, che dovette interrompere a causa della guerra. Riuscì invece a completare gli studi di Lingua e Letteratura russa. Lettrice appassionata, amò profondamente Rilke, autore che citerà spesso nei suoi scritti.
La sua vita ebbe però una svolta decisiva quando incontrò Julius Spier, uno psicologo e psicoterapeuta tedesco, allievo di Jung, con quale visse una storia intensa e complessa.
Sarà tuttavia la dura esperienza nel campo di Westerbork, in Olanda, dove visse dall’agosto del 1942 al settembre del 1943, luogo di smistamento prima della partenza dei prigionieri per Auschwitz, a trasformarla in una donna forte e coraggiosa, e a portarla a dedicare la sua vita ai suoi compagni di detenzione e al dialogo con Dio.
Un dialogo intenso, profondo, di abbandono alla sua volontà, ma anche di richiesta di aiuto, non per sè, ma per i tanti prigionieri del campo che presto persero la loro dignità di uomini e la voglia di reagire. Etty intuì da subito quel che stava succedendo, non in una singola nazione ma nell’Europa intera. Certamente non poteva ancora sapere in che modo sarebbero stati uccisi, ma molto lucidamente capiva che si stava compiendo un “destino di massa”, si trattava solo di tempo.
Nel campo di Westerbork continuerà a scrivere il suo Diario. Cercherà di annotare tutto, e sarà molto faticoso perché potrà farlo nei pochissimi momenti a sua disposizione. Svolgeva il suo compito di assistente sociale con notevole impegno. Attraversava tante volte il campo, si recava nelle “baracche” portando aiuti concreti e sollievo, camminando sempre in mezzo al fango, e senza mai lamentarsi.
Sempre nel Campo scrisse la maggior parte delle sue Lettere. Molte ai cari amici lasciati ad Amsterdam, dove lei e la famiglia avevano vissuto. Racconta loro come si svolgeva la vita, la sofferenza delle persone intorno a lei, ma anche le sue riflessioni e gli stati d’animo. Cercava di non mostrarsi mai troppo fragile o sfiduciata. E quando questo succedeva e si lasciava un po’ andare, quasi si giustificava.
Era sempre molto preoccupata per i genitori, temeva il momento in cui sarebbero dovuti partire per Auschwitz, li aiutava in tutti i modi e cercava di non pensarci troppo.
Aveva avuto modo di salvarsi, un po’ di tempo prima, gli amici avevano programmato persino una fuga, ma lei non ne volle mai sapere, aveva già deciso di seguire la sorte di tutti gli altri prigionieri, compresi i genitori e il fratello.

Il 7 settembre del 1943, Etty e la sua famiglia furono inseriti nella lista delle persone che dovevano partire per Auschwitz. Iniziò così il loro ultimo viaggio.
I genitori morirono lo stesso giorno dell’arrivo, Etty il 30 novembre dello stesso anno, il fratello Mischa il 31 marzo del 1944. L’altro fratello, Jaap, che era stato portato a Bergen Belsen nel febbraio di quell’anno, morirà il 27 gennaio del 1945, forse per tifo, mentre ritornava, come si è detto prima, verso casa.

Concludo ricordando un’azione che Etty Hillesum compì sul treno che li portava via: gettò da un finestrino una cartolina sulla quale aveva scritto: “Abbiamo lasciato il campo cantando.”
La trovarono alcuni contadini, che si incaricarono anche di spedirla.
Quello fu il suo ultimo scritto.


Di seguito due brani tratti rispettivamente dal Diario e dalle Lettere.

Venerdì 10 luglio 1942 Etty scriveva:

“Un giorno pesante, molto pesante. Un “destino di massa” che si deve imparare a sopportare insieme con gli altri, eliminando tutti gli infantilismi personali. Chiunque si voglia salvare deve pur sapere che se non ci va lui, qualcun altro dovrà andare al suo posto. Come se importasse molto se si tratti proprio di me, o piuttosto di un altro, o di un altro ancora. E’ diventato ormai un “destino di massa” e si dev’essere ben chiari su questo punto. Un giorno molto pesante. Ma ogni volta so ritrovare me stessa in una preghiera – e pregare mi sarà sempre possibile, anche nello spazio più ristretto. E, come fosse un fagottino, io mi lego sempre più strettamente sulla schiena, e porto sempre più come una cosa mia quel pezzetto di destino che sono in grado di sopportare: con questo fagottino già cammino per le strade.
Dovrei impugnare questa sottile penna stilografica come se fosse un martello e le mie parole dovrebbero essere come tante martellate, per raccontare il nostro destino e un pezzo di storia com’è ora e non è mai stata in passato – non in questa forma totalitaria, organizzata per grandi masse, estesa all’Europa intera. Dovrà pur sopravvivere qualcuno che lo possa fare. Anch’io vorrei essere in futuro una piccola cronista.”

(Da Diario, 1941 – 1943, a cura di J.G. Gaarlandt, Adelphi Edizioni)

Un brano tratto da una lettera scritta il 24 agosto 1943 e spedita a Han Wegerif e altri, nella quale Etty racconta agli amici lontani alcuni momenti della sua giornata.

“Di pomeriggio avevo fatto ancora un giro nella mia baracca d’ospedale, passando da un letto all’altro. Quali letti saranno vuoti domani? Le liste dei deportati sono divulgate all’ultimissimo momento, ma certuni sanno in anticipo di dover partire. Una ragazzina mi chiama. E’ seduta nel suo letto, diritta come una candela e con gli occhi spalancati. E’ una ragazzina dai polsi sottili e dal faccino magro e diafano. E’ parzialmente paralizzata, aveva appena ricominciato a camminare tra due infermiere, passo dopo passo. ” Hai sentito? Devo partire” sussurra. “Come, anche tu?” Ci guardiamo per un po’ senza riuscire a parlare. Il suo visino è svanito, è solo occhi. Finalmente dice con una monotona vocina grigia:” Che peccato, eh? Pensare che quanto hai imparato nella tua vita è stata fatica sprecata”, e “Però com’è difficile morire, eh?”. D’un tratto la rigidità innaturale del suo visino cede alle lacrime e al grido: ” Oh, dover partire dall’Olanda è la cosa peggiore”, “Oh, perchè non siamo morti prima!”. Più tardi nella notte la rivedrò per l’ultima volta.
Nel lavatoio c’è una piccola donna che regge sul braccio una bacinella di bucato ancora gocciolante.
Si aggrappa a me, ha l’aria un po’ spiritata. Mi riversa addosso un fiume di parole: “E’ impossibile, com’è possibile, devo partire e non riesco nemmeno a far asciugare il mio bucato per domani. E il mio bambino è malato, ha la febbre, non potrebbe far in modo che io non debba partire?”

(Da Lettere, 1942 – 1943, a cura di Chiara Passanti, Prefazione di Jan G. Gaarlandt, Adelphi Edizioni)

Antonio Gramsci: sono trascorsi 130 anni dal giorno della sua nascita

Antonio Gramsci nacque ad Ales, un paese allora in provincia di Cagliari, situato nella subregione della Marmilla, il 22 gennaio del 1891, e morì a Roma il 27 aprile del 1937.

Dalla moglie Julia Schucht, musicista russa, ebbe due figli: Delio, il più grande, e Giuliano, il secondo, che Gramsci non conobbe mai perché nacque quando lui era già in carcere, condannato da Mussolini per la sua opposizione al regime fascista.
Gramsci non fu solo un politico, ma anche giornalista, filosofo, critico letterario e linguista.
I suoi scritti, numerosi, sono conosciuti e studiati in tutto il mondo, tra questi Le lettere dal carcere e I quaderni dal carcere, pubblicati tutti, purtroppo, dopo la sua morte.
Nel primo volume, tra le tante lettere, vi sono anche quelle dedicate alla moglie, che viveva in Russia insieme ai due figli, nonchè quelle spedite alla famiglia d’origine, che abitava a Ghilarza, un paese non distante da Oristano, dove Gramsci trascorse l’infanzia e parte della giovinezza prima di trasferirsi a Torino dove, grazie a una borsa di studio, potè frequentare l’Università.
Bella e struggente in particolare una delle lettere scritte alla madre, nella quale spiega il motivo per cui lui è stato condannato e incarcerato. E poi ancora le tante inviate alla cognata Tania, sorella di Giulia, che fece sempre da tramite tra lui e la famiglia, e che gli fu vicina durante la detenzione, e quelle mandate ai suoi amici.
I quaderni dal carcere raccolgono invece i frutti dei suoi studi, vari e approfonditi, nati dalle molteplici letture e dalle riflessioni che di volta in volta ne scaturivano.
E’ difficile raccontare in poche parole la vita di un uomo come Antonio Gramsci, il suo pensiero sui più svariati argomenti: politici, storici, letterari, musicali, e non solo; ma anche la sua storia personale, il rapporto con la moglie lontana, quello con i figli, ai quali cercava, da padre, di dare consigli con i suoi scritti e di trasmettere loro dei buoni principi. Come si può intuire, le difficoltà di un dialogo a distanza erano notevoli.
E poi c’erano i tanti problemi di salute di un corpo già estremamente fragile fin da quando era un bambino, che non potevano non peggiorare nel corso degli anni trascorsi in carcere.
Nonostante ciò, quanta forza e determinazione oppose all’intensa sofferenza fisica e psicologica quest’uomo così lungimirante e dal pensiero lucidissimo! Di lui dissero, quando lo condannarono: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”. Il 4 giugno del 1928 fu infatti condannato a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Lo allontanarono dalla famiglia, dal suo impegno politico e sociale, ma non riuscirono a farlo tacere.
Dopo essere stato a lungo in diversi penitenziari, le malattie fisiche e i disturbi nervosi diventarono in Gramsci però sempre più frequenti, così come anche i suoi ricoveri in alcune cliniche, fino a quando, nell’ottobre del 1934, riuscì a ottenere la libertà condizionale. Nell’aprile del 1937 gli fu finalmente concessa la piena libertà.
Le sue condizioni a quel punto erano diventate tuttavia così critiche che, colpito da una emorragia cerebrale il 25 di quello stesso mese, morirà esattamente due giorni dopo, il 27 aprile. Aveva quarantasei anni.


Fu un uomo severo ed esigente prima di tutto con se stesso, ma ugualmente capace anche di tenerezza con la moglie e soprattutto con i figli, ai quali chiedeva però anche rigore e disciplina nello studio e nel rispetto degli impegni presi.
Ha lasciato a tutti noi un’eredità straordinaria che non è andata persa, e che non deve perdersi neppure con le nuove generazioni. A noi tocca il compito e il dovere di tenerla in vita e di saperla trasmettere.

***

Concludo riportando la lettera che Antonio Gramsci scrisse alla madre poco prima di sapere della condanna a oltre vent’anni di reclusione.

Carissima mamma, sto per partire per Roma. Oramai è certo. Questa lettera mi è stata data appunto per annunziarti il trasloco. Perciò scrivimi a Roma d’ora innanzi e finché io non ti abbia avvertito di un altro trasloco. Ieri ho ricevuto un’assicurata di Carlo del 5 maggio. Mi scrive che mi manderà la tua fotografia: sarò molto contento.
A quest’ora ti deve essere giunta la fotografia di Delio che ti ho spedito una decina di giorni fa, raccomandata. Carissima mamma, non ti vorrei ripetere ciò che ti ho spesso scritto per rassicurarti sulle mie condizioni fisiche e morali. Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi.
Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. 
Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente.
La vita è cosí, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini. Ti abbraccio teneramente.
Nino”

  • Carlo Gramsci, citato nella lettera alla mamma, era uno dei fratelli di Antonio.

A Gramsci dedicai, tantissimi anni fa, la mia tesi di laurea, e oggi, ricordando i 130 anni dalla sua nascita, voglio riproporre un testo scritto per lui e per la moglie Giulia nel lontano 2007.
Piccola cosa, un omaggio il mio a un uomo di grande statura non solo intellettuale e politica ma anche umana, di cui sono orgogliosa di essere conterranea.

***

Julca

Un amore nacque
in quei giorni lontani
tra te, uomo di un’isola antica,
e la bella musicista straniera.

Vi unirono le vicende del tempo,
la vostra stessa diversità,
la tua determinazione,
la sua non voluta fragilità.

Pochi i momenti vissuti insieme,
tante le lettere scambiate,
come le incomprensioni
e gli aiuti reciproci negati.

Fu un rapporto profondo, importante,
un amore distante,
difficile da difendere o recuperare,
in fondo, da salvare.

Piera M. Chessa

La pazienza di ascoltare

Talvolta si ha bisogno di silenzio,
quello profondo e assoluto,
quello che ci consente
di guardarci dentro.

Quante cose il nostro cuore
avrebbe da dire
se solo avessimo la pazienza
di ascoltare.

Scopriremmo verità sconosciute
e mai considerate,
ritenute distanti da noi
e sulle quali abbiamo sorvolato.

Siamo fatti di ombre e di luci,
il chiaroscuro ci appartiene,
e con lui dobbiamo fare i conti
nella nostra complicata vita.

Piera M. Chessa

Leggenda di Natale, di Fabrizio De Andrè

L’11 gennaio del 1999 moriva Fabrizio de Andrè, aveva 58 anni. La mia generazione, e non solo, è cresciuta con lui, difficile dimenticarlo.
Molti, pur apprezzandolo, dicono che sia stato un bravissimo cantautore, altri, forse la maggior parte, e io sono d’accordo con loro, ritengono che sia stato un vero poeta. Ovviamente tutte le opinioni vanno rispettate.
Quel che conta è che ancora adesso, a distanza di tanti anni, la sua mancanza si sente. E’ un vuoto che si colma, a livello personale, ascoltando le sue canzoni, o leggendo, come in questo caso, solo il testo, pensando che, come avviene con tutti i poeti che amiamo, in questo modo si continui a stare in loro compagnia.
Hanno provato in tanti a cantare i suoi brani, artisti bravi e meno bravi, suo figlio Cristiano li ha cantati egregiamente, ma Faber avrà sempre qualcosa in più.

Il testo che segue è forse meno noto o ascoltato di altri, io lo apprezzo molto, per questo l’ho scelto tra i tanti che lui ha scritto.

Voglio dedicarlo a tutte le donne che hanno dovuto subire violenza fisica o verbale, perché sempre di violenza si tratta.


Leggenda di Natale

Parlavi alla luna giocavi coi fiori
Avevi l’età che non porta dolori
E il vento era un mago, la rugiada una dea
Nel bosco incantato di ogni tua idea
Nel bosco incantato di ogni tua idea

E venne l’inverno che uccide il colore
E un babbo Natale che parlava d’amore
E d’oro e d’argento splendevano i doni
Ma gli occhi eran freddi e non erano buoni
Ma gli occhi eran freddi e non erano buoni

Coprì le tue spalle d’argento e di lana
Di pelle e smeraldi intrecciò una collana
E mentre incantata lo stavi a guardare
Dai piedi ai capelli ti volle baciare
Dai piedi ai capelli ti volle baciare

E adesso che gli altri ti chiamano dea
L’incanto è svanito da ogni tua idea
Ma ancora alla luna vorresti narrare
La storia d’un fiore appassito a Natale
La storia d’un fiore appassito a Natale

Compositori: Fabrizio De Andrè e Gian Piero Reverberi

Tratto dall’album Tutti morimmo a stento, uscito nel 1968

Ricordando Graziella

Graziella Cappelli é una carissima amica che conobbi tanti anni fa sui blog. Allora i blog e i siti erano molto diffusi, e soprattutto piuttosto frequentati, facebook non era altrettanto noto, perlomeno non per tutti, solo in seguito noi abbiamo incominciato a farne parte, e un numero considerevole di persone si è spostato sui nuovi social. Un po’ alla volta i blog sono diminuiti, anche se non sono pochi quelli che continuano a essere attivi.

E’ stato dunque sui blog che conobbi Graziella, i nostri commenti agli argomenti proposti dai curatori dei siti incominciarono a girare dall’uno all’altro. In quel periodo forse Graziella non aveva un blog personale, ma scriveva su quelli collettivi, dove lo spazio veniva condiviso. Tra questi, Cantiere poesia, che è ancora molto attivo e che ha ospitato e continua a ospitare dei bravi poeti. Credo che il mio primo incontro con lei sia avvenuto là.

Mi hanno colpito subito i suoi testi. Essenziali, densi. Il suo sguardo si posava su tutto, spaziava ovunque e affrontava numerosi temi. In pochi versi sapeva raccontare tanto, perché non aveva bisogno di tante parole, solo quelle necessarie.

Ora Graziella non c’è più, pochi mesi fa ha intrapreso un nuovo viaggio, non prima però di averci lasciato un buon numero di testi poetici, molti dei quali aveva raccolto in sillogi belle e suggestive, tra queste Nel palazzo dell’ombra.

Ma lei non è solo una poetessa, ci ha lasciato, ed è stato il suo ultimo lavoro, anche un libro in prosa: Rossella. Possiamo considerarlo un romanzo breve, oppure un racconto lungo. Ma quel che conta è la storia raccontata, lo stile dell’autrice, e il ritrovare anche tra le pagine in prosa la sua vena poetica.

Di seguito, in questi primi giorni di un nuovo anno, ripropongo un mio post a lei dedicato, lo scrissi diversi anni fa, nel giugno del 2014.

***

Graziella Cappelli

Graziella Cappelli è un’altra cara amica che ho voluto ospite da me, ha portato con sé non solo le sue belle poesie ma anche il profondo amore per la natura e il rispetto per l’umanità.

In realtà, la sua poetica è un universo tutto da scoprire, come accade per ogni poeta, e in generale, per ogni scrittore. La sua conoscenza, però, secondo me, avviene con gradualità, con discrezione, mi viene da dire, è come se l’autrice volesse svelare qualcosa di sé lentamente, quasi con ritrosia. E’ forse per questo che l’apprezzamento dei suoi testi diventa un poco alla volta sempre più profondo, perché si ha il tempo e il desiderio di soffermarsi per meglio capire.

Sono diversi i temi trattati, perché diversi gli interessi e le curiosità, attento e sensibile il suo sguardo.

Per questo desidero proporre alcuni suoi testi, per la loro bellezza, per i profondi contenuti, per i motivi di riflessione che ne possono scaturire.

***

Nella poesia Amico traspare la sua generosità e il rammarico per la partenza di un conoscente, un vicino di casa, neppure un vero amico; ma l’indifferenza non appartiene all’autrice, anzi, lei la condanna apertamente, infatti scrive “in questa strada/ fatiscente/ d’indifferenza”.

D’improvviso

sei partito

amico

dirimpettaio

dai capelli di neve.

Gentile

mi elargivi

saluti e sorrisi

in questa strada

fatiscente

d’indifferenza.

A volte

attraverso

la siepe

parlavamo di arte

e i tuoi occhi

s’illuminavano

come vele sul mare.

Guardo ora

sotto il melograno

la tua sedia

vuota

e di fianco

il pino

immenso

che stilla lacrime.

In Toscana, amore ci regala un bel ritratto della sua suggestiva regione, ce la presenta come una sensuale bellissima sirena, e noi ne seguiamo i tratti, incantati, ma poi arriviamo alla chiusa, e viene naturale condividere con la poetessa sentimenti intimi e discreti come la nostalgia e il rimpianto.

Sirena

emersa dal mare

adagiata e pigra

mostri

geometria di forme

sinuose.

Ti ornano le spalle

i ricci capelli

d’appennino

e gli occhi d’agata

sfumano…

nell’infinito.

La schiena inarchi

quando il vento

ti solleva i veli

e sparge profumi

nelle conche

smeraldine.

Mia luce

a te ritorno

nell’ora inquieta

dove il tramonto

t’incendia i fianchi.

Tra silenziosi cipressi

mi accovaccio

mentre

una melodia

m’invade

e dopo… piango…

E’ ugualmente bello il testo Momenti, interamente dedicato ad un affetto profondo e totale, lo si capisce solamente alla fine, nella bella chiusa dedicata alla figlia. Momenti di complicità, amore, comprensione, tutto viene condiviso durante una rilassante passeggiata.

Passeggiare

con te

in questa

Livorno

capricciosa

di sole

e mare.

Fragranza

di ponce

nei caffè

aromi

bucati

stesi

nel vento.

Ascolto

parole

antiche…

note

attese

sulle corde

del cuore.

Sono vele

le nostre

ciglia

sui canali

verderame

in quartiere

Venezia.

Nei riflessi

pastello

dei palazzi

ci sciogliamo

in un sorriso…

figlia.

Più malinconica è invece Immersa nel verde, anche se permangono il desiderio e la forza di reagire, e allora è giusto cercare di far riserva di nuove energie in vista di momenti più difficili.

In questo scampolo

di terra

incuneato

tra il bosco e olivi

si stempera

il dolore

in acquerello

di foglie giada.

Evapora

il disagio dell’essere

nel calore

del meriggio

e il cuore leggero

danza

con tre farfalle

nero – avorio

sui gerani.

Nuova linfa

m’irrora

le vene

mentre

gli occhi

sono granai

d’erbe e polline

riserva

per un incerto

domani…

E poi la suggestiva descrizione notturna di un bosco, dove è la meraviglia della natura che predomina. La poetessa osserva con discrezione e stupore, e solo verso la conclusione sarà un piccolo animale del bosco ad osservare lei, stupito, testimone di quanto possa essere bello il mondo naturale.

Paesaggio notturno

Luna piena

fra carovane

di nuvole

al balcone

del bosco.

Nero

il monte

pipistrelli

in volo

tra le querce.

Sul sentiero

soffuse

luminarie

di lucciole

fruscii

echi

di rapaci.

Gorgheggio

vocali

sopite

e un debole

canto

m’avvolge

l’anima.

Nell’erba

un rospo

stupito

mi guarda.

Nel testo che segue la bella dedica ad un pino, probabilmente non più giovane, dedica che permette un ripensamento sul tempo trascorso, per contrapporlo al presente, in cui regna l’indifferenza e i passanti hanno il “viso di piombo”.

Pino silvestre

Salutarti

ogni giorno

amico

verde

attraverso

la nostra

strada

dolente.

Passato

è il tempo

dei campi

e la semplicità…

lucciole

defunte

grilli

smarriti.

Ma tu

resisti

a questa

indifferenza

che sfalda

le facciate

delle case

ai passanti

dal viso

di piombo.

Io non so

per quanto

ancora…

Infine, nell’ultimo testo, l’autrice sembra diventare parte integrante della natura.

Dice infatti “E il passo/si fa ritmo/con la terra”… Si diventa un’unica cosa e la gioia è grande. Lo si avverte in tutto il testo, ma in particolare nella bella chiusa.

Nel verde più verde

Camminare

nel verde più verde

delle colline

e adagiare

gli occhi

su onde di grano

mosse dal vento.

Si snoda

il sentiero

tra fiori d’erba

cremisi

e arduo

risale i pendii

avviluppati di vigne.

E il passo

si fa ritmo

con la terra

sui sassi e

corone di ginestre.

Tenero il cuore

stringe

un bouquet di aromi

e sparge

sogni e soffioni

verso fiocchi

di nubi vaganti.

Poi… nel bosco

si aggomitola

in un gaio

ruscellare d’acqua.

Graziella Cappelli