Archivio | marzo 2021

Dante e la sua straordinaria eredità

(foto da web)

In occasione delle Celebrazioni per i settecento anni dalla morte del nostro grandissimo poeta,

un mio piccolo omaggio a quest’uomo speciale di cui siamo e saremo orgogliosi per tutta la vita.

La nostra Italia, che certamente ai tempi di Dante era ben lontana dall’essere unita, sarà per noi, grazie a lui, sempre motivo di orgoglio, nonostante i tanti periodi non felici, compreso quello in cui stiamo vivendo, durante i quali abbiamo perso quelli che dovrebbero essere ritenuti da tutti i valori più alti. Tra questi, la dignità e il decoro, come singoli cittadini e come Paese.

***

Dal Canto Primo dell’Inferno, Versi 61-90

Incontro con Virgilio

Mentre ch’ i’ rovinava in basso loco,

dinanzi alli occhi mi si fu offerto

chi per lungo silenzio parea fioco.

Quandi vidi costui nel gran diserto,

” Miserere di me” gridai a lui,

” qual che tu sii, od ombra od omo certo! “

Rispuosemi: ” Non omo, omo già fui,

e li parenti miei furon lombardi,

mantovani per patria ambedui.

Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi,

e vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto

nel tempo delli dei falsi e bugiardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto

figliuol d’Anchise che venne di Troia,

poi che ‘l superbo Iliòn fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?

Perché non sali il dilettoso monte

ch’è principio e cagion di tutta gioia? “

” Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte

che spandi di parlar sì largo fiume? “

rispuos’io lui con vergognosa fronte.

” O delli altri poeti onore e lume

vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore

che m’ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore:

tu se’ solo colui da cu’ io tolsi

lo bello stilo che m’ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi:

aiutami da lei, famoso saggio,

ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi “

(Da “La Divina Commedia”, di Dante Alighieri, “La Nuova Italia” Editrice – Firenze 1968)

A cura di Natalino Sapegno

Alda Merini, la Poetessa dei Navigli

Foto da web

Alda Merini, il cui nome per intero era Alda Giuseppina Angela Merini, nacque a Milano il 21 marzo del 1931, e morì, sempre a Milano, il primo novembre del 2009.
Fu poetessa, scrittrice, e notevole autrice di aforismi. Suo padre era Nemo Merini, figlio di un conte comasco che venne diseredato per aver sposato una contadina, Emilia Painelli.
Era una persona colta e affettuosa, molto amato dalla figlia. La madre, al contrario, si dimostrò sempre severa e poco incline alle dimostrazioni di affetto, oltrettutto già intenzionata a decidere per la figlia un futuro di moglie e di madre.
Alda, che completò con buoni voti il primo ciclo di studi, amava molto la lettura, cosa poco gradita dalla madre. Fu tuttavia proprio il padre, dopo gli studi elementari, a imporle un corso di tre anni per poter entrare nel mondo del lavoro. La vita però per lei aveva deciso ben altro.
Nel 1943, mentre si trovavano in un rifugio, la loro casa venne distrutta da un bombardamento. La madre, Alda e il fratello più piccolo, Ezio, raggiunsero con mezzi di fortuna Vercelli, dove si fermarono, tra tante difficoltà, per tre anni, ospiti di una zia, mentre il padre e la sorella più grande rimasero a Milano. Solo in seguito la famiglia potè ricongiungersi.
Tornati a Milano, Alba si dedicò allo studio del pianoforte, oltre che alla scrittura. Fu in quel periodo che una sua poesia venne recensita da Giacinto Spagnoletti, critico letterario, poeta e narratore, che ne aveva intuito la bravura. Quel giorno, felice ed emozionata, rientrò a casa con la recensione tra le mani e la mostrò al padre. Al contrario di ciò che si aspettava, lui la stracciò, dicendole che la poesia non procurava il pane. Aveva all’incirca quindici anni.
Purtroppo, molto presto, nel 1947, Alba incominciò a manifestare i primi sintomi di un profondo disagio psicologico. Fu ricoverata per la prima volta in una clinica milanese e le venne diagnosticato un disturbo bipolare. Vi rimarrà per un mese.
Rientrata a casa, incomincia a frequentare diversi intellettuali, tra i quali anche David Maria Turoldo e Luciano Erba. La prima pubblicazione arriva nel 1950. Ancora grazie a Giacinto Spagnoletti, due sue poesie entrano a far parte dell’Antologia della poesia italiana contemporanea- 1909-1949. L’anno successivo, il 1951, su indicazione di Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani, altri due testi vengono inseriti in Poetesse del Novecento.
Nel 1953 Alba si sposa con Ettore Carniti. Sarà un matrimonio difficile.
In quello stesso anno viene finalmente pubblicato il suo primo volume in versi, La presenza di Orfeo. Nel 1955, una seconda raccolta, Paura di Dio, e in seguito, Nozze romane.
Muore improvvisamente il padre, e poco dopo nasce la prima figlia, Emanuela.
Nel 1957, due anni dopo, la secondogenita, Flavia. Ma presto incomincia un lungo periodo di crisi e sofferenza, che andrà dal 1964 al 1972. I terribili anni trascorsi in ospedale si alternano con alcuni rientri in famiglia. Vedranno la luce così altre due figlie, Barbara, nel 1967, e Simona, nel 1972, che vengono tuttavia date in affido.
Dopo un lungo periodo di silenzio, la Merini nel 1979 riprende a scrivere, molti dei suoi testi hanno come tema la difficile esperienza vissuta nell’ospedale psichiatrico. Sono poesie dense, dolorose, ma estremamente lucide e di grande bellezza.
Tuttavia per la poetessa sembra non esserci pace. Nel 1981 muore il marito, i suoi problemi di salute la tengono lontana per un po’ dal mondo letterario, dal quale viene praticamente ignorata.
Dopo tanti tentativi e altrettante delusioni, la raccolta alla quale ha lavorato a lungo finalmente viene pubblicata, il titolo è La Terra Santa.
Durante il periodo di isolamento la Merini conosce l’anziano medico e poeta Michele Pierri, che apprezza molto le sue poesie. Sarà un incontro di notevole importanza per la sua vita, nonostante la differenza di età. Si sposano nel 1984 e vanno a vivere a Taranto, dove si fermano per alcuni anni. Nel frattempo proseguono le pubblicazioni delle opere.
Nel luglio del 1986 però la poetessa deve ricorrere alle cure del reparto di neurologia dell’Ospedale di Taranto. Nel 1987 ritorna a Milano, dove l’aspettano ancora mesi difficili. Il marito Michele, infatti, già molto ammalato, si aggrava, morirà nel gennaio del 1988. Per Alda sarà una grandissima perdita. Continua tuttavia a scrivere e ad incontrare gli amici, che la sostengono standole vicino. Pubblica anche il suo primo libro in prosa, L’altra verità. Diario di una diversa. Seguiranno altre pubblicazioni, e finalmente vivrà un periodo più sereno e gratificante.
L’elenco dei suoi scritti è lunghissimo, impossibile parlare di tutti, tra i tanti occupano un posto importante anche i suoi Aforismi.
Sono questi gli anni in cui la poetessa viene inserita tra i più grandi poeti contemporanei. Vince diversi premi e porta avanti delle importanti collaborazioni con fotografi, artisti, attori e registi.
Nell’ultimo decennio della sua vita, dal 2000 in poi, la scrittura della Merini si modifica. E’ il tempo della cosiddetta “fase mistica”. Inizia per lei un nuovo percorso, la composizione di testi in cui approfondisce la sua personale ricerca di Dio, quel Dio che fin da giovane, come lei stessa dice, aveva perduto. Sono molte le opere scritte e pubblicate in quegli anni. Tra le altre, Magnificat, un incontro con Maria (2002), La carne degli angeli (2003), Corpo d’amore (2004), Cantico dei Vangeli (2006), Francesco, canto di una creatura (2007), Padre mio (2009).
Alla fine del 2009, il primo giorno di novembre, Alda Merini muore. Ha settantotto anni.
Un grande dispiacere per i tanti estimatori che l’hanno amata e apprezzata come donna, come poetessa, come scrittrice.
Rimane di lei una produzione vastissima, ma anche la sua difficile storia, all’interno della quale ha combattuto fino a quando le è stato possibile, cadendo e rialzandosi, perché dotata di un’arma formidabile: la sua scrittura.
Un amore nato fin da bambina, e che si è consumato con lei.


“Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenare tempesta. / Così Proserpina lieve / vede piovere sulle erbe, / sui grossi frumenti gentili / e piange sempre la sera. / Forse è la sua preghiera.” ( Da “Vuoto d’amore”)


Di seguito, un po’ di testi scelti tra i tanti che vanno a formare le sue numerose raccolte.

I poeti lavorano di notte

I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere Iddio.
Ma i poeti, nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.

(Da “Destinati a morire”)

Dimmi almeno

Dimmi almeno che oscura meraviglia
già ti prende di me, che trovi bella
questa sommessa ed umile giunchiglia
che già ti paragona ad una stella;
dimmi che me divina e me presente
senti dentro il tuo letto di piacere,
dimmi che un bacio fuga dolcemente
tutte le smanie e tutte le chimere.


Dei miei molti rami, delle mie figlie adorate
io non so nulla, quando le vedo le spettino
hanno chiome grondanti e precise,
e loro si arrabbiano come puledrine avverse,
delle mie quattro figlie io non so nulla
se non che le sento nelle mie viscere.

Tu te ne sei andata

Tu te ne sei andata
hai lasciato dietro di te
il chiaro profumo dell’ombra,
o fiore di questo mio corpo
o specie martoriata di figlia,
tu te ne sei andata
uno spazio di vento
che ha indurito il mio cuore.

(Da “Destinati a morire”)


Viene il mattino azzurro
nel nostro padiglione:
sulle panche di sole
e di crudissimo legno
siedono gli ammalati,
non hanno nulla da dire,
odorano anch’essi di legno,
non hanno ossa né vita,
stan lì con le mani
inchiodate nel grembo
a guardare fissi la terra.


Padre, se scrivere è una colpa
perché Dio mi ha dato la parola
per parlare con trepidi linguaggi
d’amore a chi mi ascolta?

Ormai vecchia di anni e senescente,
dove trovare un filo di erba buona?
Che sai dei miei conventi, della grazia
matura delle sante, delle grandi
anime folli? Che posso io trovare
tra gli osanna dell’uomo di cultura?
Altrove è il canto, altrove è la parola
e Dio non la pronuncia.

(Da “Ballate non pagate”)

I versi sono polvere chiusa

I versi sono polvere chiusa
di un mio tormento d’amore,
ma fuori l’aria è corretta,
mutevole e dolce ed il sole
ti parla di care promesse,
così quando scrivo
chino il capo nella polvere
e anelo il vento, il sole,
e la mia pelle di donna
contro la pelle di un uomo.

(Da “La Terra Santa”)

Lavandaie

Lavandaie avvizzite
sul corpo del Naviglio
con un cilicio stretto
stretto intorno alla vita,
lavandaie violente
come le vostre carni,
donne di grande fede
sopravvissute al lutto
della bomba di Hiroshima…
Lavandaie corrotte
dall’odore del vino,
ossequiose e prudenti
fortissime nell’amore
che sbattete indumenti
come sbattete il cuore.

(Da “La Terra Santa e altre poesie”)

Il pastrano

Un certo pastrano abitò lungo tempo in casa
era un pastrano di lana buona
un pettinato leggero
un pastrano di molte fatture
vissuto e rivoltato mille volte
era il disegno del nostro babbo
la sua sagoma ora assorta ed ora felice.
Appeso a un cappio o al portabiti
assumeva un’aria sconfitta:
traverso quell’antico pastrano
ho conosciuto i segreti di mio padre
vivendolo così, nell’ombra.

(Da “La gazza ladra”)

***

E infine, un’appassionata raccomandazione ai giovani.

A tutti i giovani raccomando

A tutti i giovani raccomando:
aprite i libri con religione,
non guardateli superficialmente,
perché in essi è racchiuso
il coraggio dei nostri padri.
E richiudeteli con dignità
quando dovete occuparvi di altre cose.
Ma soprattutto amate i poeti.
Essi hanno vangato per voi la terra
per tanti anni, non per costruirvi tombe,
o simulacri, ma altari.
Pensate che potete camminare su di noi
come su dei grandi tappeti
e volare oltre questa triste realtà
quotidiana.

Un sogno

(foto da web)

Oggi, 19 marzo, in occasione della Festa del papà, desidero riproporre questo testo che scrissi diversi anni fa per mio padre.

Fu lui il primo a incoraggiarmi perché continuassi, quando, ancora bambina, capì il mio bisogno di scrivere.

***

Questa notte ti ho incontrato,
caro padre mio,
e mi hai raccontato di te.
Mi hai narrato
gli avvenimenti più importanti
della tua vita,
mi hai parlato delle persone
a te più care.
Hai pronunciato dei nomi
a me ignoti, chi si celava
dietro quegli sconosciuti?

Tu mi parlavi, ed io,
con un quaderno tra le mani
ed una penna azzurra,
scrivevo, prendevo nota,
fermavo sulla pagina
e nella memoria
ricordi e confidenze.

Col ritorno della coscienza
sei poi andato via,
e in me è sorto improvviso
l’urgente bisogno di fermare,
prima che del tutto svanisse,
questo incontro con te.

Piera M. Chessa

In viaggio

(foto da web)

Siamo in viaggio,
siamo sempre in viaggio
noi, uomini e donne
disorientati dalla vita.

Tutto appare precario,
tutto incerto,
pericolosamente
in bilico
su un filo sottile
sospeso nell’infinito.

Ansie e paure
le nostre uniche certezze,
e qualche gioia transitoria.
Il nutrimento
per il breve tempo
che ci è stato concesso.

P.M.C.

Canto povero, di Giovanna Giordani

(foto da web)

Giovanna Giordani è una poetessa trentina dotata di grande sensibilità, impossibile per lei voltarsi dall’altra parte davanti alle difficoltà delle persone più fragili e meno fortunate, qualunque sia il colore della loro pelle o il Paese dal quale provengono. L’indifferenza, insomma, è qualcosa che non le appartiene.

Per questi motivi, oltre che per la bravura, oggi voglio proporre un suo testo intitolato Canto povero


Canto povero

Non ascolto
il tremore del cuore
mentre mi allontano
su un battello malconcio

Non voglio pensare
che sia un lugubre incanto
questo che odo
di sirene lontane

E se non approderà
a un paradiso
questa fragile nave
vi lascio le grida
del mio povero canto
disperso
fra le onde ignare
del mare

Giovanna Giordani

Liriche cinesi (1753 a. C. – 1278 d.C.) Antologia dell’antica poesia cinese a cura di Giorgia Valensin. Prefazione di Eugenio Montale Giulio Einaudi Editore 1968

E’ questo un libro a me caro. Mi è caro per ciò che contiene, e in ugual misura perché sulle sue pagine, diversi decenni fa, trascorsi un po’ di tempo come studentessa universitaria.
Avevo infatti un docente di filosofia appassionato di poesia e pittura cinese, fu lui a farmi conoscere un pezzetto di quella cultura molto lontana dalla nostra ma straordinariamente attraente.
Ed è così che in questi giorni mi sono ritrovata a rileggere quel libro con la stessa curiosità e interesse che provai allora.

Le liriche racchiuse in questa raccolta sono indubbiamente piuttosto diverse da ciò che noi oggi chiamiamo testo poetico o poesia, non sono tuttavia meno belle.
Giorgia Valensin, bravissima curatrice e traduttrice dell’opera, ha preso in esame un arco di tempo che comprende più di duemila anni. Si parte infatti dal 1753 a.C. e si arriva fino al 1278 d. C.
Si è trattato di secoli difficilissimi che hanno conosciuto guerre, carestie, e flagelli di ogni genere, eppure, a dispetto delle difficoltà, in tantissimi si dedicarono a quell’arte meravigliosa che è la poesia. Erano ministri, generali, imperatori, ma anche funzionari che furono costretti all’esilio, e persino mogli ripudiate. Questo potè accadere perché spesso era quello il loro modo di fare corrispondenza, e quindi, di comunicare.


Il lavoro incomincia con la sezione dedicata al Libro delle Odi. Si tratta del periodo che va dal 1753 a. C. al 600 a. C. ed è l’inizio della poesia cinese.
Il Libro comprende 305 canzoni popolari che, si dice, siano state scelte da Confucio e da lui utilizzate per diffondere i suoi insegnamenti.
Riporto la prima strofa della Preghiera a Tchong.

“Io prego Tchong
Che non s’accosti troppo alla mia casa,
E che non rompa i rami ai nostri salici:
Non per amore dei rami dei salici
Ma sì perché ho paura dei parenti.
Tchong è adorabile,
Ma il cruccio dei parenti è ben temibile!”

Subito dopo la Valensin propone Chu Yuan, che visse dal 332 al 295 a. C. Viene considerato il primo dei grandi poeti cinesi.
Estrapolo la terza strofa dalla sua lirica Il Grande Appello, dedicata all’Imperatore affinché gli permetta di ritornare dall’esilio e, nello stesso tempo, non dia retta alle calunnie dei suoi cortigiani. Chu Yuan si serve più volte delle allegorie, per cui l’Imperatore nel testo diventa la donna amata alla quale si rivolge. L’imperatore però non ascolta il suo appello e lui si toglie la vita.

“Anima, non andare a Mezzogiorno,
Dove per mille miglia
La terra s’è abbruciata;
Dove serpenti velenosi guizzano
Attraverso le fiamme;
Per sentieri scoscesi
O nei boschi profondi
strisciano cauti tigri e leopardi;
E scorpioni insidiano,
E il Re Pitone alza la testa enorme –
Anima, non andare a Mezzogiorno
Dove la Tartaruga dai tre piedi
Sputa veleno!

Ed eccoci arrivati alla Dinastia dei Han, che iniziò nel 206 a. C. e si concluse nel 220 d. C.
Il suo fondatore fu Kao Tzu (247 – 195 a. C.). Dopo aver conquistato l’Impero, ritornò al suo paese dove organizzò una grandissima festa, e fu in questa occasione che scrisse il Canto del Grande Vento, che riporto.

Il grande vento si leva
E le nuvole salpano –
Ho esteso la mia potenza
Per l’universo intero
e torno alla terra natale.
E ora, come trovare
Gli eroi che dovranno vegliare
su tutte le mie frontiere?

Sessant’anni dopo diventò imperatore Wu Ti, poeta lui stesso e protettore dei poeti. Su Wu e Li Ling furono generali al suo servizio e scrissero anch’essi in versi.
Tuttavia fu Ssuma Siang-yu il poeta più famoso di questo periodo. I suoi scritti, chiamati fu, sono dei poemi descrittivi molto lunghi, per questo motivo la Valensin non ha ritenuto opportuno riportarli.
Le poesie dei poeti di questa importante dinastia furono dei modelli per tutte le epoche che vennero in seguito, sia per quanto riguarda la forma che per i contenuti Tra i testi più imitati ci sono i “19 Vecchi poemetti” di cui purtroppo non si conosce il nome dell’autore, ma che forse visse nel primo secolo dopo Cristo.

Con la fine della dinastia dei Han l’Impero si spezzò. Ebbe inizio così la cosiddetta Età di transizione, che va dal 220 al 618 d.C. Vi furono molte altre dinastie, ma durarono per poco tempo.
Tra queste, quella dei Wei, il cui fondatore fu Tsao Tsao (220-265 d.C.), e poi suo figlio Tsao Chih, entrambi poeti.
La Valensin ricorda anche la dinastia dei Tzin, durante la quale si diffuse la dottrina del Tao. Seguendo questa dottrina molti poeti andarono a vivere tra i monti conducendo una vita da eremiti. T’ao Ch’jen viene considerato il più bravo tra i poeti di quel tempo.
Purtroppo questo è anche il periodo in cui aumentarono i contrasti tra la Cina del nord e quella del sud. Ed è proprio nella parte meridionale del Paese che visse il poeta Pao Chao, particolarmente apprezzato per la sua originalità.
Vengono citate anche le dinastie dei Liang e dei Sui, i cui Imperatori, Wu-ti e Yang-ti, furono considerati anch’essi dei buoni poeti.
Finalmente, sotto quest’ultima dinastia, la Cina fu riunificata.

Di seguito, due liriche. La prima appartiene a T’ao Ch’ien (372-427 d.C.), e si intitola Do la colpa ai miei figli.

Ciocche bianche mi coprono le tempie;
Son rugoso e appassito senza scampo.
Ho cinque figli, è vero;
Ma tutti odian la carta ed il pennello.
Ha diciott’anni A-shu;
Per la pigrizia è proprio impareggiabile.
A-suan fa quel che può:
Ma in verità detesta le Arti Belle.
Jun-tuan ha tredici anni,
Ma non distingue ancora sei da sette.
Nel nono anno Tung Tzu
non pensa che alle noci ed alle pere.
Se il ciel così mi tratta,
Che posso far se non empir la coppa?

La seconda lirica, invece, è stata scritta da Pao Chao (413-466 d.C.), e si intitola Il letterato chiamato alle armi.

Or tardi,
Mi accodo alla necessità dei tempi;
Dall’alto d’una barricata soggiogo remote tribù.
Lascio la sciarpa, indosso una veste di rinoceronte;
La gonna arrotolata, un arco nero a tracolla.
Prima di cominciare mi sento mancare le forze;
Che sarà mai di me, innanzi che tutto finisca?

Si arriva a questo punto alla Dinastia dei T’ang, che va dal 618 al 905 d. C.
Epoca che viene denominata l‘Età dell’oro della Cina, sia in riferimento alla poesia che alla pittura. Non a caso, molti dei poeti di questo periodo furono anche pittori ed eccellenti nella calligrafia, considerata quasi una terza arte.
Le loro poesie ebbero spesso una funzione politica, furono invece poche le poesie d’amore, all’interno delle quali si trovano numerose allegorie. Moltissime liriche sono invece dedicate all’amicizia.
Li Po (701- 672 d.C.) è ritenuto spesso il pù grande tra i poeti cinesi, sicuramente è il più noto e quello più tradotto in Europa. Visse in un periodo difficilissimo, nel corso di una guerra in cui morirono trenta milioni di uomini. Eppure, nonostante ciò, riuscì a tenerla lontana dai suoi versi. Al contrario del suo amico poeta Tu Fu (712-770 d. C.), che nei suoi scritti racconta soprattutto l’orrore delle guerre e le ingiustizie.

Ecco di Li Po la lirica Schiarita all’alba

I prati son freddi, la pioggia rada è cessata;
I colori del Maggio da ogni parte si affollano.
Di pesci che saltano la vasca azzurra è piena;
Sotto a tordi che cantano verdi rami si piegano.
I fiori dei campi si lavano le guance incipriate;
L’erbe dei monti s’inchinano tutte insieme.
Sul Fiume dei Bambù l’ultimo lembo di nuvola
Stracciato dal vento lentamente si sperde.

Di Tu Fu propongo invece l’ultima parte della lirica Il canto dei carri di guerra

“Oh, invero, avere dei figli è una sventura!
Si è più contenti se nascono delle figlie:
Almeno, cresciute, si sposano ad un vicino.
Ma i corpi dei figli si sfanno coll’erba, nei campi…
Non vedete dunque, tutto attorno a Ts’in-hai
Gli scheletri bianchi che giacciono abbandonati
Fino dai tempi remoti?
I mani dei morti recenti
Ci dicono i loro rimpianti;
I mani dei morti antichi piangono invano
Nei tempi piovosi e bui, con gridi d’uccello –
Tzi-u – tzi-u

*I mani erano le anime dei defunti, ma talvolta anche delle divinità.

Uno spazio speciale merita il poeta Po Chu-i (772- 846 d. C.).
Ebbe una vita travagliata, e per due volte fu mandato in esilio. La prima volta in seguito alla pubblicazione di un memoriale in cui manifestava la sua avversione alla guerra, e criticava l’ingordigia dei funzionari. Fu mandato molto lontano, dove ebbe comunque un ruolo importante: quello di governatore. La seconda volta, per aver criticato direttamente il cattivo governo dell’Imperatore. Questa volta gli fu affidata, sempre da governatore, un’importante provincia dell’Impero.
La principale caratteristica della poesia di Po Chu-i fu la semplicità. Per quanto riguarda invece le sue idee sull’arte, erano molto simili a quelle di Confucio. Come lui infatti riteneva giusto criticare i comportamenti dei governanti, e avere il ruolo di guida morale nei confronti del popolo.
Fu un poeta popolarissimo tra i suoi contemporanei, più tardi però la semplicità delle sue poesie in Cina non fu più apprezzata. La sua fama si diffuse invece in Giappone già durante la sua vita, a tal punto da essere in seguito venerato quasi come una divinità.

Ecco un suo testo. Si intitola Il mio servo mi sveglia

Il mio servo mi sveglia:”Signore, il giorno è già alto;
Sorgete dal letto; vi porto il catino ed il pettine.
L’inverno s’avanza, l’aria al mattino è gelata:
Vostra eccellenza oggi non deve sortire”.
Ma se resto a casa nessuno mi viene a trovare;
Che mai farò nelle lunghe ore oziose?
Collocata la sedia in un debole raggio di sole,
Ho scaldato il vino e aperto il mio libro di versi.

Il libro si chiude con la Dinastia dei Sung (960- 1278 d.C.)

Sotto questa dinastia si diffuse in modo particolare il tzu, che è un piccolo poema musicale.
Tra i poeti più significativi vanno ricordati Sou Che (1036- 1101 d. C), e Lu Yu (1125-1210 d. C.).

Riporto il testo Per la nascita del suo bambino, di Sou Che

Ogni famiglia, quando nasce un bimbo
Lo vuole intelligente;
Io coll’intelligenza
Ho rovinato tutta la mia vita;
Spero solo che il bimbo si dimostri
Stupido ed ignorante;
Coronerà così una vita placida
Diventando Ministro

E infine, una lirica di Lu Yu intitolata Veleggiando in autunno

Via, via – veleggio nella mia barca leggera,
Salta il mio cuore con grandi salti di gioia.
Tra i rami spogli scorgo il tempio nel bosco;
Sul rivo sottile torreggia il ponte di pietra.
Giù per i viottoli passano pecore e bovi,
Nel villaggio nebbioso gridano corvi e gazze.

Di ritorno a casa bevo una coppa di vino
Né temo il vento vorace che s’alza di sera.


Per concludere, voglio infine riportare un passo della bella prefazione di Eugenio Montale in cui il nostro grande poeta dice:

…”queste poesie di circa due millenni ci lasciano un sentimento in cui l’ammirazione confina col capogiro, col mal di mare. Limpidissime come sono, esse sfuggono a quel metro nuovo che l’età cristiana ha regalato al mondo occidentale, e forse non solo a questo. Non è solo che manchi in esse quell’umanizzarsi del tempo e della natura e quella divinizzazione della donna che son proprie della lirica europea; è piuttosto che qui, come nel miracolo della scultura egiziana e, in minor grado, in quello dell’arte greca, l’uomo e l’arte tendevano alla natura, erano natura; mentre da noi, e da molti secoli, natura ed arte tendono all’uomo, si fanno uomo.”