Archivio | luglio 2021

L’incendio

(foto da web)

Salgono le rosse fiamme
a lambire l’azzurro cielo
della mia Sardegna.

Lavorano gli uomini
nel tentativo di spegnere
il fuoco ormai impazzito.

Ettari ed ettari di terreno muoiono
insieme ad animali innocenti,
dei tanti boschi non rimarrà che cenere.

Intere famiglie abbandonano
spaventate le loro case.
La paura sarà l’unica compagnia.

L’irresponsabile mano
di sconosciuti esseri meschini
ha scatenato nell’isola l’inferno.

Piera M. Chessa

Finalmente appagata

Che cielo azzurro oggi
sulla mia piccola città,
e che coro meraviglioso
tra gli alberi del parco!
Un canto armonioso
s’intreccia ai gorgheggi
di giovani uccelli che danzano
di ramo in ramo.
Sono merli, fringuelli,
tortorelle africane.

Un senso di leggerezza
dopo giorni ininterrotti
di malinconica pioggia.
E’ tempo di uscire,
di raggiungere il mare,
di lasciarsi ammaliare
dal suo ermetico canto.

Accoglierò il suo profumo,
lascerò le mie impronte
sulla sabbia dorata,
affonderò i miei occhi
nell’acqua limpida
che lentamente
accarezzerà la spiaggia.
E camminerò,
camminerò a lungo
senza stancarmi mai.
Avrò il cuore leggero,
e le gambe veloci
non sentiranno tanto
la stanchezza.

E dopo, finalmente appagata,
ritornerò verso casa.

Piera M. Chessa

L’intervista

(foto da web)

Molti anni fa, dedicai questo testo a Jorge Luis Borges, grandissimo scrittore argentino nato a Buenos Aires il 24 agosto del 1899, e morto in Svizzera, a Ginevra, il 14 giugno del 1986.

Desidero riproporlo oggi, dopo tanto tempo.

***

Seduto sul suo divano verde
il vecchio poeta ascolta
l’amico giornalista che domanda.

Da tempo, lo sguardo ormai spento
si posa vuoto sulle cose intorno,
ma una memoria straordinaria,
come una guida,
per la stanza lo accompagna.

Sereno e cortese, racconta la sua vita,
indicando gli oggetti ad uno ad uno
e narrando la storia di ciascuno.

L’amico ascolta e tace
seguendo i movimenti delle mani,
mentre il vecchio ricorda anni lontani
quando l’ombra cresceva
nei suoi fragili occhi al buio rassegnati.

Piera M. Chessa

Una vacanza in Val d’Aosta

Il Santuario di Notre-Dame de Guérison

Luisa e Paola ricordavano ancora, a distanza di anni, quella breve ma intensa vacanza trascorsa in Valle D’Aosta. Diverse volte, in seguito, ebbero modo di parlarne con gli amici, e ogni volta il loro entusiasmo fu tale da spingere alcuni di loro a fare la stessa esperienza.
Loro erano due “cognate/sorelle”, così, ridendo, si presentavano agli altri. Erano talmente legate, talmente complici, da considerarsi tali. E poi vi era in aggiunta un particolare che rendeva il legame ancora più solido: avevano sposato due gemelli.
Anche loro, in realtà, avevano qualcosa di inusuale da raccontare.
La scelta dei genitori, guarda caso, era caduta, dopo lunghe riflessioni, sui seguenti nomi, Alberto e Roberto, e siccome non era possibile abbreviarli e chiamarli Berto entrambi, per tutti diventarono quasi subito Alby e Roby.
“Come rovinare due bei nomi!”, disse qualche parente piuttosto tradizionalista, poco dopo la nascita.
Sta di fatto che i due bambini crebbero felicemente e di divertirono un mondo, non soltanto per i loro caratteri allegri, ma anche perché erano praticamente identici. Due tipetti così non potevano non approfittare di questa particolarità, alle spalle naturalmente di parenti e amici che impazzivano nel tentativo di distinguerli.
Quante risate in quegli anni lontani!

Luisa e Paola, dunque, sei anni prima, avevano deciso di trascorrere una parte delle ferie estive in Valle D’Aosta. Desideravano, per una volta, partire da sole, senza mariti al seguito, con loro avrebbero portato soltanto il cane, in realtà due, possedendone uno ciascuna. Naturalmente, i venti giorni successivi li avrebbero volentieri condivisi con i mariti.
Alby e Roby, o se si preferisce, Alberto e Roberto, abbastanza sconcertati, cercarono blandamente di distoglierle da quella scelta, ma essendo Luisa e Paola due tipini decisi, non mollarono neppure per un secondo.
Ai gemelli non restò altro da fare che cercare di organizzarsi in città contando solo su se stessi.

Le due cognate/sorelle organizzarono dunque il viaggio, prenotarono in un piccolo albergo di Chatillon, località centrale della Valle, luogo stategico per potersi spostare agevolmente. Non ci sarebbero stati problemi neppure per i cani, se ne accertarono prima per telefono, in questo modo, Birillo e Macchia, questi erano i loro nomi, avrebbero potuto seguire le padrone in vacanza.
Le due famiglie, come si può facilmente intuire, erano piuttosto fuori dagli schemi, le si poteva considerare tutto tranne che tradizionali.
Luisa e Paola erano abbastanza diverse l’una dall’altra, ma avevano in comune due cose: l’allegria e la leggerezza, per tutto il resto trovavano sempre il modo di confrontarsi e di arrivare al compromesso. Luisa era la moglie di Alberto, Paola, quella di Roberto. Nessuna delle due coppie aveva ancora dei figli.
Erano giovani e non escludevano la possibilità di averne, solo volevano rimandarne l’arrivo, consapevoli del fatto che la maggior parte del tempo, in seguito, l’avrebbero dovuta dedicare a loro.
Anche i cani erano fuori dagli schemi. Birillo era stato chiamato così perché fin da piccolo, e ancora di più dopo la sterilizzazione, era diventato una piccola palla, essendo poi piuttosto maldestro, tendeva a cadere spesso. Macchia il nome se lo portava dietro fin dalla nascita, e lo doveva a una grande macchia nera che circondava il suo occhio sinistro, per il resto era candido come una nuvola. Entrambe avevano optato per un maschietto, convinte che avrebbero avuto meno problemi.

Partirono da Bergamo, la città in cui vivevano, verso la fine di luglio, portando con loro “solo” le cose che ritenevano essenziali, ma considerando che i cani erano due e occupavano un certo spazio, si ritrovarono con l’auto colma di valigie, animali e tanto altro.
Fu un viaggio abbastanza lungo, soprattutto per le varie soste, Macchia e Birillo fecero presenti più volte le loro esigenze, ma quando arrivarono a Chatillon la stanchezza dell’intero gruppo sembrò svanire di colpo, per la bellezza del luogo, per il verde che le circondava e per i monti che lasciavano spazio allo stupore.
Arrivarono davanti al piccolo albergo, parcheggiarono l’auto nello spazio messo a disposizione degli ospiti, incontrarono i gestori, che si mostrarono molto accoglienti, e subito si recarono nelle loro stanze decise a fare una bella doccia rigenerante.
Incominciava così, per Luisa e Paola, una serena e piacevole vacanza in montagna.

Entrambe avevano viaggiato tanto, erano andate lontano, due girovaghe come loro non potevano certo fermarsi sotto casa, fare solo piccole escursioni fuori porta, eppure quell’estate avevano fatto esattamente ciò di cui avevano bisogno, senza allontanarsi troppo. Lo ripeterono più volte negli anni successivi: era stata la vacanza giusta al momento giusto.
La vissero con calma, senza voler scalare montagne, godendo della natura e della compagnia dei loro amatissimi cani. Scherzando, dicevano spesso tra di loro :” Meglio la compagnia degli amici a quattro zampe che quella dei mariti, loro brontolano sempre, i cani si limitano ad abbaiare ogni tanto!”
In realtà avvertivano la loro mancanza, ma neppure sotto tortura lo avrebbero ammesso.
Eppure, ogni sera, telefonavano e si fermavano a lungo a chiacchierare con loro. Raccontavano come avevano trascorso la giornata, dov’erano state, che cosa avevano visto e le aveva interessate. Un entusiasmo contagioso il loro, un pizzico di affettuosa invidia da parte di Alberto e Roberto.

Sebbene non se lo fossero prefisse, in realtà videro tantissime cose.
Il fatto che la Valle D’Aosta sia una piccola regione permise loro di visitarla quasi tutta, almeno le valli più importanti: quella di Gressoney, di Cogne, di Ayas, per esempio, ma anche alcune più nascoste e dimesse, piccoli borghi dove la vita delle persone sembrava per certi versi incredibilmente diversa, come se si fosse fermata ai tempi dei loro nonni: l’abbigliamento, il modo di porsi, la riservatezza, il lavare gli indumenti ancora nelle vasche, numerose davanti alle case…
La loro auto non le tradì mai e le portò ovunque senza intoppi. Visitarono castelli: Fenis, Verres, Aymaville, Sarre, s’incantarono davanti ai laghi alpini, ai torrenti, ammirarono le straordinarie cime dei monti più alti d’Europa, il monte Bianco, il Rosa, il Cervino, con il suo Lago blu.
Piacque loro moltissimo Cogne e il Parco del Gran Paradiso. Riuscirono persino ad incontrare alcuni stambecchi, che da animali timidi quali sono rimasero tuttavia a debita distanza; e mentre andavano via, sentirono ad un tratto il caratteristico fischio delle marmotte.
Si fermarono, cercando di far piano, di non sbattere la portiera dell’auto, sperando che Birillo e Macchia non si mettessero ad abbaiare. Fu un attimo, ma riuscirono a vederle. Erano due: una faceva da sentinella su una piccola altura, l’altra correva verso la tana. Fu una grande emozione, nonostante le tante esperienze fatte, quella la ricordarono a lungo.

Eppure fu qualcosa di molto particolare a colpirle profondamente, forse più di tutto.
Un giorno, verso le cinque del pomeriggio, dopo aver visitato il castello di Sarre, si fermarono in un’area pic-nic.
Faceva caldo, lasciarono liberi i loro cani, sapevano che non si sarebbero allontanati, e decisero di fare una piccola merenda all’aperto approfittando dei tavoli e delle panche.
L’area era ombreggiata grazie ai pini e ai numerosi abeti. Loro si trovavano su una piccola altura, rispetto alla valle. Volevano rilassarsi e permettere a Birillo e Macchia di scaricare almeno in parte la loro energia tenuta un po’ a freno.
A quell’ora preferivano sempre consumare della frutta, non le avrebbe appesantite, e nello stesso tempo le avrebbe dissetate. Potevano scegliere tra mele, pere o pesche.
Mentre mangiavano, ascoltavano il tepore del sole sulla pelle, e in lontananza, lo scampanellio delle mucche al pascolo. Intorno a loro ammiravano il verde dei prati.
A un certo punto, guardando verso il basso, videro qualcosa che si muoveva, che oscillava quasi. Pensarono a un animale selvatico: un capriolo, uno scoiattolo, ne avevano visto alcuni, nei giorni precedenti, all’interno di un bosco… Invece no, per quanto ancora lontano, intuirono che si trattava di un uomo, o forse una donna, che avanzava.
Mentre si avvicinava, capirono che era un uomo anziano, procedeva infatti lentamente e teneva sulle spalle una gerla colma di fieno. Indossava abiti piuttosto modesti, ma dignitosi. Quando arrivò dove loro sedevano intente a consumare la frutta, si fermò a pochi passi di distanza senza dire niente.
Paola e Luisa capirono che non avrebbero potuto continuare la loro merenda senza condividere il cibo con lui.
Fu Luisa a prendere per prima una mela, ma sarebbe potuta essere anche una pera o una pesca, fu un puro caso, il primo frutto che le capitò tra le mani.
L’anziano rifiutò gentilmente, e loro non sapevano proprio che fare: continuava a stare in piedi e le osservava in silenzio.
A un certo punto fu Paola a notare che lui guardava intensamente le pesche che proprio lei aveva sistemato in un piatto, dopo averle lavate alla fontana dell’area pic-nic. Fu tutto chiaro.
Gliele offrirono volentieri, e mentre mangiava assaporandole con gusto, quasi con voracità, loro lo guardavano con discrezione.
Quando finì, le ringraziò con enfasi in un italiano approssimativo, senz’altro più abituato a esprimersi in dialetto, prima di ritornare a valle, come se avesse avuto in dono una somma ingente e non semplicemente alcune pesche.
Mentre si allontanava, Luisa e Paola ne parlarono ancora tra di loro, convinte che nella sua povera vita non ne avesse mai gustato, mentre era più probabile che mangiasse spesso delle mele, così tanto diffuse in Valle.

E quando, felicissime, tornarono a Bergamo, di fronte alla curiosità dei mariti, che volevano sapere proprio tutto della loro vacanza valdostana, il primo fatto che raccontarono fu proprio l’incontro con l’anziano contadino. La dimostrazione che quella breve esperienza aveva lasciato in loro un segno profondo.

Piera M. Chessa