Dall’alto del colle guardo la verde vallata dove rocce e cespugli s’intrecciano con armonia. Incastonato tra i prati il lago regala l’azzurro tenero delle sue acque. Al centro del paese fra i tetti delle case s’innalza lo squadrato campanile di una chiesa. Nel profondo silenzio dell’altura sento penetrare sotto gli abiti leggeri il fresco pungente dell’infanzia.
Note
. Il Colle di San Gavino: il punto più alto del paese . Il lago Lerno . La Chiesa Della Madonna del Rosario
Oggi è il 23 di maggio, e in questo mese che è tra i più belli dell’anno si ricorda, con dolore e indignazione mai sbiaditi dal tempo che passa, la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e di tre giovani agenti della sua scorta: Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, avvenuta esattamente trent’anni fa a Capaci, Palermo, il 23 maggio del 1992 . Quattro famiglie spezzate.
Ancora oggi è difficile dimenticare le parole di Rosaria Costa, la giovanissima moglie di Vito Schifani, aveva 22 anni, che disse, rivolgendosi ai mafiosi: ” Io vi perdono, ma vi dovete mettere in ginocchio.”. Aveva un bambino di quattro mesi, Emanuele, che del padre ricorda solo le cose che fin da bambino di lui ha sentito dire. Oggi, giovane uomo di trent’anni, è Capitano della Guardia di finanza.
Giovanni Falcone sapeva bene fin dall’inizio che quel che poi è successo sarebbe potuto con molte probabilità succedere. Ne era pienamente consapevole, eppure non si è mai tirato indietro, nonostante le non poche incomprensioni con diversi suoi colleghi che spesso ne hanno criticato l’operato.
Un uomo e un giudice da ammirare e apprezzare, coerente e forte nel portare avanti un progetto estremamente difficile e pieno di insidie: la lotta alla mafia, la lotta a “Cosa nostra”.
Fortunatamente al suo fianco c’erano alcuni colleghi e amici che con lui hanno condiviso successi e sconfitte, e in particolare il giudice Paolo Borsellino, con il quale, nell’estate del 1985, trascorse un mese nel Carcere dell’Asinara, entrambi con le rispettive famiglie, per sfuggire agli agguati di cui già si incominciava a parlare, mentre lavoravano a quello che venne in seguito chiamato il “maxiprocesso” contro ” Cosa nostra”.
Tutti noi, in questi anni, abbiamo ricordato e continueremo a farlo, quella terribile strage, perché il silenzio e l’oblìo non possono cadere su fatti così importanti e dolorosi.
Così come abbiamo il dovere di non dimenticare l’altro terribile agguato avvenuto in via D’Amelio, sempre a Palermo, a Paolo Borsellino e alla sua scorta, vittime anch’essi di “Cosa nostra”, due mesi dopo, il 19 luglio dello stesso anno.
A tutti loro il nostro grazie, per l’immenso contributo dato nella lotta contro la mafia.
Qualche tempo fa, lessi un libro molto bello e coinvolgente, anche “faticoso”, ma non certamente per lo stile, che anzi è assolutamente un punto di forza per chi l’ha scritto, quanto per il contenuto.
Il libro di cui parlo s’intitola I ragazzi del ciliegio, il cui sottotitolo è 1918-1945, e già queste due date chiariscono bene quello che intendo dire. L’autrice è Fiorella Borin, e l’opera è stata pubblicata nel 2019 dalla Casa Editrice Solfanelli.
Racconta la storia di una grande amicizia, ma anche di quel periodo della nostra storia così terribile e dolorosa che dagli storici, e persino da noi, gente comune, viene chiamata “la ritirata russa”.
Ora non voglio entrare nei dettagli, ma soltanto condividere, in questo difficile periodo di guerra che coinvolge due stati del nostro continente, un bel brano tratto da questo libro che ci ricorda momenti durissimi della seconda guerra mondiale, un tempo che sembra lontano ma che non lo è, e che dovrebbe insegnarci ancora oggi quanti danni la guerra possa fare, e quanto possa in breve tempo annullare quella pace che credevamo duratura e che invece può sbriciolarsi nel giro di qualche mese.
Consiglio a chi può di leggere questo libro così bello e intenso, e anche di farlo conoscere agli adulti e ai ragazzi, a loro soprattutto. Un libro che, lo dissi già in altre occasioni, non dovrebbe mancare almeno nelle scuole secondarie.
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Ed ecco, di seguito, il brano citato, tratto da Il racconto di Ernesto.
“Eravamo ancora in stazione, quando si scatenò l’inferno. Udimmo dapprima un grido, poi un coro di urla atterrite:” I russi! I russi!” E vedemmo avanzare sei cose immense, sei mostri che sparavano fuoco contro di noi. Al confronto di quei bestioni d’acciaio, i nostri carri armati sono davvero scatole di sardine.
[…] Mio cugino Vincenzo venne ferito a una spalla, lo vidi accasciarsi sulla neve, mi gettai su di lui per fargli scudo con il mio corpo, lui è più piccolo di me, diciannove anni appena compiuti, avevo giurato alla nonna che avrei vegliato su di lui. E invece vedevo il suo viso farsi sempre più bianco.
Me lo caricai in spalla, mi misi a correre e, entrando in paese, vidi ovunque elmetti, moschetti, zaini gettati a terra, cadaveri di soldati italiani squarciati dalle schegge di granata o, ancora peggio, scientemente e crudelmente schiacciati dai cingoli dei carri armati con la stella rossa. Stirati come panni, ed erano uomini.
[…] Ma la promessa fatta alla nonna fu più forte della stanchezza e dello sconforto. Mi rimisi a correre, con mio cugino sulle spalle. Seguivo un caporale e un sergente che parevano conoscere la strada, e difatti ci trovammo finalmente fuori da quell’inferno, i colpi di mitragliatrice arrivavano sempre più lontani. Mi fermai un attimo per riprendere fiato. Rovesciai con la massima delicatezza possibile Vincenzo sulla neve bianca, pulita, gli frizionai le mani gelate, gli alitai sul viso per scaldarlo, ma i suoi occhi rimanevano chiusi, e le labbra mute. Dovevo a tutti i costi fasciargli strettamente la spalla, per cercare di fermare l’emorragia. Quando fa così freddo, il sangue non esce copioso come a tempereture più miti; e, nella disgrazia, questa fu una fortuna.
Decisi di entrare in un’isba. Ce n’era una proprio lì vicino. Bussai, entrai nel vestibolo, mi tolsi il cappotto e bussai alla seconda porta. I tedeschi entrano nelle isbe aprendo le porte a calci; i soldati italiani invece bussano – questa è una delle prime lezioni apprese al mio arrivo in Ucraina. Mi venne ad aprire una vecchia, avrà avuto settant’anni, mi guardò negli occhi e poi, vedendo mio cugino esanime, con il cappotto rosso di sangue, congiunse le mani e si spostò per farmi entrare.
Al centro della stanza c’era una grande stufa, che emanava un calore delizioso. L’arredamento dell’isba era quasi inesistente, tanto era misera la vita di quella povera famiglia. Un armadio, due cassapanche, un tavolo e cinque sedie scompagnate. Non c’era quasi altro, se non dei fiori di carta incollati alle pareti, a incorniciare le tre minuscole finestre. Solo due sedie erano occupate: due donne sulla cinquantina lavoravano a maglia. Si assomigliavano, dovevano essere sorelle, senza dubbio le figlie della vecchia che fissava Vincenzino tenendo le mani giunte e biascicando parole incomprensibili.
“Ia italianski,” dissi. “Niet deutsch.” Sono italiano, non tedesco. Questo valse a tranquillizzarle: sui loro volti fece capolino un piccolo sorriso, che mi rincuorò.
Le due donne si precipitarono a spingere le due cassapanche una addosso all’altra. La vecchia estrasse dall’armadio un paio di coperte che stese sulla cassapanca, a mo’ di materasso. Mi aiutarono ad adagiare Vincenzo su quel letto improvvisato, che era comunque il miglior letto su cui si fosse disteso da quando eravamo partiti da Verona.
Mi porsero una tazza contenente un liquido caldo, forse un tè rinforzato con un cucchiaino di vodka; l’accostai alle labbra di mio cugino, il vapore caldo lo inebriò e riprese i sensi. Bevve: guardò le donne con riconoscenza, con uno stupore che lo fece tornare, per un attimo, bambino. I suoi lineamenti parvero riprendere l’innocenza dell’infanzia, il candore di quando la guerra non c’era.”
( Fiorella Borin, I ragazzi del ciliegio – 1918 – 1945 – 2019 Edizioni Solfanelli)
In questo giorno dedicato al ricordo ho tra le mani una fotografia, voglio guardarla mentre scrivo di te, un grande aiuto per me nel parlarti, nel provare a risentire la tua voce ora lontana, nel rivedere i tuoi occhi castani da giovane, vivaci e luminosi, da anziana, spesso tristi.
E quel tuo sorriso mesto, diverso dalle antiche risate così contagiose da suscitare in noi il riso, ignari del motivo che le aveva provocate, mentre il tuo tempo scorreva veloce e con fatica.
Tu, mamma Nina, così diversa nei tuoi ultimi anni, così lontana con gli occhi e con la mente, eppure così vicina e amata proprio come una figlia, accudita e accompagnata nell’ultimo tratto della vita.
Anche quest’anno, come ogni anno da diverso tempo, ecco che è arrivato il giorno dedicato alle mamme. A tutte le mamme: quelle giovani, quelle meno giovani, e quelle che ora sono diventate vecchie. Ed è un gesto molto bello quello di non dimenticare nessuno. E allora io, ma come me penso anche altri, ritengo che si possa essere madri anche se non si hanno figli. Intendo dire che ci sono tante donne che, per motivi diversi, non hanno avuto un figlio proprio, eppure sarebbero delle mamme straordinarie perché sentono di esserlo dentro di sè e lo dimostrano in diverse occasioni. Ho conosciuto alcune insegnanti così, ma anche diverse zie, che hanno amato profondamente i loro alunni e i loro nipoti con la stessa intensità che avrebbero dimostrato verso i figli, se ne avessero avuto. Certamente si possono fare delle obiezioni a questo mio breve ragionamento, ed è giusto così perché ognuno ha il diritto di avere le proprie opinioni. In questa giornata, tuttavia, io voglio fare gli auguri a tutte le mamme: quelle che i figli li hanno avuti, quelle che li hanno adottati, purtroppo dopo attese infinite, e quelle che li hanno tanto desiderati ma inutilmente, e che sarebbero state quasi certamente delle ottime madri.
Buon 8 maggio a tutte loro!
Di seguito, alcune poesie dedicate alle madri.
La Madre, di Giuseppe Ungaretti
E il cuore quando d’un ultimo battito avrà fatto cadere il muro d’ombra per condurmi, Madre, sino al Signore, come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa, Sarai una statua davanti all’eterno, come già ti vedeva quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia, come quando spirasti dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato, ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto, e avrai negli occhi un rapido sospiro.
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La mamma, di Ada Negri
La mamma non è più giovane e ha già molti capelli grigi: ma la sua voce è squillante di ragazzetta e tutto in lei è chiaro ed energico: il passo, il movimento, lo sguardo, la parola
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Grazie mamma, di Judith Bond
Grazie mamma perché mi hai dato la tenerezza delle tue carezze, il bacio della buona notte, il tuo sorriso premuroso, la dolce tua mano che mi dà sicurezza. Hai asciugato in segreto le mie lacrime, hai incoraggiato i miei passi, hai corretto i miei errori, hai protetto il mio cammino, hai educato il mio spirito, con saggezza e con amore mi hai introdotto alla vita. E mentre vegliavi con cura su di me trovavi il tempo per i mille lavori di casa. Tu non hai mai pensato di chiedere un grazie. Grazie mamma.
Ho finito esattamente in questo momento di guardare alla televisione un servizio sull’Afganistan, e percepisco ancora addosso una sorta di pelle d’oca dopo aver rivisto un numero considerevole di ragazze e giovani donne camminare per le strade con un burqa celeste che le ricopre completamente. E’ trascorso all’incirca un anno dal giorno in cui i talebani tornarono al potere, era lo scorso 15 agosto, sapevamo già quello che sarebbe successo, ma speravamo in tanti che non avvenisse. Si sono ripresi spazio e tempo e hanno riportato gli orologi indietro di vent’anni. Anni di difficili conquiste, di libertà da nutrire e da rendere sempre più sicura, con la speranza di poter vivere come ciascuno di noi desidera. Invece no, quel sogno si è spezzato in modo definitivo per tante donne, come quello di poter liberamente studiare, frequentare le scuole e leggere sapendo di poter scegliere. Non so spiegare in questo momento quello che oggi ho provato, indubbiamente dolore e una forte indignazione, ma nessuna delle due cose può essere di aiuto a donne come noi che tuttavia non sono come noi, perché conosciamo il dono della libertà, e sappiamo che la nostra finisce solo nel momento in cui inizia quella di un altro, mentre loro da poco tempo potevano dire di conoscerne il gusto e di saperlo apprezzare. Una cosa è certa: quando un intero Paese ritorna indietro di vent’anni invece di progredire, anche noi, Paesi occidentali, regrediamo, perchè non siamo stati capaci di aiutarlo, o non abbiamo voluto, stando al suo fianco in modo costruttivo. Forse qualche capo di Stato dovrebbe fare qualche serio esame di coscienza.
Desidero riproporre un testo che scrissi lo scorso anno, quando i talebani purtroppo conquistarono Kabul. Certamente non è di nessun aiuto, ma forse ci fa sentire un po’ più vicini alle tante donne afgane che senza dubbio hanno perso ogni speranza in un futuro che credevano sarebbe stato migliore.
Per le strade di Kabul
Camminano ora lente e silenziose le giovani donne per le strade di Kabul. Nascondono i loro bei volti, i loro corpi sensuali e l’angoscia dei loro occhi scuri sotto un lungo e ampio involucro nero che tutto modifica e deforma.
Vent’anni trascorsi inutilmente, frantumati in pochi istanti, subito riempiti e sostituiti da regole antiche, ingiuste e crudeli. Regole sconosciute e mai capite, così lontane da quell’oggi finora vissuto e amato da ragazze che hanno sempre coltivato e nutrito il seme più prezioso e ambito: quello della Libertà.
Raggio dopo raggio s’infradicia il bianco gocciolano allegre le grondaie una carezza di sole dà l’addio all’ultima neve. Nell’aria ancor fresca la primavera s’annuncia fra crochi esitanti che sporgono il capo e la gioia di vivere di rondini tornate dai caldi deserti d’oltremare. Un vecchio in panchina scalda le dolenti giunture e la bocca sdentata s’apre in un rapido sorriso. Un’altra primavera un’altra stagione rubata all’eternità.
(Renzo Montagnoli, dalla silloge “Il cerchio infinito” – 2008 – Edizioni Il Foglio)
Il nostro mare è minaccioso e autoritario quando si arrabbia, talvolta disorienta persino noi isolani da generazioni che pure lo conosciamo. Confonde la sua immensità, il sembrare nel suo piccolo quasi un oceano.
Così appare ai nostri occhi quando le onde sembrano impazzite e pronte a divorare la terra. Ed è in quei giorni di furore che portano via parte della spiaggia lasciando sulla sabbia intrisa d’acqua conchiglie grandi e piccole di vari colori, legni di ogni dimensione e un senso di devastazione.
Poi la rabbia si placca e ritorna la calma. La sabbia si asciuga, il sole in alto risplende già pronto a confortare gli abitanti di un’isola che tuttavia è impossibile non amare.
Un Primo Maggio molto particolare quello di quest’anno, è tanta infatti l’amarezza e la preoccupazione per questa guerra che sembra durare molto più a lungo di quanto inizialmente avessimo pensato. E sono molti i problemi economici e sociali che ne derivano. Senza dimenticare le diverse difficoltà non ancora del tutto superate legate alla pandemia. Una festa dei lavoratori, dunque, in tono minore.
Voglio tuttavia oggi condividere, anche per allontanare per qualche minuto le tante incertezze di questo periodo, alcune poesie di Gianni Rodari, poeta scanzonato e apparentemente leggero, ma in realtà così profondo e consapevole di quanto sia complicato il nostro vivere. Il tema dei testi proposti sarà naturalmente il lavoro.
Riporto infine alcune riflessioni legate allo stesso tema.
Capelli bianchi
Quanti capelli bianchi ha il vecchio muratore? Uno per ogni casa bagnata dal suo sudore. Ed il vecchio maestro quanti capelli ha bianchi? Uno per ogni scolaro cresciuto nei suoi banchi. Quanti capelli bianchi stanno in testa al nonnino? Uno per ogni fiaba che incanta il nipotino.
Gianni Rodari
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I colori dei mestieri
Io so i colori dei mestieri: sono bianchi i panettieri, s’alzan prima degli uccelli e han farina nei capelli; sono neri gli spazzacamini, di sette colori son gli imbianchini; gli operai dell’officina hanno una bella tuta azzurrina, hanno le mani sporche di grasso: i fannulloni vanno a spasso, non si sporcano nemmeno un dito, ma il loro mestiere non è pulito.
Gianni Rodari
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Gli odori dei mestieri
Io so gli odori dei mestieri: di noce moscata sanno i droghieri, sa d’olio la tuta dell’operaio, di farina sa il fornaio, sanno di terra i contadini, di vernice gli imbianchini, sul camice bianco del dottore di medicina c’è un buon odore. I fannulloni, strano però, non sanno di nulla e puzzano un po’.
Gianni Rodari
“Nessun male sociale può superare la frustrazione e la disgregazione che la disoccupazione arreca alle collettività umane.” Federico Caffè
“Io credo nel popolo italiano. È un popolo generoso, laborioso, non chiede che lavoro, una casa e di poter curare la salute dei suoi cari. Non chiede quindi il paradiso in terra. Chiede quello che dovrebbe avere ogni popolo.” Sandro Pertini
“L’amore e il lavoro sono per le persone ciò che l’acqua e il sole sono per le piante.” Jonathan Haidt
“Se si escludono gli istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la miglior approssimazione concreta alla felicità: ma questa è una verità che non molti conoscono.” Primo Levi
“Il meglio del vivere sta in un lavoro che piace e in un amore felice.” Umberto Saba
“Il lavoro è umano solo se resta intelligente e libero.” Papa Paolo VI