Quando il passato sembra non insegnare niente al presente

(foto da web)

Qualche tempo fa, lessi un libro molto bello e coinvolgente, anche “faticoso”, ma non certamente per lo stile, che anzi è assolutamente un punto di forza per chi l’ha scritto, quanto per il contenuto.

Il libro di cui parlo s’intitola I ragazzi del ciliegio, il cui sottotitolo è 1918-1945, e già queste due date chiariscono bene quello che intendo dire. L’autrice è Fiorella Borin, e l’opera è stata pubblicata nel 2019 dalla Casa Editrice Solfanelli.

Racconta la storia di una grande amicizia, ma anche di quel periodo della nostra storia così terribile e dolorosa che dagli storici, e persino da noi, gente comune, viene chiamata “la ritirata russa”.

Ora non voglio entrare nei dettagli, ma soltanto condividere, in questo difficile periodo di guerra che coinvolge due stati del nostro continente, un bel brano tratto da questo libro che ci ricorda momenti durissimi della seconda guerra mondiale, un tempo che sembra lontano ma che non lo è, e che dovrebbe insegnarci ancora oggi quanti danni la guerra possa fare, e quanto possa in breve tempo annullare quella pace che credevamo duratura e che invece può sbriciolarsi nel giro di qualche mese.

Consiglio a chi può di leggere questo libro così bello e intenso, e anche di farlo conoscere agli adulti e ai ragazzi, a loro soprattutto. Un libro che, lo dissi già in altre occasioni, non dovrebbe mancare almeno nelle scuole secondarie.

***

Ed ecco, di seguito, il brano citato, tratto da Il racconto di Ernesto.

“Eravamo ancora in stazione, quando si scatenò l’inferno. Udimmo dapprima un grido, poi un coro di urla atterrite:” I russi! I russi!” E vedemmo avanzare sei cose immense, sei mostri che sparavano fuoco contro di noi. Al confronto di quei bestioni d’acciaio, i nostri carri armati sono davvero scatole di sardine.

[…] Mio cugino Vincenzo venne ferito a una spalla, lo vidi accasciarsi sulla neve, mi gettai su di lui per fargli scudo con il mio corpo, lui è più piccolo di me, diciannove anni appena compiuti, avevo giurato alla nonna che avrei vegliato su di lui. E invece vedevo il suo viso farsi sempre più bianco.

Me lo caricai in spalla, mi misi a correre e, entrando in paese, vidi ovunque elmetti, moschetti, zaini gettati a terra, cadaveri di soldati italiani squarciati dalle schegge di granata o, ancora peggio, scientemente e crudelmente schiacciati dai cingoli dei carri armati con la stella rossa. Stirati come panni, ed erano uomini.

[…] Ma la promessa fatta alla nonna fu più forte della stanchezza e dello sconforto. Mi rimisi a correre, con mio cugino sulle spalle. Seguivo un caporale e un sergente che parevano conoscere la strada, e difatti ci trovammo finalmente fuori da quell’inferno, i colpi di mitragliatrice arrivavano sempre più lontani. Mi fermai un attimo per riprendere fiato. Rovesciai con la massima delicatezza possibile Vincenzo sulla neve bianca, pulita, gli frizionai le mani gelate, gli alitai sul viso per scaldarlo, ma i suoi occhi rimanevano chiusi, e le labbra mute. Dovevo a tutti i costi fasciargli strettamente la spalla, per cercare di fermare l’emorragia. Quando fa così freddo, il sangue non esce copioso come a tempereture più miti; e, nella disgrazia, questa fu una fortuna.

Decisi di entrare in un’isba. Ce n’era una proprio lì vicino. Bussai, entrai nel vestibolo, mi tolsi il cappotto e bussai alla seconda porta. I tedeschi entrano nelle isbe aprendo le porte a calci; i soldati italiani invece bussano – questa è una delle prime lezioni apprese al mio arrivo in Ucraina. Mi venne ad aprire una vecchia, avrà avuto settant’anni, mi guardò negli occhi e poi, vedendo mio cugino esanime, con il cappotto rosso di sangue, congiunse le mani e si spostò per farmi entrare.

Al centro della stanza c’era una grande stufa, che emanava un calore delizioso. L’arredamento dell’isba era quasi inesistente, tanto era misera la vita di quella povera famiglia. Un armadio, due cassapanche, un tavolo e cinque sedie scompagnate. Non c’era quasi altro, se non dei fiori di carta incollati alle pareti, a incorniciare le tre minuscole finestre. Solo due sedie erano occupate: due donne sulla cinquantina lavoravano a maglia. Si assomigliavano, dovevano essere sorelle, senza dubbio le figlie della vecchia che fissava Vincenzino tenendo le mani giunte e biascicando parole incomprensibili.

Ia italianski,” dissi. “Niet deutsch.” Sono italiano, non tedesco. Questo valse a tranquillizzarle: sui loro volti fece capolino un piccolo sorriso, che mi rincuorò.

Le due donne si precipitarono a spingere le due cassapanche una addosso all’altra. La vecchia estrasse dall’armadio un paio di coperte che stese sulla cassapanca, a mo’ di materasso. Mi aiutarono ad adagiare Vincenzo su quel letto improvvisato, che era comunque il miglior letto su cui si fosse disteso da quando eravamo partiti da Verona.

Mi porsero una tazza contenente un liquido caldo, forse un tè rinforzato con un cucchiaino di vodka; l’accostai alle labbra di mio cugino, il vapore caldo lo inebriò e riprese i sensi. Bevve: guardò le donne con riconoscenza, con uno stupore che lo fece tornare, per un attimo, bambino. I suoi lineamenti parvero riprendere l’innocenza dell’infanzia, il candore di quando la guerra non c’era.”

( Fiorella Borin, I ragazzi del ciliegio – 1918 – 1945 – 2019 Edizioni Solfanelli)

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