Archivio | aprile 2021

Il tuo frutteto

Mi sembra ancora di vederti
al centro del frutteto
salire lungo il sentiero
che conduce alla tua casa.
Alberi ovunque sui due lati
dove i rami, colmi d’arance,
espandevano tanta luce
con i loro caldi colori.
I dolci frutti trasmettevano gioia
tenendo lontana l’arsura
nelle calde giornate estive
quando ci s’incontrava
per pranzare insieme e godere
della reciproca compagnia.

Tanti anni sono trascorsi,
quasi una vita intera
ai miei occhi di sorella,
qualsiasi cosa intorno
sembra, dopo quel giorno,
priva d’ogni bellezza.
Da quando le tue scarpe
non calpestano più
la tenera erba del viale,
da quando la tua voce potente
non arriva lontano,
e il tuo sguardo fraterno,
così intenso e caro,
non può più incontrare il mio.
Manca la tua forte presenza,
fa troppo male
la tua infinita assenza.

Piera M. Chessa

Che cosa significa essere partigiani?

(foto da web)

Sono giorni importanti questi che stiamo vivendo, giorni che devono rimanere nella nostra memoria. Il 25 aprile, due giorni fa, abbiamo ricordato la nostra Liberazione dal regime nazifascista, avvenuta nel 1945 dopo due anni di lotta durissima e amara da parte dei partigiani. Uomini e donne di idee diverse, e anche con ruoli diversi, ma tutti uniti dal desiderio comune di ritornare uomini liberi e di sconfiggere ogni genere di dittatura.
Non sempre ci soffermiamo sul significato del termine “partigiano”, eppure è importante farlo.
Il partigiano è colui che parteggia per qualcosa o per qualcuno, che prende parte, che fa una scelta ben precisa, che non decide di rimanere neutrale, una posizione molto comoda e senza rischi.
Chi ha aderito alla Resistenza ha scelto, non ha pensato di voltarsi da un’altra parte aspettando tempi migliori. In molti, durante il regime fascista, lo hanno fatto, mettendo a tacere la propria coscienza. E in tanti, se ci pensiamo, lo fanno ancora oggi, e probabilmente sarà così anche nel futuro. Ma gli uomini e le donne che hanno coraggio e dignità non agiscono così. Ognuno di noi, nel suo piccolo, può fare qualcosa anche in tempo di pace, ognuno usando gli strumenti che più gli sono congeniali; non ci viene chiesto di fare gli eroi, ma ci viene chiesto, anche e soprattutto dai giovani, di essere coerenti e di assumerci la responsabilità delle nostre scelte. Possono essere piccole cose, ma il nostro contributo è comunque utile alla società; così come, se sbagliamo, sapendo di sbagliare, anche azioni apparentemente innocue possono essere deleterie per la collettività, e ancor di più se compiute in malafede. E a questo proposito quante cose si potrebbero dire analizzando il presente!

Antonio Gramsci è stato un uomo che ha scelto, non ha avuto dubbi nel decidere se opporsi o meno al regime fascista, sapendo anche a che cosa poteva andare incontro, e giudicando in modo severo chi decideva di non prendere posizione.
Per chi si opponeva, quante manganellate, quanti assassinii, Matteotti è solo un esempio tra i tanti, e quanti esuli!
Possiamo dire che Gramsci non sia stato un partigiano, un combattente, anche se la Resistenza, come la intendiamo oggi, doveva ancora arrivare? Io credo di no.
Hanno cercato di farlo tacere in tutti i modi, lo hanno condannato a vent’anni di carcere “perché il suo cervello doveva smettere di funzionare”.
Quando lo hanno arrestato aveva trentacinque anni, quando è morto, a causa della detenzione e delle malattie di cui soffriva da tempo, ne aveva quarantasei.
Oggi, voglio ricordarlo nel giorno della sua morte, avvenuta il 27 aprile 1937.


Di lui riporto due passi di un articolo che pubblicò l’11 febbraio 1917 su La città futura.

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.

[…]

Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.


Piera M. Chessa

Ricordando la mia e nostra cara amica Graziella Cappelli

Graziella è andata via nel settembre dello scorso anno. Lo ha fatto con discrezione, in punta di piedi, con grandissima dignità, perché lei era così.
Oggi è una giornata speciale per la nostra Italia: il 25 aprile, giorno della Liberazione. Una data che nessun italiano per bene può dimenticare, e ieri, che era la vigilia, ne ho parlato un po’, proprio per non dimenticare.
Ma questo giorno lo ricordo e lo ricorderò anche perché è la data di nascita di Graziella.
Il 25 aprile del 1945 nasceva una bambina minuta, con due occhi luminosi, uno sguardo penetrante e una cascata di capelli neri meravigliosi. Credo che fosse già molto bella.
Io non la conobbi allora, non ero ancora nata, ma tanti anni dopo, sì, per questo mi piace immaginarla così anche in quel momento.
La sua vita, almeno per un tratto, non è stata molto facile, però a lei ha regalato qualcosa di straordinario: la passione per la scrittura, sia in versi che in prosa. Mi pare di aver capito che uno dei suoi nonni avesse la stessa passione, è molto probabile quindi che sia stato lui a trasmettergliela.
Graziella ha scritto tanto, sua figlia Lara ne è testimone, ed è anche grazie a lei che su facebook possiamo continuare a leggere testi già noti ma anche inediti.
Manca molto la sua presenza, i suoi versi così incisivi, la sua prosa che talvolta diventa poesia. Manca la possibilità di guardare ancora la natura con i suoi occhi sempre attenti, lei che la osservava minuziosamente, e così bene la descriveva e la “viveva”. Manca il suo grande affetto per gli animali, i gatti , in particolare, ma anche l’empatia, il suo modo di abbracciare quell’umanità che chiamiamo “bella”, dove non esiste la cattiveria, e anche la severità nell’esprimere con schiettezza giudizi negativi su ciò che nella società non le piaceva.
Io ho avuto modo di chiacchierare al telefono con lei, di raccontarci un po’ di cose. Aveva una risata cristallina, ed essendo toscana, una parlata molto simpatica e coinvolgente. Davvero un bel ricordo.
Sono passati un po’ di mesi da quando non c’è più, ma il dispiacere è ancora grande, e lo sarà sempre.
Ci sono, per fortuna, delle persone così speciali che attraversano la tua vita lasciandoti in dono tante cose belle, mi ritengo fortunata, perché di persone così ne ho incontrato alcune, e devo dir loro grazie per i doni che mi hanno fatto e non mi abbandonano più. Una di queste è indubbiamente Graziella.
Ho due libri scritti da lei, uno in versi e l’altro in prosa, entrambi molto cari, così come mi sono care le due dediche che mi ha lasciato.
Oggi sarà anche lei a raccontare di sè.

Buon compleanno, Graziella.


Le rondini

Sono tornate
a sorvolare
la casa di pietra
ai margini del bosco.

S’apre il cielo
ai garriti
di frecce piumate e
tra le fronde inverdite
riecheggiano
altri gridi
altri frulli.

Esulta il cuore
spalanca finestre
ad aria nuova
si fa piccolo nido
negli anfratti
del muro a sud
si accoccola.

Mi manchi…

Mite Morgana
mantello
morbido
magico
musicale
miagolio.

Micia mia
migrata
mistica
memoria
melanconica
m’avvolge.

(Dalla raccolta “Nel palazzo dell’ombraPoesie“, di Graziella Cappelli – Ibiskos Editrice Risolo)

Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana – 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945 – Einaudi 2003

Ho letto in questi giorni un libro molto particolare. Non si tratta di un romanzo, e neppure di un saggio, ma di una raccolta di lettere inviate ai familiari da 112 persone condannate a morte tra il 1943 e il 1945.
Erano combattenti di età diversa e di diversa provenienza sociale, eppure così legati gli uni agli altri più di quanto noi oggi possiamo immaginare. Tutti, giovani e meno giovani, più esperti e meno esperti, dimostrarono grande dignità davanti a un evento individuale così tragico come una condanna a morte. Condanna che veniva comunicata pochissimo tempo prima dell’esecuzione. Talvolta il giorno precedente, spesso, nella stessa giornata. Eppure raramente lasciarono che la paura prendesse il sopravvento, la convinzione di aver fatto sempre una cosa giusta, e quindi di aver lottato per una giusta causa, diede loro una forza e un coraggio che ha dell’inverosimile.
Il loro più grande dispiacere derivava dal fatto di non poter più vedere la famiglia: la moglie, i figli, i genitori, la madre, in particolare, e i più giovani anche la propria ragazza. E in ugual misura l’aver procurato loro una profonda sofferenza. Per questo motivo chiedevano sempre perdono.
Erano ragazzi di diciassette, diciannove, ventuno, ventiquattro anni, ma anche trentenni e quarantenni, qualcuno aveva cinquanta o sessant’anni. Vi erano anche delle donne, coraggiose in ugual misura, anche nei momenti in cui salutarono i propri cari, i figli in particolare.
Forza e dignità unirono dunque queste vite spezzate dalla cattiveria di altri uomini, dalle torture imposte loro prima della condanna definitiva. Torture e percosse sopportate fino allo sfinimento, talvolta, fino alla morte. Eppure raramente vennero meno alla loro promessa: quella di non parlare, di non tradire, di non denunciare i propri compagni di lotta.
Ammetto di aver sofferto leggendo queste lettere, di aver provato pietà e ammirazione, ma anche una profonda indignazione.
Non si può rimanere indifferenti, non solo nell’immaginare il dolore, ma soprattutto davanti alla forza d’animo dimostrata pur sapendo che la propria vita sta per concludersi.
Come per alcuni altri libri che mi hanno coinvolto in modo particolare, sono fermamente convinta che anche questo, facendo delle scelte appropriate, debba essere letto e commentato nelle scuole.
I nostri ragazzi, se affiancati da noi adulti, sanno essere forti, non scappano davanti alle letture faticose e agli esempi difficili, perché intuiscono che possono diventare per loro anche delle opportunità per una crescita equilibrata.


Di seguito, un brano tratto dalla Nota introduttiva di Gustavo Zagrebelsky.

“Queste lettere non sono state scritte per venire in mano a noi che le leggiamo. Concepite nel momento più solenne della vita, un momento che non a tutti è dato di vivere, quando in piena lucidità e coscienza si è faccia a faccia con se stessi, in presenza della morte, erano indirizzate alla cerchia delle persone più vicine e care, in cui sono riposti gli affetti e da cui nasce l’impegno civile. Chiedono conforto, memoria e anche perdono per una scelta compiuta che è causa di dolore, spiegata e giustificata come adesione necessaria a un valore superiore. L’essere divenuto libro, aperto alla pubblica lettura, è un’intromissione: giustificata di certo dal loro significato universale, ma pur sempre un’intromissione.
[…]
Se affrontiamo questa lettura emotivamente gravosa dunque, facciamolo col pudore di chi sa di accingersi a qualcosa di simile a una profanazione e in un colloquio diretto e silenzioso, da coscienza a coscienza.”


Ignoto (Renzo)


(dall’archivio di Milano del Corpo Volontari Libertà)

Caro papà,

benchè non sia nato nel tuo stesso letto e non porti il tuo nome, sono riconoscente di quanto hai fatto per me nella vita terrena. Sono sull’orlo della vita terrena e mi involo nel più alto dei cieli. Tu che sei un uomo di alti sentimenti, sappi che tuo figlio muore per un alto ideale, per l’ideale della Patria più libera e più bella.
Dì al mio vero papà che lo perdono di tutto il male che ha fatto e che questo lo stimoli ad essere un uomo onesto nella vita.
Caro papà, tutta la mia riconoscenza te la esprimo col mio cuore: caro papà, sappi che non ho amato come mio insegnante di vita laboriosa ed onesta altro che te. […]

Renzo

Maria Luisa Alessi (Marialuisa)
Di anni 33 – impiegata – Fucilata il 26 novembre 1944

Cuneo, 14 novembre 1944

Come già sarete a conoscenza, sono stata prelevata dalla Brigata Nera: mi trovo a Cuneo nelle scuole, sto bene e sono tranquilla.
Prego solo non fare tante chiacchiere sul mio conto, e di allontanare da voi certe donne alle quali io debbo la carcerazione.
Solo questa sicurezza mi può far contenta, e sopra tutto rassegnata alla mia sorte. Anche voi non preoccupatevi, io so essere forte.
Vi penso sempre e vi sono vicino.
Tante affettuosità.

Maria Luisa

Bruno Cibrario ( Nebiolo)
Di anni 21 – disegnatore – Fucilato il 23 gennaio 1945

Dalle Carceri Giudiziarie di Torino
22 gennaio 1945

Mamma carissima,

perdonami per il dolore che ti do.
Quello che ho fatto, chiunque non sia un vile lo avrebbe fatto. Mio padre non potrebbe che approvarmi. Lui che ha combattuto mi capisce. Io non sarò meno di lui.
Forse questa è l’ultima che scrivo. Sii forte per le bambine, esse non hanno che te. Devi voler loro anche il bene che hai voluto a me.
[…]

Bruno

Walter Fillak (Gennaio, Martin)
Di anni 24 – studente – Impiccato il 5 febbraio 1945

Mia carissima Ines,

sono caduto prigioniero e sarò fucilato.
Non mi pento di quanto ho fatto per la Causa: e non cambierei la mia vita anche se mi fosse possibile tornare indietro.
Spero che la brevità della nostra conoscenza diminuirà il tuo dolore e ti auguro di aver presto, molto presto dalla vita quella felicità che avrei voluto darti io.
Il mio ultimo bacio.

Walter

Paola Garelli (Mirka)
Di anni 28 – pettinatrice – Fucilata il 1° novembre 1944

Mimma cara,

la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata, sii buona, studia ed ubbidisci sempre gli zii che t’allevano, amali come fossi io.
Io sono tranquilla. Tu devi dire a tutti i nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che do loro. Non devi piangere né vegognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio. Ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo.
Abbraccio con il pensiero te e tutti, ricordandovi

la tua infelice mamma

Leone Ginzburg
Di anni 34 – docente universitario – Ridotto in fin di vita a causa delle percosse, morirà a Regina Coeli (Roma) il 5 febbraio 1944

Natalia cara, amore mio,

ogni volta spero che non sia l’ultima lettera che ti scrivo, prima della partenza o in genere; e così è anche oggi. Continua in me, dopo quasi un’intera giornata trascorsa, il lieto eccitamento suscitatomi dalle tue notizie e dalla prova tangibile che mi vuoi così bene. Questo eccitamento non ha potuto essere cancellato neppure dall’inopinato incontro che abbiamo fatto oggi. Gli auspici , dunque, non sono lieti; ma pazienza. Comunque, se mi facessero partire non venirmi dietro in nessun caso. Sei molto più necessaria ai bambini, e soprattutto alla piccola.
E io non avrei un’ora di pace se ti sapessi esposta chissà per quanto tempo a dei pericoli, che dovrebbero presto cessare per te, e non accrescersi a dismisura. So di quale conforto mi privo a questo modo; ma sarebbe un conforto avvelenato dal timore per te e dal rimorso verso i bambini. […]

Leone

Giuseppe Salmoirago
Di anni 41 – commerciante – Fucilato il 15 ottobre 1944

Adriana cara,

tuo papà ti lascia per sempre, ma anche dal di là ti proteggerà; tu hai un’età che ormai comprendi e un dovere da compiere, tu mi capisci vero? Sii coraggiosa come sempre e difendi tu la causa che a tuo padre fu negata dalle canaglie nazifasciste; pensa a tua madre a tua sorellina.

Cara moglie e bambine,

non piangete e siate orgogliose del vostro caro marito e padre, a 18 anni feci diciotto mesi di carcere, e ora a 41 do la vita mia per il mio ideale e per la libertà della nostra patria. Vi mando il mio ultimo saluto,il mio forte abbraccio a te moglie mia cara e alla piccola Iuci e a te cara Adriana; falle tanto coraggio alla mamma.


Vostro padre e marito

Giuseppe Salmoirago

La Terra: un pianeta che soffre

Oggi, 22 aprile 2021, celebriamo la Giornata Mondiale della Terra, ricordando però tutti i giorni, e non un solo giorno all’anno che il suo destino è strettamente intrecciato al nostro. O meglio ancora, è il nostro destino a essere indissolubilmente legato alla sua sopravvivenza.

Possiamo ormai vederlo quotidianamente osservando i cambiamenti continui che avvengono sul nostro pianeta.

La mancanza di rispetto, di cura e attenzione ci ha portati quasi a un punto di non ritorno. Possiamo solo salvare il salvabile, ma per poterlo fare dobbiamo cambiare totalmente rotta. E dobbiamo farlo tutti, se vogliamo sopravvivere, ognuno la sua parte.

Facciamo in modo che queste non siano solo parole vuote, prive di contenuto e colme di retorica.

Abbiamo grosse responsabilità, tanta supponenza e altrettanto egoismo. Che cosa aspettiamo per fare un cambio di passo? Basta guardarsi intorno. Che ne è stato dei meravigliosi ghiacciai che ci hanno sempre colmato di stupore? Non esistono quasi più. E i cosiddetti polmoni verdi, fondamentali per la vita di tutti noi? Penso all’Amazzonia, ma non solo, sempre più poveri d’alberi, sempre meno rispettati, per motivi legati unicamente al dio moneta, l’unico nel quale si crede.

Disboschiamo ovunque e poi ci stupiamo davanti alle calamità naturali sempre più frequenti nel mondo, compresa la nostra Europa e la nostra Italia.

Continuiamo a riempire di plastica i mari e gli oceani, ad inquinare i cieli, a sprecare l’acqua quando non c’è motivo. Quell’acqua che credevamo inesauribile, sempre a disposizione. Non c’è nulla d’infinito sulla Terra, e l’acqua diventerà un bene preziosissimo.

Ma il concetto principale, quello che non riusciamo a interiorizzare, è legato al futuro. Al nostro futuro più vicino, ma soprattutto a quello di chi vivrà quando noi ce ne saremo andati definitivamente, e non avremo più bisogno di tutto ciò che con poca lungimiranza abbiamo sprecato e buttato con un solo gesto della mano.

Eppure la vita sulla Terra non si conclude con noi. Ci pensiamo? No, non molto, perché il nostro senso di responsabilità è piuttosto scarso. Non possiamo dire ai nostri figli, e soprattutto ai nostri nipoti: “Arrangiatevi!”, perché i nostri genitori non l’hanno mai detto. Loro sì, hanno pensato al nostro futuro, cercando di costruirne almeno una parte, una buona parte.

Noi, no. Abbiamo preso a piene mani, consumato e sprecato. Che cosa lasciamo in eredità? Davvero poco, se non cambiamo mentalità, il nostro sguardo sulla natura, sulle risorse che scarseggiano, su di noi, che con lei finora abbiamo solo giocato, credendo di vincere sempre e perdendo invece tutto.

C’è una sola cosa ancora da capire, anche se ci viene difficile ammetterlo: L’uomo sulla Terra è soltanto un ospite, esattamente come tutte le altre forme viventi, è di passaggio, e non ne è certamente il padrone.

***

«Solo quando l’ultimo albero sarà abbattuto e l’ultimo fiume avvelenato e

l’ultimo pesce pescato ci renderemo conto che non possiamo mangiare il denaro».

(Proverbio indiano)

«Non ereditiamo la Terra dai nostri antenati, la prendiamo in prestito dai nostri

figli».

(Proverbio navajo)

***

Di seguito un po’ di foto, per non dimenticare mai quanto la nostra Terra sia bella.

Piera M. Chessa

Finalmente il vaccino!

Presso il lago Omodeo (OR)

Qualche giorno fa, il 13 di questo mese (bel numero che a me piace tanto perché a lui devo la mia nascita, avvenuta in primavera, ma a un passo dall’estate), sono stata vaccinata contro quel virus tanto minuscolo quanto malefico che tanto danno ha fatto.
Il vaccino stabilito per la fascia d’età alla quale appartengo è AstraZeneca che, mi pare di aver capito, in questo periodo ha anche cambiato nome, come se questo bastasse a renderlo meno detestabile. Però, quello c’è e quello bisogna accettare.
Ammetto di provare un po’ d’ansia, ma la voglia di ricominciare presto a vivere con maggior tranquillità è più forte di qualsiasi preoccupazione.

Arrivo al Palazzetto dello Sport un po’ prima delle 17, ora stabilita, così ci è stato chiesto, e all’ingresso non devo fare praticamente nessuna fila.
Inizialmente parlo con un’infermiera, che controlla se i fogli richiesti sono stati compilati per bene. Tutto a posto. Mi indirizzano poi verso una lunga fila di sediette rosse, senza spalliera. Là, dobbiamo aspettare il nostro turno, giustamente distanziati l’uno dall’altro. Nel frattempo, chiacchiero un po’ con la mia vicina benché tra lei e me ci siano due sediette vuote. La guardo, e nonostante sorrida, noto che il suo viso è un po’ tirato, certamente è preoccupata. E immagino che in me percepisca lo stesso stato d’animo.
Per fortuna l’attesa non è particolarmente lunga, ma sufficiente per farci venire un po’ di mal di schiena. Ci guidano poi, cinque alla volta, verso i “gabbioni”, piccole stanze predisposte per le vaccinazioni.
Finalmente arriva il nostro turno. Percorriamo un pezzetto di corridoio. Le stanzette a disposizione sono dieci, situati sui due lati; distanziate l’una dall’altra, ci sono invece dieci sedie, stavolta comode e con la spalliera. Mi indirizzano verso la postazione numero 8.
“Sedetevi e attendete il vostro turno”, dice l’infermiera che ci accompagna. Sedendomi, sento subito la schiena rilassarsi.
Pochi minuti di attesa e finalmente entro. Mi accolgono due medici, una donna e un uomo, ma poco dopo la dottoressa esce. Mostro al medico i fogli compilati, come mi è stato detto all’ingresso. Li guarda in silenzio, poi gli chiedo alcuni chiarimenti. Mi sembra una persona taciturna, ma mi risponde in modo cortese. Procede quindi col vaccino. Non sento neppure la puntura, solo leggermente la medicina che si espande. Mi consegna infine un cartoncino con la data stabilita per la seconda dose.
Quando esco, vengo indirizzata verso la zona in cui dovrò aspettare per un quarto d’ora. Ne approfitto per parlare al telefono con i miei, così quei minuti passano velocemente. Ho un’improvvisa voglia di aria, di sole, dei colori della primavera.
Mentre aspetto, sento un leggero prurito nel punto in cui è stata fatta la puntura. So già che può succedere, come anche avvertire un certo indolenzimento al braccio, oppure avere, nelle ore successive, un po’ di febbre. Piccole cose.
Trascorso il tempo stabilito, esco. Vedo mio marito che mi viene incontro.

Che bello, il primo pezzetto di strada è stato fatto!

L’indomani mattina, sul tardi, avverto dei brividi, nel pomeriggio arriva un po’ di febbre. Come mi è stato detto, prendo l’antifebbrile. Un’ora dopo, il termometro segna 36,5, da quel momento la febbre non salirà più. Tra due mesi e mezzo, inietterò la seconda dose.
Penso, con un senso di leggerezza ormai sconosciuto da tempo, che ci sono davanti a noi ancora i due mesi più belli della primavera, e anche l’intera l’estate da godere, e poi ancora il dolce autunno, stagione che a me piace ugualmente tanto.
Buon vaccino a tutti, dunque! Quando arriva il vostro turno, non lasciatevi scappare questa opportunità. E’ umano avere paura, ma aiuta molto il sapere che solo il vaccino ci permetterà di ricominciare a vivere!

Piera M. Chessa

Siamo in zona rossa

Ebbene sì, ce l’abbiamo fatta, possiamo esserne orgogliosi! Veramente un onore per la nostra isola aver conseguito questo risultato!
Non so davvero quale sentimento prevalga in me in questi ultimi giorni, certamente non qualcosa di positivo. La mia ironia è nutrita dalla rabbia, dalla delusione, dall’indignazione.
Da mesi, guardandomi intorno, vedo tante persone senza mascherina, altrettante che non rispettano la distanza di (almeno) un metro. Talvolta mi sento una bestia rara, e quasi mi viene il dubbio che sia io in torto, ma capita anche ai tanti che la pensano come me.
Ci siamo lasciati prendere dall’euforia, quando siamo stati in zona bianca, senza riflettere sul fatto che se volevamo rimanerci, dovevamo stare attenti ed essere scrupolosi. Figuriamoci, riflettere un po’ è troppo faticoso, perché mai sprecare energie inutilmente!
Diciamo, con ragione, di essere molto preoccupati per la situazione economica della nostra Sardegna, poi, concretamente, ci comportiamo come persone totalmente prive di consapevolezza e serietà. Ho visto donne e uomini con le lacrime agli occhi, incapaci di parlare per la disperazione, senza lavoro, e quindi, senza futuro.
Ma a chi vive la sua vita con superficialità, importa ben poco, direi, nulla, l’angoscia di un altro. Molti ragazzi si comportano così, e non va certamente bene, però, quando vedo gli adulti, e sono tanti, avere comportamenti irresponsabili, la mia rabbia veramente sale alle stelle.
Ma quello che maggiormente m’indigna sono le frasi che ripetono come un mantra senza che venga chiesta loro una spiegazione, ogni volta che li si incontra per la strada: “A quest’ora non credevo di incontrare nessuno, di solito uso la mascherina!” Oppure: “Accipicchia, l’ho dimenticata in auto!” E ancora: “Non ce la faccio più a tenerla, non la sopporto!” E a me viene istintivo pensare ai tanti lavoratori che devono tenerla per ore e ore. Per non parlare degli operatori sanitari…
Poco tempo fa, si parlava di vaccini, una signora mi ha detto:” Io non potrò fare il vaccino, me lo ha ripetuto alcune volte il mio medico, perché soffro di allergie.”. L’ho guardata, indecisa se essere gentile o lasciarmi andare a una rabbia incontrollata, perché lei è una delle tante che non usa quasi mai la mascherina. Ho optato per una via di mezzo: “Signora, a maggior ragione dovrebbe usare la mascherina, così protegge dal virus se stessa e anche gli altri, che la indossano inutilmente se non la mette anche lei”.
Devo dire che un piccolo risultato l’ho ottenuto: dopo quell’incontro non l’ho più vista senza che avesse il viso coperto. Ma è solo l’eccezione che conferma la regola.
Incontrare ragazzi che vanno a scuola di fretta perché sono in ritardo, a piedi o in bicicletta, senza mascherina è la regola. Certamente non posso dire che tutti si comportino così, sono comunque tanti, troppi.
E ora eccoci a questo punto. Alcune settimane in bianco, subito dopo in arancione, senza passare neppure per il giallo, giustamente, dico, perché si vedeva già allora come andavano le cose, e ora, in rosso.
E’ vero che le vaccinazioni sono andate a dir poco a rilento, è anche vero che talvolta i vaccini non ci sono, ma proprio per questa confusione, e non voglio aggiungere altro, dovevamo tutelarci con i mezzi che avevamo e abbiamo a disposizione ormai da tanti mesi: l’igiene, l’uso delle mascherine, il rispetto delle distanze.
Sì, la zona rossa ce la siamo proprio meritata, e come comunità non possiamo certamente esserne orgogliosi. Io amo profondamente la mia isola, ma non si può difendere l’indifendibile.
Una minore arroganza e un pizzico di umiltà forse avrebbero alleggerito una situazione che sta diventando per tutti, per chi rispetta le regole e per chi non le rispetta, veramente insostenibile.

Piera M. Chessa

Ricordando Martin Luther King e il suo sogno

(foto da web)

Martin Luther King, il cui vero nome era Michael King Jr., nasce il 15 gennaio del 1929 ad Atlanta, in Georgia, nel Sud degli Stati Uniti. Il padre era un pastore protestante, la madre, un’insegnante. Fu proprio lui a dare al figlio quel nome per la profonda stima che nutriva verso Martin Lutero.

Il giovane Martin si accorge molto presto di quanto i paesi e le città del profondo sud siano razzisti nei confronti dei neri. Avviene già quando frequenta il primo corso di studi. In quel periodo, infatti, alcuni vicini di casa, genitori di un suo compagno, proibiscono ai figli di giocare con lui e con gli altri bambini neri. E certamente nel corso degli anni gli capita spesso di trovarsi in situazioni simili.

Studia Giurisprudenza, gli pare che sia quella la strada giusta per poter essere di aiuto ai suoi fratelli neri, ma non completa gli studi. Si iscrive poi alla facoltà di teologia, e diventa, come il padre, pastore protestante. Nel 1952, giovanissimo, tiene la sua prima predicazione nella chiesa battista di Atlanta, mostrando fin da allora un’incredibile propensione per l’arte oratoria. Incomincia a manifestare verso Gandhi una grande stima e altrettanto interesse per la sua lotta non violenta. Nel 1953 si laurea in filosofia. Nello stesso anno sposa Coretta Scott, anch’essa attivista, che affiancherà sempre il marito nelle battaglie civili in difesa degli afroamericani. Con lei, nel 1954, si trasferisce a Montgomery, in Alabama, dove diventa pastore della chiesa battista.

Ma è nel 1955 che, in seguito a un fatto estremamente ingiusto, capisce che bisogna opporsi seriamente ai tanti soprusi che continua a vedere intorno a sè.

Il 10 dicembre, a Montgomery, una giovane donna nera, ultimato il suo lavoro, sale su un autobus per rientrare a casa. Poiché i posti per gli afroamericani, situati nella parte posteriore del mezzo, sono tutti occupati, Rosa Parks, questo è il suo nome, va a sedersi sul davanti, in un sedile riservato ai bianchi. Per questo gesto ritenuto offensivo, viene severamente ripresa, ma lei non si alza. Così viene arrestata e portata in carcere.

Nei giorni successivi vengono organizzate diverse manifestazioni, nessun uomo o donna di colore sale sugli autobus. Questa lotta non violenta va avanti per tanto tempo. Martin Luther King ne diventa subito il leader, per questo motivo viene accusato di aver procurato ingenti danni economici alla Compagnia dei trasporti pubblici.

Dovrebbe presto andare a processo, ma prima che questo avvenga, l’Alta Corte Costituzionale dichiara illegali gli abusi che i neri da tanto tempo sono costretti a subire sugli autobus di numerose città.

Parecchie volte, in seguito, Luther King verrà incarcerato, e in diverse circostanze sarà John Kennedy a pagare personalmente le cauzioni, perché possa uscire dal carcere.

Continua comunque senza sosta la sua rivoluzione non violenta. In tanti si uniscono a lui in questa lotta certamente difficile, molti neri, ma anche dei bianchi. Le manifestazioni si susseguono in tante città, e i sostenitori diventano sempre più numerosi. Nel corso degli anni scrive e tiene parecchi discorsi, seguiti con grande partecipazione. Le richieste sono sempre le stesse: diritti civili uguali per bianchi e neri. M.L. King lotta per il diritto di voto, si batte contro la segregazione razziale, e per le differenze tra bianchi e neri nelle assunzioni di lavoro.

Nel 28 agosto 1963, cento anni dopo il proclama di Lincoln per l’affrancamento dei neri dalla schiavitù, a Washington e in oltre ottocento città si organizzano manifestazioni non violente. E’ purtroppo la polizia a mostrarsi violenta nei confronti dei dimostranti. Tuttavia la pressione pubblica è talmente forte che il governo incomincia a cedere su alcuni punti.

La marcia di Washington viene guidata da M.L.King. Sono presenti duecentocinquantamila persone, cantano e pregano intorno al monumento di Lincoln. Chiedono che venga approvata la legge sulla parità dei diritti civili. E’ in quei momenti che L. King fa forse il suo discorso più appassionato e commovente: I have a dream (Io ho un sogno).

Il 22 novembre del 1963, il Presidente John Kennedy viene ucciso. In quella circostanza, Martin Luther King, consapevole del pericolo che corre, sembra abbia detto alla moglie che probabilmente anche lui sarebbe stato assassinato.

Nel 1964 finalmente il Congresso promulga la legge per la difesa dei diritti civili dei neri. E’ lo stesso anno in cui King ottiene il Premo Nobel per la Pace. I soldi ricevuti in premio verranno utilizzati per la causa degli afroamericani.

Il 4 aprile del 1968, M.L.King decide di partecipare ad uno sciopero indetto dai netturbini di Memphis. Mentre già si trova in un piccolo albergo della città, ed esattamente in una terrazza intento a chiacchierare con alcuni collaboratori, viene colpito alla testa da un colpo di fucile partito probabilmente da una finestra del palazzo situato di fronte. M. L. King muore quasi subito. Ha trentanove anni.

Nel frattempo, il presunto assassino, James Earl Ray, approfittando della confusione, riesce a scappare. Qualche mese dopo, però, viene catturato a Londra. Si proclama innocente, ma dice di conoscere il nome del vero assassino. Non gli credono e lo mettono in carcere.. Al processo viene condannato a 99 anni di detenzione.

Tuttavia, ancora oggi, su questa uccisione rimangono molti punti oscuri.

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Il 4 aprile di quest’anno, a 53 anni dal giorno della morte, Martin Luther King viene ricordato, in un’intervista alla televisione, anche da uno dei suoi quattro figli: Martin Luther King III.

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Di seguito, tre brani tratti dal Discorso tenuto a Washington il 28 agosto 1963: Io ho un sogno (I have a dream)

…”Ma c’è qualcosa che devo dire al mio popolo, fermo su una soglia rischiosa, alle porte del palazzo della giustizia: durante il processo che ci porterà a ottenere il posto che ci spetta di diritto, non dobbiamo commettere torti. Non cerchiamo di placare la sete di libertà bevendo alla coppa del rancore e dell’odio. Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano elevato di dignità e disciplina. Non dobbiamo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Sempre, e ancora e ancora, dobbiamo innalzarci fino alle vette maestose in cui la forza fisica s’incontra con la forza dell’anima.”…

…”Il cammino è pieno di asprezze, ma nonostante le fatiche e le umiliazioni, ho ancora un sogno. Sogno che sulle rosse colline della Georgia i figli degli antichi schiavi e degli schiavisti possano sedere insieme al tavolo della fratellanza. Sogno che lo Stato del Mississipi, rigonfio d’oppressione e di brutalità, sia trasformato in terra di libertà e di giustizia. Sogno che un giorno l’Alabama sia trasformato in uno Stato dove bambine e bambini neri potranno dare la mano a bambine e bambini bianchi, e camminare insieme come fratelli e sorelle”…

…”Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!”…

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A tanti anni di distanza, noi sappiamo bene che il suo sogno non si è ancora del tutto avverato.

Martin Luther King è riuscito certamente a far modificare alcune leggi, sulla carta alcuni diritti civili sono diventati realtà, ma il cammino verso una vera giustizia sociale è purtroppo molto lungo, e lo dimostrano i numerosi e recenti casi avvenuti in America.

Riflettendo sul significato della Pasqua

foto da web

Madre Teresa di Calcutta è nata a Skopje, nella Macedonia del Nord, il 26 agosto del 1910, ed è morta a Calcutta, in India, il 5 settembre del 1997. Ha fondato la Congregazione religiosa delle Missionarie della carità, dedicando interamente la sua vita ai poveri.
Grazie a questo suo continuo impegno, nel 1979 ha ottenuto il Premio Nobel per la Pace. È stata poi proclamata beata da papa Giovanni Paolo II il 19 ottobre del 2003, e infine santa da papa Francesco il 4 settembre del 2016.

Propongo una sua bellissima preghiera intitolata Ho sentito il battito del tuo cuore

Ti ho trovato in tanti posti, Signore.
Ho sentito il battito del tuo cuore
nella quiete perfetta dei campi,
nel tabernacolo oscuro di una cattedrale vuota,
nell’unità di cuore e di mente di un’assemblea
di persone che ti amano.
Ti ho trovato nella gioia,
dove ti cerco e spesso ti trovo.
Ma sempre ti trovo nella sofferenza.
La sofferenza è come il rintocco della campana
che chiama la sposa di Dio alla preghiera.
Signore, ti ho trovato nella terribile
grandezza della sofferenza degli altri.
Ti ho visto nella sublime accettazione
e nell’inspiegabile gioia di coloro
la cui vita è tormentata dal dolore.
Ma non sono riuscito a trovarti
nei miei piccoli mali e nei miei banali dispiaceri.
Nella mia fatica ho lasciato passare inutilmente
il dramma della tua passione redentrice,
e la vitalità gioiosa della tua Pasqua è soffocata
dal grigiore della mia autocommiserazione.
Signore, io credo. Ma aiuta la mia fede.

Madre Teresa di Calcutta


Enrico De Luca, detto Erri, è nato a Napoli il 20 maggio del 1950. E’ uno scrittore, un poeta, un giornalista e un traduttore.

Ecco l’augurio che lui fa in questa breve ma profonda riflessione:

“Allora sia Pasqua piena per voi che fabbricate passaggi dove ci sono muri e sbarramenti, per voi apertori di brecce, saltatori di ostacoli, corrieri a ogni costo, atleti della parola pace.”.

Erri De Luca


Bertolt Brecht è nato ad Augusta, in Germania, il 10 febbraio del 1898, ed è morto a Berlino Est il 14 agosto del 1956. E’ stato un drammaturgo, poeta, saggista e regista teatrale.

Bellissimo questo testo scritto nel lontano 1938

Primavera 1938

Oggi, domenica di Pasqua, presto
un’improvvisa tempesta di neve
si e’ abbattuta sull’isola.
Tra i cespugli verdeggianti c’era neve. Il mio ragazzo
mi ha portato verso un piccolo albicocco attaccato alla casa
strappandomi ad un verso in cui puntavo il dito contro coloro
che stanno preparando una guerra che
puo’ cancellare
il continente, quest’isola, il mio popolo,
la mia famiglia e me stesso. In silenzio
abbiamo messo un sacco
sopra all’albero tremante di freddo.

Bertolt Brecht


Umberto Veronesi è nato a Milano il 28 novembre del 1925, è morto, sempre a Milano, l’8 novembre del 2016. E’ stato Presidente della Fondazione Umberto Veronesi, da lui stesso fondata, e Direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia.

Ecco di lui una considerazione molto interessante su certi nostri comportamenti non proprio coerenti:

“Non c’è una differenza biologica fra animali. Perché allora ci fa orrore il pensiero di mangiare il nostro cane, ma massacriamo a ogni Pasqua centinaia di agnelli per fare festa?”.


Umberto Veronesi


Gianni Rodari è nato a Omegna il 23 ottobre 1920, è morto a Roma il 14 aprile del 1980. E’ stato un pedagogista, scrittore, giornalista, poeta e partigiano. Le sue opere sono state tradotte in molte lingue.

Infine un testo apparentemente più leggero, ma non meno profondo.

Dall’uovo di Pasqua

Dall’uovo di Pasqua
è uscito un pulcino
di gesso arancione
col becco turchino.
Ha detto: “Vado,
mi metto in viaggio
e porto a tutti
un grande messaggio”.
E volteggiando
di qua e di là
attraversando
paesi e città
ha scritto sui muri,
nel cielo e per terra:
“Viva la pace,
abbasso la guerra”

Gianni Rodari

Alghero: una città che rimane nel cuore

Scrissi questo testo tanti anni fa, nell’agosto del 2008, è quindi abbastanza “datato”, però mi piace riproporlo perché, rileggendolo, ho rivissuto quei giorni con piacere e nostalgia, ma anche con un pizzico di rimpianto. Tanti anni sono infatti trascorsi, e tante cose nel frattempo sono successe…

Alghero, la “piccola Barcellona”, così veniva chiamata, è una città che amo molto per le atmosfere e le suggestioni che sa trasmettere. Vado a rivederla ogni tanto, ma sempre abbastanza di corsa. Quella volta invece è stata tutta un’altra cosa: passeggiate lente, non per pigrizia ma per una scelta ben precisa, sguardi che si soffermavano a lungo sulle sue bellezze, tra queste anche le sue chiese ricche di storia, e i bei palazzi antichi.

Il risultato è stato piacevolissimo: un senso di appagamento che ricordo ancora molto bene.

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Alghero: mare e mura, profumi e colori

Ho trascorso la settimana scorsa ad Alghero, città turistica piuttosto conosciuta. Stando lì, e non di passaggio, come spesso mi accade, ho potuto “farne parte”. Ho fatto lunghissime passeggiate e mi sono “guardata intorno”. Credo che mai, come in questi giorni, lei ed io abbiamo avuto modo di conoscerci. E devo dire che ci siamo piaciute!

Ho nelle narici i suoi profumi, l’odore del mare, diverso a seconda del luogo in cui sosti, dei vicoli del centro storico, dove sono stati aperti numerosi ristoranti e trattorie, e nel passarvi accanto, il profumo ti investe e ti spinge a fermarti.

E ho negli occhi i colori, quelli dei coralli, di cui il mare di Alghero è ricco, degli ori e degli argenti esposti nelle vetrine dei negozi situati lunghe le antiche vie della città.

Fare le passeggiate lungo i bastioni che circondano il nucleo più antico è spettacolare, soprattutto se ti affacci dall’alto sul mare, illuminato di giorno dal sole, di notte da una miriade di luci che lo rendono speciale.

Sul lungomare, alla sera, i complessini si alternano alle danze , ai canti, ai fuochi d’artificio, alle giostre coloratissime.

Ho visto una scultura fatta con la sabbia da un artista di strada: un piccolo gioiello che il vento, il mare, lo scorrere del tempo presto porteranno via.

Ho potuto soltanto fotografarla, in seguito certamente non sarà come ammirarla dal vero.

E le innumerevoli bancarelle dei venditori dell’Ecuador, del Senegal, dell’India, della Cina. Quanti colori , quanti piccoli capolavori!

Sedie intagliate, maschere in legno dai colori caldi, oggetti semplici ma talvolta molto belli e delicati.

Maree di persone che a volte ti levano il respiro nel venirti incontro, perché lo spazio manca.

Infine, lontano, là dove sembra che il mare finisca, il lunghissimo promontorio di Capo Caccia: un gigante che dorme disteso sull’acqua.

E proprio in cima, il faro, che insegui con gli occhi mentre alternativamente si accende e si spegne.

Alghero, la città dove il catalano continua a essere parlato e il corallo pescato, dove i turisti continuano a trascorrere le vacanze, incapaci di resistere al suo fascino fatto di mare e marinai, di colori e odori, di torri e bastioni, di vie strette che sanno di pietanze e di gente.

Piera M. Chessa