Kalì
Il 9 ottobre Kalì, la mia gattina, se n’è andata, oggi avrebbe compiuto 3 anni.
A lei dono tutto il mio dispiacere e questo brano tratto dal bellissimo libro di Cesarina Vighy “L’ultima estate”.
Dal capitolo “Viaggio intorno alla mia camera”
…” Ma quella che mi commuove è una fotografia ai piedi del letto: grande, è ben visibile sia la sera, alla lucina del comodino, sia la mattina, quando l’alba la viene a carezzare.
Di norma, non amo le fotografie di famiglia: raggelano i momenti felici alonandoli di nostalgia; quelli tristi rinnovandone la causa. Ma qui è avvenuto un piccolo miracolo: l’immagine, ripresa senza tante pretese, ricompone casualmente un gruppo rispettando l’aspetto, la personalità, l’ordine di arrivo in famiglia, persino la gerarchia di ogni singolo componente.
Sono i miei amici, quelli che ho capito meglio e che mi hanno dato di più.
Sono i miei gatti ormai scomparsi dal mondo visibile, ma sempre nel mio cuore, piccolo cenotafio accogliente.
E’ l’ora del cibo e si sono radunati in cucina, voltando tutti contemporaneamente la testa verso l’inconsueto clic.
Una dama dell’antica corte giapponese sognò una notte una graziosa gattina che le si rivolse parlando così: “Sono la tua amica morta tre mesi fa e, per una lieve colpa, mi sono reincarnata così. Trattami bene”.
Per una lieve colpa.
Il primo è stato Ghego, nome simile a un balbettio infantile: infatti a darglielo era stata mia figlia bambina, che lo considerava una specie di fratello con alcune gradevoli anomalie.
[…]. Bello, di quella bellezza uniforme dei siamesi, buono al punto da lasciarsi vestire da bambolotto, quando arrivò era anche educato a mangiare il suo riso mischiato alla scatoletta. Tempo tre giorni, era già inspiegabilmente viziato.
Dopo molti anni se ne andò per primo, com’è legge di natura; nella foto se ne sta davanti ma appartato, come presago, mentre gli altri formano sulla tavola una fila leggermente sfalsata, rispettando le regole della prospettiva, […].
Il secondo a entrare nella nostra casa era l’esatto contrario del nobile Ghego. Trovato sul portone in un pomeriggio di pioggia furiosa, mia figlia esibì uno straccetto fangoso, lagrimoso, con sole tre zampe, implorandomi di tenerlo. […]Sempre a motivo della zampina mancante, gli toccò il nome di Zombi, adattissimo sì ma in fondo ingiurioso, per cui veniva piegato ai vezzeggiativi come Zombito, Zombino ecc. Io lo chiamavo addirittura “Fra’ Ginepro” o “Pecorella di dio” per la mansuetudine e l’umiltà che manifestava verso i suoi compagni, […].
Nella notte, la sua ultima, tutti gli amici andarono come in pellegrinaggio alla sua cuccia, appoggiata al termosifone per tenerlo caldo, a salutarlo.
[…].
I mori furono trovati un Primo Maggio al parco, sempre da mia figlia, […]. Erano stati appena lasciati lì perché stavano ancora saltando fuori dal loro scatolone mentre un piccolo cerchio di persone si andava formando intorno. Ne uscirono quattro, tutti neri, tutti vivacissimi: la ragazzina usò la gonna, a mo’ di grembiule, per portarmeli.
Erano troppi anche per noi. Fortunatamente, incappammo in una coppia di fidanzatini che si accingeva a fare la prova-matrimonio andando a convivere e, già che c’erano, li attraeva anche la prova-figlio, magari con un animalino.
[…].
I restanti due mori finirono ovviamente nella nostra comunità, come portafortuna. La femmina venne chiamata Marlene, per il suo passo sinuoso da diva anni Trenta che tante volte ho provato a riprodurre, posando un piede esattamente nell’orma del precedente. Il maschio si meritò invece il bel nome di Pansa Nasica (abbreviato familiarmente in Pansy), […].
Carlina è una storia a parte e merita particolare attenzione. Mio marito andava con un amico ogni mercoledì in campagna a nutrire una banda di affamati che un altro buon samaritano cibava la domenica. Morale: questi gatti mangiavano due volte la settimana. Lo spettacolo della distribuzione era indescrivibile, se distribuzione si può chiamare il gettare qua e là brandelli di carne, resti di pesce, grasso di prosciutto evitando contemporaneamente che gli animali si aggredissero l’un l’altro e che i più piccoli, incapaci ancora di saltare le prime file degli adulti, restassero sempre digiuni.
Un giorno, arrivando, i due umani non sentono il solito coro di miagolii furiosi. […]: non un segno di vita. Per la verità un segno di vita c’era ma così malandato che era difficile individuarlo: Carlina. La linea della schiena incurvata da un probabile colpo di bastone, la pancia gonfia, il pelo indurito, […].
Ricerca vana di un veterinario, inesistente in quei paesi, corsa (l’ultima?) a Roma dove viene medicata ma non si riprende; infine qualcuno osa aprirla e trova un rene gonfio da scoppiare: tolto quello comincia il miracolo della resurrezione. E poi non dovrebbe meritare il nome del suo salvatore, mio marito?
Naturalmente non è come gli altri. Mantiene tutte le abitudini acquisite nella sua infanzia selvaggia: si getta sul cibo, proprio e altrui, e si ingozza; lei che dovrebbe mangiare solo poche pappine semiliquide. E poi, ha tutte le malattie possibili: […]. Però, negli intervalli, è simpaticissima. […]. Tutti sappiamo che non ne avrà per molto ma intanto, con la sua frenetica vitalità, tira avanti per nove anni, che sono già un bel traguardo.
Ora non c’è più nessuno di loro ma ognuno ha avuto l’omaggio di un rito confacente alla sua personalità.
Il principe orientale è stato sepolto in un carestoso cimiterino per animali. L’umile fraticello e la diva capricciosa in un campo di amici, fra un ulivo e un pesco, vicini. Il pacifico mangione e la mangiatrice suicida in due grossi vasi, sulla nostra terrazzetta.
Ne avranno di cose da raccontarsi.
Amici gatti, sono stata più vicina a voi che agli umani, lo so. Anche adesso, […], è con queste pacifiche belvette, una scheggia di natura selvaggia conservatasi tra noi, che mi intendo di più.
Ora c’è la Gatta tonda, infermiera, confidente, amica. Ora ci sono due altri gattarelli per casa, a lei antipaticissimi, avuti in affido dalla mia figliola giramondo, affido che spero si trasformi in adozione. Lui è nero come l’inchiostro (Inky), , talmente nero che, se chiude gli occhi, sparisce come il gatto magico di Alice.
Lei è una piccolissima tigre (Tigrina) che nel nome piuttosto ovvio ricorda quello più stravagante di un gatto veneziano che conobbi una vita fa, Tigrin Bellegambette.
[…].
La notte, quando piango a letto, la vecchia amica che dorme sempre ai miei piedi si sveglia subito e viene a strusciare la testina sulle mie guance. Le sue fusa delicate mi ripetono nel buio la promessa che le ho strappato: “ Non me ne andrò prima di te”.
(brano tratto da “L’ultima estate”, di Cesarina Vighy, Fazi Editore)