Archivio | settembre 2009

Il dono

Milvia Comastri
(foto tratta da http://picasaweb.google.com/lh/photo/wBrK5r32c4rkdKEU9tPURw)

Ho letto parecchi racconti scritti da Milvia Comastri ed ogni volta mi stupisco per la sua grande immaginazione, che nasce, secondo me, dall’attenzione e dalla cura messe nell’osservare intorno a sè, ma anche in se stessa e dentro l’animo delle persone che incontra.
Quest’attenzione, l’immaginazione e la capacità di scrivere e di scrivere bene si trasformano in doni per noi che leggiamo.


Il dono

Buio luce buio luce freddo caldo pioggia neve vento.
La sua vita era questa, un’alternanza scandita dagli elementi della natura. L’orologio per misurare la durata del giorno. Il calendario per comprendere l’avvicendarsi delle stagioni.
I suoni erano il fruscio delle brezze fra le foglie degli alberi, il ruggire del mare quando c’era tempesta, il rumore goffo di un frutto maturo che cadeva da un ramo, il ticchettio della pioggia sul tetto della capanna, il fragore del tuono, che pareva spaccare il cielo.
E la sua voce, che a volte era un bisbiglio concitato, a volte un grido prolungato che straziava l’aria.
Ma a pensarci, era tanto che non gridava più. A un certo punto era subentrata una sorta di rassegnazione, come una pazzia soffocata. Era rimasto il bisbiglio e a volte un canto, una ninna nanna che le usciva dalle labbra, senza consapevolezza.
“ Fa la nanna, mio tesor,
          sogna gli angeli belli…”
Ma i suoi figli non sognavano più (da quanto tempo?). Non c’erano più sogni nel mondo (da quando?). Nel mondo era rimasta solo lei. E la sua disperazione senza più sogni.
Nell’altra vita le era capitato tante volte: si sedeva al computer, entrava in un sito, e improvvisamente si apriva un quadratino luminoso, pieno di stelline lampeggianti che conteneva un messaggio: sei stato scelto, clicca qui e riceverai un regalo. Non ci era mai cascata, non aveva mai premuto il mouse per scoprire quale regalo si celasse dietro quell’invito. Sapeva che, nella migliore delle ipotesi, avrebbe trovato solo un messaggio pubblicitario. E lei, poi, non aveva bisogno di regali. Il regalo erano i suoi figli, suo marito, gli amici, il regalo era poter condividere con gli altri le bellezze e i dolori della vita.
Eppure quella mattina l’aveva fatto. Forse perché non c’erano stelline lampeggianti, forse perché la scritta aveva riempito tutto lo schermo ed era racchiusa in un rettangolo sobrio, quattro linee sottili colore indaco.
“Sei tu l’eletta”, diceva la scritta.
Ed Eve-Marie aveva cliccato.
Sullo schermo era apparso il nome della sua città seguito da quello di una piazza a lei sconosciuta.
Aveva cercato sulla mappa, ma quella piazza pareva non esistere. Cercò ancora, inutilmente. Sentì improvviso l’impulso irrazionale di recarsi comunque in quel luogo, così, senza porsi domande.
Era uscita di casa, era salita in macchina, aveva acceso il gps e digitato l’indirizzo. Ed era successo: la voce metallica aveva cominciato a dare indicazioni, con quella sua intonazione perentoria. Aveva pensato ai suoi figli, e aveva sorriso. La signorina che non ti fa perdere mai: la chiamavano così, loro, quella voce.
Aveva attraversato la città, era arrivata in una zona di estrema periferia che non conosceva. La voce continuava a farle da guida. Svoltare a destra. Dopo duecento metri svoltare a sinistra. 
Ed eccola la piazza, con case diroccate ai margini, una fontana al centro mangiata da ruggine e muschio.  
Il numero era il 7.
Il portoncino era aperto. Dietro, solo una scala. Ripida, con i gradini sbrecciati
Cominciò a salire, il cuore sempre più in affanno. 
C’era un vecchio ad attenderla sul pianerottolo dell’ultimo piano.
“ Siamo lieti che tu sia qui” le aveva detto il vecchio, facendola entrare in una stanza dalle pareti azzurre. 
“La nostra scelta su di te è dovuta al caso, a un mero intersecarsi di tempo e spazio” aveva detto con una voce sottile priva di qualsiasi inflessione.
“Il Fato, lo chiamavano gli antichi. Tu ti sei trovata al centro dell’incrocio. Noi siamo qui per farti un dono. Attraverso questo dono tu sconfiggerai la Morte” , aveva proseguito
Le aveva preso una mano e le aveva messo al polso un bracciale fatto di un materiale che a lei aveva ricordato la pietra di luna. Aveva chiuso il monile con una piccola chiave che aveva poi riposto in tasca.
“Ora vai”, le aveva detto, scostandosi da lei e girandole le spalle “ Solo nel tempo potrai capire se il nostro dono è un privilegio.”
Non era riuscita a pronunciare parola, Eve-Marie, davanti a quel vecchio, come se le sue labbra fossero sigillate, e anche il pensiero, lo fosse.
Come un automa era tornata in strada. Il sole sbatteva impietoso sulle vecchie pietre della piazza. Eppure lei stava gelando.
Solo fuori, sotto quella luce accecante, sembrò riacquistare coscienza.
“Un pazzo”, si disse mentre apriva la portiera dell’auto. Il portachiavi sbatté contro il braccialetto, creando un piccolo suono vibrante. “ E pazza io, a venire qui”, mormorò.
Mise in funzione il riscaldamento della macchina, ma il gelo che le era penetrato nelle ossa non l’abbandonò per tutto il tragitto di ritorno.
 
Fu il giorno dopo che accadde la catastrofe. Ma non ne parlò nessun giornale. E nessuna rete televisiva ne propose le immagini. Non era rimasto nessuno per poterla raccontare e mostrare. E nessuno per poterla ascoltare.
In un attimo, il giorno dopo, nel medesimo istante, si erano dissolti tutti: uomini, donne, animali.
Si erano dissolti i bambini.
Si erano dissolti i suoi figli. Erano lì, nel soggiorno, a giocare sul tappeto e in un attimo di loro era rimasta solo una traccia come di fumo di sigaretta. Poi neppure quella.
 
Per Eve-Marie quel momento era il ricordo più atroce. Più di ogni altro. Più che ricordare il suo camminare e camminare e camminare alla strenua ricerca di un altro essere vivente. Più che ricordare i tanti tentativi falliti per porre fine alla sua vita. Più che ripensare all’infinità di volte in cui aveva ostinatamente cercato di aprire quel braccialetto, riuscendo solo, ogni volta, a spezzarsi il polso. Più atroce che vivere in quella solitudine assoluta, dove non esisteva più alcun punto di riferimento.
Dopo quel primo giorno erano scomparsi in poco tempo anche gli edifici e gli oggetti e le macchine. E tutto quello che l’uomo aveva creato in migliaia, milioni di anni. Dissolta la pietra, dissolto il vetro e l’acciaio, dissolte le cattedrali e i luoghi del potere.
Solo la natura era rimasta intatta: le piante, le montagne, i corsi d’acqua, il mare.
E lei, Eve-Marie: prima-ultima donna.
 
 
Quel mattino fu svegliata da un suono che non riconobbe. Non era il fruscio del vento, né il rumore di un frutto che cadeva a terra, né il brontolio del tuono che preannunciava un temporale. Era un suono che le ricordava un tempo lontano.
Strisciò fuori dalla capanna.
C’era un uccello, fermo ai piedi della quercia. Era bianco, solo le punte delle ali avevano una sfumatura color indaco.
La fissava con uno sguardo stanco, da vecchio rassegnato.
Dal suo becco sporgeva una piccola chiave.

Milvia Comastri
 
consulta il blog di Milvia, Rossiorizzonti
 

 

Il ritorno

Tu ritorni dal tuo viaggio in Grecia

e mi racconti di quei luoghi lontani,

terra di monumenti, miti, eroi.


Atene, Salonicco, l’Athos,

capolavori di uomini, meraviglie naturali.


Artisti lontani, uomini straordinari,

monaci ed eremiti

intrecciano le loro storie, le loro vite.


Tu ricordi e rivivi quegli eventi,

condividendo con me il tuo entusiasmo

e il desiderio già vivo di un ritorno.


P.M.C.

 

 

 

Qualche riflessione e… una poesia


Anche oggi mi viene da scrivere su troppe cose che stanno accadendo intorno a noi, nel nostro Paese e lontano da noi.

Sembra che la Pace abbia dimenticato i nostri indirizzi e non trovi più la strada, o forse non ha più voglia di incontrarci, per troppa delusione.

Vengo dal blog di Milvia, ho riletto un post dei giorni scorsi dove si parla non solo dei sei parà uccisi a Kabul ma anche dei tanti innocenti civili morti con loro. Volevo lasciare un commento ma non l’ho fatto, per troppa amarezza.

Ho visitato anche il blog di Eleonora e sono andata via accompagnata dallo stesso stato d’animo, che oggi sembra stare decisamente bene con me!

Nell’articolo riportato da Eleonora si parla di una storia sin troppo simile a quella di cui in questi giorni si è raccontato tanto: la morte di Sanaa. Si tratta di una vicenda avvenuta nel 2004, con moltissime particolarità in comune con quest’ultima.

Ora mi fermo qui, non per vigliaccheria, certo, si potrebbe continuare a lungo, ma perché mente e cuore hanno tanto bisogno di… silenzio.

****

Lascio una poesia e la dedico a C., alla quale auguro ogni bene.

La danza


Ti ho vista ballare sul palco,

bambina ferita,

muovevi leggera i tuoi piedi

seguendo i comandi,

il costume avvolgeva ubbidiente

il tuo corpo sottile

ed un velo copriva impalpabile

la fronte distesa.


Quella sera non c’erano tracce

del tuo stare male,

il dolore era stato rimosso

da due ore di gioia,

dallo sguardo ammirato

di chi guardava in silenzio

i tuoi passi leggeri volare.


P.M.C.



 La follia del pregiudizio

Oggi, verso le 2,30 del pomeriggio, ho acceso il televisore per ascoltare il telegiornale, ma sono rimasta impietrita e senza parole.

Con i titoli, una delle prime notizie che la giornalista ha dato riguarda la morte di una ragazza marocchina di 18 anni, uccisa dal padre perché compagna di un giovane italiano.

La ragazza era musulmana, il ragazzo invece è cattolico e di 13 anni più grande.

Ma non è stata, sembra, la differenza d’età, quanto la diversa religione e la successiva decisione di andare a vivere insieme a scatenare la follia dell’uomo, trasformandolo in un assassino.

Inizialmente avrebbe teso un agguato ad entrambi, avrebbe ferito il giovane italiano, poi avrebbe inseguito la figlia che scappava e l’avrebbe accoltellata, uccidendola.

Si rimane attoniti anche perché si parla di un padre e di sua figlia.

Mi soffermo a pensare a dei rapporti difficili portati avanti per anni, due generazioni diverse che si dovrebbero confrontare, certamente non distruggere.

Possibile che un legame così forte, che dovrebbe avere la priorità nella risoluzione dei problemi, possa essere annullato e diventare niente rispetto alle cosiddette tradizioni, spesso nient’altro che crudeli pregiudizi?

E dietro questo padre-padrone sembra di intravedere, sfumati, quasi invisibili, altri componenti della famiglia, una madre magari, privata di pensieri e azioni autonome, sorelle incapaci di levare la propria voce, fratelli plagiati da una figura maschile autoritaria, un lungo e costante esempio quotidiano che probabilmente ha generato dei cloni, copie perfette del genitore.

Sento l’amarezza che sale, mentre scrivo, ma anche la rabbia e l’indignazione verso ciò che ritengo profondamente ingiusto. Non trovo giustificazioni, neppure pensando che, probabilmente, presso la sua gente, un padre capace di compiere un’azione di questo genere in nome dell’onore è da considerarsi un eroe.

Per me è soltanto un piccolo uomo che la follia ha trasformato in un crudele assassino.

(estb.msn.com/i/80/1FF4ED528EB5F33E6A864196CECE)

L’ostaggio  

di Eleonora Bernardi


Ancora un po’ e il treno sarebbe entrato in stazione.
E’ incredibile, pensò, con quanta facilità sono riuscita a staccarmi dal mio mondo, dai problemi, e anche l’ansia che solo stamattina mi stringeva nella sua morsa, che fine ha fatto?
Si sentiva calma, leggermente strana, come chi si trova a recitare una parte e a godere del raro privilegio di potersi osservare con gli occhi di uno spettatore… così mise a fuoco i passeggeri, i compagni con i quali aveva spartito le ore del viaggio, dei quali aveva ascoltato le storie… ecco l’anziana signora che andava a raggiungere sua figlia, il giovane che tornava a casa, in licenza, l’uomo d’affari che aveva rinunciato a consultare i suoi incartamenti per prendere parte alla conversazione.
Tutti personaggi di una breve rappresentazione che stava per aver termine, dal momento che ognuno si apprestava a scendere.
Di lei sapevano che aveva trovato il coraggio di partire, che era ansiosa di ritrovare la sua amica per trascorrere insieme una breve vacanza, quello che non immaginavano era la cospicua dose di tranquillante che aveva ingurgitato, la stessa che le aveva disteso il sorriso e acceso la luce negli occhi.
– Complimenti! Sembra più giovane della sua età!
L’aveva detto qualcuno, e lei subito si era sentita una ragazzina, si era vista giovane, incosciente e piena di vita.
Comunque era andato tutto a meraviglia. Sarebbe arrivata in tempo utile per prendere la corriera, e poi finalmente i monti… e Arlette! Cinque lunghi giorni con Arlette! Da sole, senza mariti… (quello di lei), senza orari e senza legami. Un sogno!
Arlette l’attendeva sulla soglia della sua nuova casa di montagna.
Era proprio tutto come aveva immaginato, un quadro che avevano dipinto insieme per lungo tempo, una pennellata qua e là perchè ogni cosa fosse perfetta.
Sullo sfondo le montagne, al centro loro due strette in un abbraccio senza parole. Intorno il silenzio e una luce piena di gioia.
– Ce l’hai fatta! Ce l’hai fatta!
– Sì! Sì! – Ridendo.
Le parole e i racconti potevano aspettare.
– Entra, mettiti comoda! Ti piace la cucina? E il saloncino? Guarda le stanze… questa è la tua!
– Mi piace tutto! Davvero! Ma ora vado in bagno, un attimo, mi do una rinfrescata.
– Io intanto ti preparo un caffè, va bene? (La voce arrivava dal piano di sotto).
– Benissimo, grazie.
Una rapida occhiata allo specchio: sembrava proprio un’altra persona.
Nella pausa-caffè domande e risposte, a raffica.
– Ma “lui” è fuori?
– Sì, torna domenica.
– Lo sa che sono qui?
– No, oggi no, ma sa che saresti venuta, per questo è partito tranquillo…poi lo chiamiamo.
Arlette decide che l’amica è stanca, che dovrebbe riposare, lei pensa che l’effetto del calmante “perduri” visto che comincia a sentire una leggera sonnolenza.
Arlette insiste, e aggiunge che andrà a sbrigare una commissione con una vicina, roba di una mezzora, poi le racconterà.
– Tu intanto ti riposi, o ti guardi intorno… prendi nota degli errori!
– Errori? Non ne vedo…Vai, e torna presto!
Arlette è già andata, la porta si chiude con un piccolo scatto.
Si fa una rapida doccia, non le va di dormire. Si dedica alla ricognizione della libreria. Ecco i libri di Arlette, i “loro libri”: ci sono quasi tutti.
Sul divano un nuovo romanzo. Parla di un rapimento… in Afganistan, terra di banditi!
Si distende a leggere, la storia la cattura sin dalle prime righe.
Si ritrova con una mano premuta sul volto, davanti due occhi neri che la trafiggono e una voce:
– Zitta! Fai quello che dico e non ti succederà niente!
Si agita come una serpe, ma qualcuno la solleva come un fuscello e la porta via, sono in due, uno è in attesa al volante di una macchina e manco si volta, l’altro la stringe a sè come avesse tra le mani un sacchetto… S’infila in macchina, la tiene tra le braccia con aria di possesso.
– Stai calma, ché non ti succede niente!
(Sta dormendo, se ne vuole convincere…)
La macchina si avvia velocemente, senza rumore. Vede scorrere alberi e case, poche, e la testa di chi guida, un berretto e occhiali scuri.
Il suo padrone puzza, ha un odore acido insopportabile, lei si sente ancora tutta bagnata, e poi ha perso gli occhiali, come farà a leggere?
Viaggiano per un tempo interminabile, pensa ad Arlette che non la troverà al suo ritorno e sarà disperata…Si mette a piangere con singhiozzi convulsi.
– Falla smettere! Sennò ci penso io!
E’ la voce di chi guida, la colpisce l’italiano perfetto, senza accento.
Niente più case, solo alberi e montagne, poi sono arrivati.
Questa volta la porta in braccio come una bambina, o come una sposa, entrano.
La baita è di legno annerito impregnato di cento odori, su tutti prevale il fumo stantio e l’unto della sporcizia.
Le libera il volto dalla manaccia e l’adagia su una specie di branda.
Lei salta su, come un cobra… è così che si sente, invece il cobra è negli occhi dell’uomo, tondi, neri e minacciosi.
– Ecco, qui puoi strillare quanto vuoi, non ti sente nessuno!
L’amico è fuori che traffica intorno alla macchina.
– Chi siete? Che volete?
-Soldi, solo soldi! Tuo marito pagherà e tornerai a casa! Dipende da lui…
Pensa velocemente: – Mio marito? Quale marito? Solo Arlette ha il marito.
In un lampo si dice:- Questi sono capaci di andare a prendere anche Arlette, oppure visto che…la faranno sparire!
Pensano che lei sia Arlette, bene! Glielo lascerà credere…che chiedano pure il riscatto, intanto Arlette avrà già trovato i suoi occhiali, il libro…avrà capito tutto e messo in moto ogni cosa!
– Ho sonno, risponde – Tanto sonno!
– Meglio così. Ma non cercare di scappare!
Il brutto ceffo si allontana chiudendo a chiave la porta.
Lei piomba nell’oscurità della baita e della coscienza. Evviva i tranquillanti! Dio li benedica!

Si risveglia al rumore delle stoviglie con lo stomaco che si contorce dalla fame, intorno aleggia un delizioso profumo di buon cibo.
Arlette le è accanto con i suoi occhi ridenti e il viso cosparso di puntini dorati..le sue lenticchie!
– Hai dormito un bel po’! Forza, pigrona, vieni a mangiare!
– Io…Tu…
Non riesce a parlare. Il libro è lì, gli occhiali pure.
Afganistan…
Forse, dopotutto, ha dormito davvero.

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E si affaccia la sera

(Foto tratta da  viadellebelledonne.wordpress…)

Mi giungono i rumori dalla strada,

voci che non ho voglia di ascoltare,

un bambino che corre,

una madre che insegue,

qualcosa che cade.

 

E’ la vita che avanza

e si affaccia la sera.

La mia vita

che un giorno lontano

apriva i suoi occhi sul mondo

con grande fatica.

 

E’ trascorso quel tempo,

ma ritorna al mio fianco

quando il buio prevale

sui viali del parco vicino.

 

Rimane in un angolo

fondo del cuore

il ricordo di mio padre e mia madre,

un tenero affetto durato negli anni,

lo stretto legame di un sogno.

Piera M. Chessa