![]() (foto tratta da http://picasaweb.google.com/lh/photo/wBrK5r32c4rkdKEU9tPURw)
Ho letto parecchi racconti scritti da Milvia Comastri ed ogni volta mi stupisco per la sua grande immaginazione, che nasce, secondo me, dall’attenzione e dalla cura messe nell’osservare intorno a sè, ma anche in se stessa e dentro l’animo delle persone che incontra. Il dono
Buio luce buio luce freddo caldo pioggia neve vento.
La sua vita era questa, un’alternanza scandita dagli elementi della natura. L’orologio per misurare la durata del giorno. Il calendario per comprendere l’avvicendarsi delle stagioni.
I suoni erano il fruscio delle brezze fra le foglie degli alberi, il ruggire del mare quando c’era tempesta, il rumore goffo di un frutto maturo che cadeva da un ramo, il ticchettio della pioggia sul tetto della capanna, il fragore del tuono, che pareva spaccare il cielo.
E la sua voce, che a volte era un bisbiglio concitato, a volte un grido prolungato che straziava l’aria.
Ma a pensarci, era tanto che non gridava più. A un certo punto era subentrata una sorta di rassegnazione, come una pazzia soffocata. Era rimasto il bisbiglio e a volte un canto, una ninna nanna che le usciva dalle labbra, senza consapevolezza.
“ Fa la nanna, mio tesor,
sogna gli angeli belli…”
Ma i suoi figli non sognavano più (da quanto tempo?). Non c’erano più sogni nel mondo (da quando?). Nel mondo era rimasta solo lei. E la sua disperazione senza più sogni.
Nell’altra vita le era capitato tante volte: si sedeva al computer, entrava in un sito, e improvvisamente si apriva un quadratino luminoso, pieno di stelline lampeggianti che conteneva un messaggio: sei stato scelto, clicca qui e riceverai un regalo. Non ci era mai cascata, non aveva mai premuto il mouse per scoprire quale regalo si celasse dietro quell’invito. Sapeva che, nella migliore delle ipotesi, avrebbe trovato solo un messaggio pubblicitario. E lei, poi, non aveva bisogno di regali. Il regalo erano i suoi figli, suo marito, gli amici, il regalo era poter condividere con gli altri le bellezze e i dolori della vita.
Eppure quella mattina l’aveva fatto. Forse perché non c’erano stelline lampeggianti, forse perché la scritta aveva riempito tutto lo schermo ed era racchiusa in un rettangolo sobrio, quattro linee sottili colore indaco.
“Sei tu l’eletta”, diceva la scritta.
Ed Eve-Marie aveva cliccato.
Sullo schermo era apparso il nome della sua città seguito da quello di una piazza a lei sconosciuta.
Aveva cercato sulla mappa, ma quella piazza pareva non esistere. Cercò ancora, inutilmente. Sentì improvviso l’impulso irrazionale di recarsi comunque in quel luogo, così, senza porsi domande.
Era uscita di casa, era salita in macchina, aveva acceso il gps e digitato l’indirizzo. Ed era successo: la voce metallica aveva cominciato a dare indicazioni, con quella sua intonazione perentoria. Aveva pensato ai suoi figli, e aveva sorriso. La signorina che non ti fa perdere mai: la chiamavano così, loro, quella voce.
Aveva attraversato la città, era arrivata in una zona di estrema periferia che non conosceva. La voce continuava a farle da guida. Svoltare a destra. Dopo duecento metri svoltare a sinistra.
Ed eccola la piazza, con case diroccate ai margini, una fontana al centro mangiata da ruggine e muschio.
Il numero era il 7.
Il portoncino era aperto. Dietro, solo una scala. Ripida, con i gradini sbrecciati
Cominciò a salire, il cuore sempre più in affanno.
C’era un vecchio ad attenderla sul pianerottolo dell’ultimo piano.
“ Siamo lieti che tu sia qui” le aveva detto il vecchio, facendola entrare in una stanza dalle pareti azzurre.
“La nostra scelta su di te è dovuta al caso, a un mero intersecarsi di tempo e spazio” aveva detto con una voce sottile priva di qualsiasi inflessione.
“Il Fato, lo chiamavano gli antichi. Tu ti sei trovata al centro dell’incrocio. Noi siamo qui per farti un dono. Attraverso questo dono tu sconfiggerai la Morte” , aveva proseguito
Le aveva preso una mano e le aveva messo al polso un bracciale fatto di un materiale che a lei aveva ricordato la pietra di luna. Aveva chiuso il monile con una piccola chiave che aveva poi riposto in tasca.
“Ora vai”, le aveva detto, scostandosi da lei e girandole le spalle “ Solo nel tempo potrai capire se il nostro dono è un privilegio.”
Non era riuscita a pronunciare parola, Eve-Marie, davanti a quel vecchio, come se le sue labbra fossero sigillate, e anche il pensiero, lo fosse.
Come un automa era tornata in strada. Il sole sbatteva impietoso sulle vecchie pietre della piazza. Eppure lei stava gelando.
Solo fuori, sotto quella luce accecante, sembrò riacquistare coscienza.
“Un pazzo”, si disse mentre apriva la portiera dell’auto. Il portachiavi sbatté contro il braccialetto, creando un piccolo suono vibrante. “ E pazza io, a venire qui”, mormorò.
Mise in funzione il riscaldamento della macchina, ma il gelo che le era penetrato nelle ossa non l’abbandonò per tutto il tragitto di ritorno.
Fu il giorno dopo che accadde la catastrofe. Ma non ne parlò nessun giornale. E nessuna rete televisiva ne propose le immagini. Non era rimasto nessuno per poterla raccontare e mostrare. E nessuno per poterla ascoltare.
In un attimo, il giorno dopo, nel medesimo istante, si erano dissolti tutti: uomini, donne, animali.
Si erano dissolti i bambini.
Si erano dissolti i suoi figli. Erano lì, nel soggiorno, a giocare sul tappeto e in un attimo di loro era rimasta solo una traccia come di fumo di sigaretta. Poi neppure quella.
Per Eve-Marie quel momento era il ricordo più atroce. Più di ogni altro. Più che ricordare il suo camminare e camminare e camminare alla strenua ricerca di un altro essere vivente. Più che ricordare i tanti tentativi falliti per porre fine alla sua vita. Più che ripensare all’infinità di volte in cui aveva ostinatamente cercato di aprire quel braccialetto, riuscendo solo, ogni volta, a spezzarsi il polso. Più atroce che vivere in quella solitudine assoluta, dove non esisteva più alcun punto di riferimento.
Dopo quel primo giorno erano scomparsi in poco tempo anche gli edifici e gli oggetti e le macchine. E tutto quello che l’uomo aveva creato in migliaia, milioni di anni. Dissolta la pietra, dissolto il vetro e l’acciaio, dissolte le cattedrali e i luoghi del potere.
Solo la natura era rimasta intatta: le piante, le montagne, i corsi d’acqua, il mare.
E lei, Eve-Marie: prima-ultima donna.
Quel mattino fu svegliata da un suono che non riconobbe. Non era il fruscio del vento, né il rumore di un frutto che cadeva a terra, né il brontolio del tuono che preannunciava un temporale. Era un suono che le ricordava un tempo lontano.
Strisciò fuori dalla capanna.
C’era un uccello, fermo ai piedi della quercia. Era bianco, solo le punte delle ali avevano una sfumatura color indaco.
La fissava con uno sguardo stanco, da vecchio rassegnato.
Dal suo becco sporgeva una piccola chiave.
Milvia Comastri
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